Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/02/2011, a pag. 5, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Alì Belhadj, numero due del Fis algerino, dal titolo " Alla fine noi musulmani porteremo la guerra a Gerusalemme ", l'articolo di Sergio Romano dal titolo " Il «Re Sole» del deserto e quella provincia mai domata ". Dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Bahrein, il re cede: dialoghiamo ". Da REPUBBLICA, a pag. 15, l'articolo di Giampaolo Cadalanu dal titolo " Tra i giovani che sfidano gli integralisti: La Tunisia deve restare laica ", preceduto dal nostro commento, a pag. 1-28, l'articolo di Ulrich Beck dal titolo " Il muro arabo", preceduto dal nostro commento.
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Alla fine noi musulmani porteremo la guerra a Gerusalemme "
Alì Belhadj, numero due del Fis
«Un Medio Oriente democratico e islamico per forza di cose tornerà a fare la guerra con Israele. Mi sembra inevitabile. Non vedo come potrebbe andare diversamente. La Palestina è terra sacra per l’Islam, alla fine anche i Fratelli Musulmani in Egitto si lanceranno alla sua riconquista, con il sostegno di tutti noi» . Sdraiato sui tappeti in una casupola tappezzata di libri religiosi nel quartiere di Kalitous, una delle tante periferie povere della capitale, Alì Belhadj racconta per oltre due ore la sua visione per il futuro del Medio Oriente. Numero due del Fis, il Fronte di Salvezza Islamico (il numero uno, Abassi Madani, è in esilio nel Qatar), il movimento che nel 1991 aveva vinto le elezioni in Algeria e poi venne duramente combattuto dal governo laico con il sostegno dell’esercito, Belhadj da allora ha trascorso almeno 15 anni in cella. Oggi è in libertà condizionata. Sabato 12 febbraio era in piazza a manifestare contro il regime di Abdelaziz Bouteflika. Ieri gli è stato impedito. A 53 anni resta la bestia nera del fronte laico di protesta, che accusa i militari di esagerare la sua importanza per criminalizzare l’intero movimento. Il figlio ventenne, Abdelkahar, dall’ottobre 2006 è alla macchia, si pensa con le colonne di Al Qaeda operanti nel deserto magrebino, le stesse che rivendicano il rapimento della turista italiana Maria Sandra Mariani il 2 febbraio nell'oasi di Djanet. In quale veste lei si unisce alle manifestazioni? «Come semplice cittadino. Rispondo agli appelli dei movimenti democratici. Lotto per cambiare il sistema, abbattere questa dittatura corrotta che voi occidentali aiutate in ogni modo» . L’Occidente teme i gruppi islamici radicali come il suo. Come può rassicurarlo? «Ci temono perché non ci conoscono. Europa e Stati Uniti non ricordano che nel 1991 noi avevamo vinto le elezioni municipali in modo assolutamente democratico. Il popolo ci aveva scelto a grande maggioranza. Ma poi la dittatura militare ci ha cacciato. Con il vostro pieno sostegno» . Una delle paure oggi è che i partiti islamici possano cancellare gli accordi di pace firmati da Egitto e Giordania con Israele. Lei che farebbe? «Lo sceglierà il popolo, sarà una decisione libera. Io penso che comunque Israele sia paragonabile alla Francia coloniale in Algeria prima del 1962. Era un corpo estraneo, artificiale. Alla fine è stata scacciata. Ma, ci tengo a sottolinearlo, la nostra è una lotta politica contro Israele, non una campagna religiosa contro gli ebrei» . Lei parla di democrazia, però più volte gli estremisti islamici hanno sostenuto di non accettare i modelli politici occidentali. «Io credo al modello islamico dei primi califfati dopo Maometto. Da voi persino Jean-Jacques Rousseau e Churchill pensavano che la democrazia rappresentativa non fosse perfetta» . Eppure c’è una componente profondamente laica nelle rivolte delle ultime settimane. In Tunisia è fortissima. «L'Algeria non è la Tunisia. Da noi, come del resto in Egitto, le dittature hanno metodicamente perseguitato le forze religiose. Non abbiamo avuto modo di farci conoscere» . È pronto a condannare il terrorismo islamico? «Siamo contro la violenza. Io non ho partecipato al decennio del terrorismo in Algeria, allora ero in carcere. Ma in quei fatti lo Stato ha responsabilità dirette» . Nel Medio Oriente attuale qual è per lei il governo migliore? «Quello turco di Erdogan» . Se sapesse che suo figlio è tra i rapitori della turista italiana gli direbbe di liberarla? «Non so nulla di lui da molto tempo. Mi dicono persino che potrebbe essere in Francia» .
CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " Il «Re Sole» del deserto e quella provincia mai domata "
Sergio Romano
Muammar el Gheddafi è il più longevo e il più ideologico dei leader del mondo arabo. Quando rovesciò la monarchia e prese il potere nel 1969, si considerava pupillo e seguace di Gamal Abdel Nasser, il colonnello egiziano che aveva cacciato re Farouk dal Cairo nel 1952. Conosceva a memoria «La filosofia della rivoluzione» , il libro in cui Nasser aveva delineato le grandi linee di un programma nazionalista, socialista e panarabo. I suoi compagni di congiura erano, nelle sue intenzioni, l’equivalente degli «ufficiali liberi» che il giovane Nasser aveva cercato di riunire intorno a sé, con intenti antibritannici, mentre l’Afrika Korps di Rommel, nel 1942, avanzava verso Alessandria. Ha scritto il «Libro verde» perché voleva, come Nasser, impartire ai suoi connazionali e all’intera regione una sorta di catechismo politico. Ha perseguito una politica panaraba e panafricana perché desidera passare alla storia come il continuatore delle strategie geopolitiche di Nasser. Ed è colonnello, anche se avrebbe potuto aspirare a una più alta distinzione, perché questo è il grado che il suo modello egiziano conservò sino alla morte. Se qualcuno osasse parlare del suo regime come di una tiranniamedio-orientale, Gheddafi sosterrebbe di avere creato la democrazia araba: un sistema in cui il potere è esercitato «dal basso» grazie ad assemblee popolari distribuite sull’intero territorio in cui si discute, si delibera e si prendono decisioni che il governo centrale dovrà tradurre in programmi politici. La realtà è alquanto diversa. Le assemblee popolari assomigliano ai soviet, organismi che hanno dato il loro nome alla Russia bolscevica ma non hanno mai avuto alcuna rilevanza politica. La politica panaraba ha prodotto soltanto fusioni fallite, come quella libico-tunisina del 1974, l’unione libico-marocchina del 1984, l’Unione del Maghreb arabo del 1988, e una lunga serie di screzi, bisticci, incidenti di frontiera, accuse reciproche, persino una breve guerra con l’Egitto nel luglio 1977. La politica panafricana ha procurato al leader libico qualche successo formale, come la presidenza dell’Unione africana, ma pochi risultati concreti. All’origine di questi fallimenti vi sono soprattutto la sua persona e il suo stile. Gheddafi è intelligente, qualche volta persino geniale, e non è privo di un certo spavaldo coraggio. Ma è umorale, capriccioso, tirannico, una sorta di Luigi XIV del deserto, un monarca beduino che alloggia in una tenda imperiale, veste uniformi operistiche, si circonda di amazzoni giunoniche ed è dominato da una insopprimibile inclinazione a fare un uso tenebroso del denaro che le risorse petrolifere hanno procurato allo Stato libico. Secondo Angelo Del Boca, la lista dei beneficiati di Gheddafi potrebbe includere, oltre all’Ira (Irish Republican Army), il Fronte di liberazione eritreo, i guerriglieri anti-marocchini del Polisario, la Zimbabwe African National Union della Rhodesia, la South West African People’s Organization della Namibia, il Movimento per l’indipendenza e l’autodeterminazione delle Isole Canarie, il Fronte nazionale di liberazione dell’Oman, il Movimento popolare di liberazione dell’Angola, il National Congress del Sud Africa, la minoranza islamica della Thailandia e quella delle Filippine, i ribelli della Colombia e del Salvador, i curdi, i kanak della Nuova Caledonia, gli abitanti di Vanuatu nelle Nuove Ebridi. Per rendere più credibili le sue spropositate ambizioni, Gheddafi ha dato prova di una straordinaria bulimia militare: carri armati, cannoni, caccia, velivoli da trasporto e ricognizione, corvette, fregate, missili, un programma per la fabbricazione di armi chimiche e, da ultimo, l’avvio di un progetto per la costruzione di un ordigno nucleare. Non sorprende che Gheddafi sia stato, a turno, nemico di tutti gli Stati della regione, di quasi tutte le democrazie occidentali e naturalmente, soprattutto dopo i sanguinosi attentati di Berlino e Lockerbie, degli Stati Uniti. Persino i Paesi con cui aveva buoni rapporti dovettero in qualche circostanza perdere la pazienza. Chi scrive ricorda la sua visita di Stato a Mosca nella seconda metà degli anni Ottanta. Per rendergli omaggio i sovietici avevano invitato nella più bella ala del Cremlino l’intero corpo diplomatico. I padroni di casa e gli ambasciatori lo aspettarono per due ore e se ne andarono senza avere avuto l’onore della sua presenza. Gheddafi non ha avuto soltanto nemici esterni. Dopo essersi sbarazzato degli oppositori e degli esuli con operazioni mirate che suscitarono la rabbia dei Paesi in cui avevano trovato rifugio, Gheddafi ha dovuto fare i conti con i suoi avversari islamisti e sfuggire più di una volta ai loro attentati. È questa probabilmente una delle ragioni per cui gli Stati Uniti, nel 2004, decisero di revocare le loro sanzioni contro la Libia. Il leader libico non voleva fare la fine dell’Iraq e gli americani, d’altro canto, ritennero che il suo regime fosse un utile baluardo contro le ramificazioni di Al Qaeda nell’Africa settentrionale. Per facilitare l’accordo Gheddafi confessò l’esistenza di un programma nucleare e mise nelle mani degli americani le prove della «connection pachistana» (la rete commerciale creato dallo scienziato Abdul Khadeer Khan). Sembrò, a quel punto, che la salamandra Gheddafi fosse uscita indenne dal fuoco incrociato dei suoi nemici e potesse lavorare tranquillamente al consolidamento del regime scegliendo per la successione l’uno o l’altro dei suoi figli. Un calcolo tragicamente sbagliato? Per capire che cosa stia accadendo ora in Cirenaica vale la pena di ricordare le sanguinose manifestazioni di Bengasi del febbraio 2006, apparentemente provocate dalla infelice sortita televisiva di un ministro italiano, Roberto Calderoli, che sbottonò la camicia per mostrare alle telecamere una t-shirt su cui era riprodotta una vignetta satirica contro Maometto apparsa in un giornale danese. Come disse Francesco Cossiga in una intervista al Corriere, quelle manifestazioni erano molto più dirette contro Gheddafi di quanto fossero anti-italiane. La Cirenaica è la patria della Senussia, l’organizzazione religiosa che ha lungamente combattuto gli italiani sino all’inizio degli anni Trenta e ha dato alla Libia il suo primo e unico re. Nei circoli islamici di Bengasi e Al Bayda (in epoca italiana Beda Littoria), i modelli di riferimento sono quelli della Fratellanza musulmana, mentre il Libro verde di Gheddafi è un testo sacrilego e le omelie politiche del colonnello nelle moschee di Tripoli sono blasfeme. Se le rivolte di Tunisi e del Cairo sono state prevalentemente laiche, quella di Bengasi, invece, ha una forte nota religiosa. È possibile che Gheddafi possa reprimerla senza suscitare la collera di Tripoli, dove ha fatto una pubblica apparizione, venerdì scorso, passando attraverso la folla osannante dei suoi seguaci. Se invece il tentativo fallisse e il colonnello libico dovesse fare la fine di Ben Ali e Mubarak, l’Europa potrebbe trovare di fronte a sé interlocutori alquanto diversi dall’esercito egiziano e da quello tunisino. Per l’Italia, partner economico anche negli anni in cui i rapporti politici erano pessimi, la crisi libica sarebbe molto più grave delle altre due. E per Berlusconi, in particolare, sarebbe una sconfitta personale. Il presidente del Consiglio ha avuto il merito di chiudere con un accordo importante il vecchio contenzioso italo-libico. Ma ha raggiunto l’obiettivo con un rapporto d’amicizia che ha oltrepassato in qualche occasione i limiti del decoro internazionale. La sconfitta di Gheddafi sarebbe inevitabilmente anche la sua sconfitta.
La STAMPA - Domenico Quirico : " Bahrein, il re cede: dialoghiamo "
Bahrein
Da Algeri al Bahrein, da Gibuti allo Yemen, tutte le piazze, tenaci e inaggirabili, restano in fiamme, il fato rivoluzionario ha ormai preso la rincorsa. I regimi in pericolo tentano manovre diversive, tendono la mano con promesse e assicurazioni di rinnovamento in studiata simmetria con la repressione. Ma non convincono, c’è il sospetto che stiano solo scavizzolando trappole e cavilli.
Come in Bahrein, dove la guerra è tra sunniti al potere con la famiglia reale e sciiti. A Manama l'esercito si è ritirato da piazza della Perla. Era una delle condizioni poste dall’opposizione per aprire il dialogo col principe ereditario Salman ben Hamad al Khalifa, esponente di una dinastia infettata secondo i protestatari da madornali stravizi. E ora anche con le mani insanguinate per i dimostranti uccisi questa settimana. Ma il capogruppo di al Wefaq, il principale blocco sciita, ha respinto l’offerta del dialogo imponendo un’altra condizione: vuole che prima il governo si dimetta e i militari tornino nelle caserme. Un’altra sfida arriva dai sindacati, che per oggi hanno proclamato uno sciopero a oltranza e minacciano il finimondo.
Il regime algerino, invece, non ha rinunciato alla strategia di spianare le costole e rompere la testa a un bel numero di sediziosi. Dozzine di blindati hanno disperso un migliaio di manifestanti che avevano raccolto l’invito dei gruppi per la difesa dei diritti umani ad andare in piazza a gridare «potere assassino» e «viva l’Algeria democratica». Il loro obiettivo era piazza Primo maggio, luogo simbolico della sofferta storia del Paese. Ma hanno promesso di ritornare ogni sabato fino a quando il presidente Bouteflika non se ne andrà. È una speranza ancora flebile, qui il governo, esoso e sopraffacente, sembra disporre delle risorse, non solo repressive, per fronteggiare la situazione: le immense riserve che il petrolio garantisce loro.
Anche il regime di Saleh nello Yemen non cede: ha scatenato le squadracce dei sostenitori con subbugli e canagliate. A Sana’a ieri si sono scontrati con i manifestanti con un bilancio di almeno due morti (fra cui un poliziotto) e numerosi feriti. Nella capitale le masnade di Saleh hanno cercato di prendere d’assalto il campus dell’università. Scelta mirata, è il cuore della contestazione contro il Presidente al potere da 32 anni. Ad Aden, durante la notte tra venerdì e sabato, sono stati invece i manifestanti a prendere l’iniziativa: hanno cercato di assaltare il quartier generale della polizia ma sono stati respinti a fucilate. «Né Nord né Sud, la nostra rivoluzione è quella dei giovani» scandivano i manifestanti. Sanno che devono distinguersi dal movimento separatista che punta alla secessione del Sud indipendente fino al 1990. È l’accusa che il Presidente, mercante all'ingrosso di bugie, strumentalizza contro di loro, bollandoli come criminali che vogliono spezzare il Paese.
Anche a Gibuti ci sono stati scontri tra soldati e partigiani dell’opposizione in una banlieu della capitale. Chiedevano all’autocrate locale, il presidente Guelleh, di andarsene. Tre dei principali dirigenti dell’opposizione sono stati arrestati ieri; li accusano di «violenze e vandalismi». La prigione resta la principale istituzione dei Paesi a partito unico.
Oggi potrebbe essere una giornata chiave. Il Marocco, finora considerato al sicuro, rischia di essere inghiottito nel «maelström» della protesta. Il movimento per il cambiamento ha convocato la gente in piazza: chiede riforme costituzionali che riducano i poteri del monarca, Maometto VI, e una giustizia indipendente. Ci sono già segnali allarmanti. Ieri a Tangeri i manifestanti hanno saccheggiato una stazione di polizia e immobili di proprietà del gigante francese dell’energia Veolia: protestano contro le tariffe troppo elevate di acqua, energia e trasporti. Le rivelazioni di Wikileaks, che hanno denunciato la verità dei ladrocini dell’entourage sovrano, si sono diffuse, esiliando la favola del suo ruolo modernista e innovatore.
La REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu : " Tra i giovani che sfidano gli integralisti: La Tunisia deve restare laica "
Tunisia
La visione 'democratica' delle rivoluzioni del Maghreb è talmente radicata in Cadalanu, che nell'articolo arriva negare l'evidenza riguardo alle violenze contro ebrei e cristiani che sono reiniziate dopo il rientro in Tunisia degli islamismi e scrive : "l´idea che dietro le manifestazioni di intolleranza ci sia la mano dei fedelissimi di Ben Ali. Sarebbero questi a gestire e a pagare un manipolo di disperati pronti alla violenza, per dimostrare che senza il vecchio leader il modello secolare della Tunisia non è destinato a durare ". Una interpretazione troppo macchinosa per essere credibile, tanto più che Ghannouchi, l'islamico 'moderato', non ha fatto dichiarazioni di condanna per le violenze contro i non musulmani. Il modello di Ghannouchi è la Turchia di Erdogan, uno Stato islamico in cui non c'è libertà d'espressione e il cui premier ha preferito riavvicinarsi all'Iran, boicottando le sanzioni, e rompere le relazioni con Israele.
Ecco l'articolo:
TUNISI - Non sarà la Tunisia la prossima repubblica islamica sul Mediterraneo. La caduta di Ben Ali, siano vere o no le voci che ieri lo volevano morto o morente nell´esilio saudita, non deve travolgere lo Stato laico disegnato da Habib Bourghiba dopo l´indipendenza. Gli abitanti di Tunisi lo hanno voluto sottolineare in maniera decisa, perché qualche segnale aveva suscitato preoccupazione nelle cancellerie dell´Occidente.
La settimana scorsa 40 fondamentalisti avevano manifestato davanti alla sinagoga di avenue de la Liberté a Tunisi, gridando frasi come: «Ebrei, l´esercito di Maometto sta tornando», oppure: «Ripetiamo la battaglia di Khaybar», cioè il massacro degli ebrei del 629 d. C. nella penisola arabica. Venerdì un prete salesiano, Marek Rybinski, era stato trovato con la gola tagliata nel garage di una scuola cattolica, nel quartiere di Manouba. Più tardi un gruppo di fanatici aveva cercato di dare fuoco a una casa chiusa nel cuore della Medina, il centro storico della capitale. I dimostranti protestando contro la tradizionale tolleranza tunisina verso la prostituzione. La polizia ha sgombrato gli integralisti, ma secondo alcuni testimoni solo con la promessa di vietare l´attività "scandalosa" nella zona.
Segnali inquietanti, condannati duramente anche dal movimento politico islamico Ennahda (Rinascita), come «una tattica per distrarre i tunisini dagli obiettivi della rivoluzione». Ma i giovani della capitale, protagonisti della rivolta, hanno voluto dare una risposta molto forte: ieri erano almeno 15 mila a manifestare nell´avenue Bourghiba, gridando che «la laicità è garanzia di libertà e tolleranza», oppure «basta con gli atti di estremismo». Fra i cartelli, c´era anche quello di chi metteva nero su bianco un sospetto diffuso: «L´Islam è pace, non fatevi ingannare dalla cospirazione dei Trabelsi». In altre parole, l´idea che dietro le manifestazioni di intolleranza ci sia la mano dei fedelissimi di Ben Ali. Sarebbero questi a gestire e a pagare un manipolo di disperati pronti alla violenza, per dimostrare che senza il vecchio leader il modello secolare della Tunisia non è destinato a durare.
È solo un´ipotesi, che si allarga fino a individuare persino responsabilità più o meno fantasiose di Paesi in cui l´Islam di Stato è più radicale, quelli in cui una manifestazione con giovani, assieme a ragazze col capo scoperto, sarebbe stata impensabile. Al contrario, è una certezza che finora le forze islamiche tunisine hanno mostrato un volto moderato, anche se il loro ruolo è cresciuto durante la rivoluzione dei Gelsomini. «Il movimento islamico è stato il più represso durante la tirannia di Ben Ali», spiega Salah Jourchi, studioso dei movimenti musulmani. Secondo l´esperto, «i seguaci dell´Islam politico sono più numerosi dell´opposizione laica al vecchio regime». A suscitare la repressione era stato il risultato elettorale del 1989: nonostante i brogli, Ennahda aveva ottenuto il 17 per cento, arrivando secondo dopo il partito al potere. Questo aveva convinto Ben Ali della necessità di reprimere il movimento, costringendo il leader Rachid Ghannouchi a riparare in Gran Bretagna.
Rientrato in patria il mese scorso dopo 22 anni di esilio, Ghannouchi ha subito dichiarato che non sogna una repubblica islamica e che non intende presentarsi alle elezioni. Ma le incertezze nel futuro politico della Tunisia, oggi guidato ad interim da un altro Ghannouchi, il premier Mohamed (nessun legame di parentela), potrebbero rilanciare tentazioni radicali nel leader di Ennahda, in passato protagonista di dichiarazioni meno moderate contro Israele e gli Stati Uniti.
A giudicare dagli eventi di queste settimane, alla fine, elemento decisivo sarà la capacità della società tunisina di trovare un ruolo per i giovani, protagonisti della rivolta e ancora ieri in piazza: se il disagio sociale confluirà nell´azione politica o si salderà invece con l´identità islamica. Ieri nel centro di Tunisi erano moltissimi i ragazzi che promettevano il sangue alla patria, cantando l´inno nazionale. Parecchi di meno quelli che gridavano: «Allahu Akbar». C´erano ragazze con assieme i jeans e il velo. Bourghiba lo chiamava «lo straccio odioso», molte giovani tunisine oggi lo rivalutano: «Se indossarlo o no, decido solo io».
La REPUBBLICA - Ulrich Beck : " Il muro arabo "
Ulrich Beck
Come Cadalanu, anche Ulrich Beck crede che le rivoluzioni del mondo arabo non abbiano nulla a che vedere con l'islam radicale e scrive : " Una differenza essenziale tra il 1989 europeo e il 2011 arabo sta però anche nel fatto che l´Europa, bloccata e fuorviata dall´islamofobia, non vuole comprendere che (finora) c´è anche una serie di innominati perdenti della rivoluzione araba, ossia in primo luogo il fondamentalismo islamico - fino ad al Qaeda - e in secondo luogo il coro dei critici fondamentalisti del fondamentalismo islamico (in Germania Necla Kelek, Thilo Sarrazin e compagni). ". In Egitto il fondamentalismo islamico sarebbe sconfitto. E il fatto che i Fratelli Musulmani siano pronti a candidarsi alle elezioni con un partito non dimostra il contrario? Nei giorni scorsi diversi quotidiani italiani hanno pubblicato interviste con alcuni loro esponenti. Le loro dichiarazioni su sharia e rapporti con Israele non hanno nulla a che vedere con la moderatezza.
Per quanto riguarda quello che Beck definisce " coro dei critici fondamentalisti del fondamentalismo islamico" non si capisce perchè sarebbe uscito sconfitto dalla rivoluzione in Egitto. Descrivere le violenze connesse all'islam non significa essere fondamentalisti.
Ecco l'articolo:
Cos´hanno in comune la rivolta in Tunisia e quella in Egitto con il crollo del muro di Berlino? Non è accaduto soltanto qualcosa di imprevisto e imprevedibile, ma anche qualcosa di inimmaginabile."Follia" è la parola che allora e oggi esprimeva ed esprime il crollo delle certezze. Chi avesse predetto che due regimi autoritari del mondo arabo sarebbero caduti e che gli altri avrebbero vacillato, sarebbe stato considerato pazzo. Finora in Occidente si era ritenuto che ci si potesse attendere il mutamento politico soltanto dall´alto, il colpo di Stato di regime, o, nel caso peggiore, da parte dei movimenti degli islamisti fondamentalisti. Ammettere solo queste due ipotesi ha impedito agli esperti di politica di cogliere ciò che andava diffondendosi: il contropotere, non ideologico ed espresso dalla società civile, di una nuova generazione collegata in Rete a livello globale, che era considerata del tutto "impolitica". Ma i giovani del Cairo sono riusciti a penetrare dal mondo virtuale nella realtà politica. Si tratta di una rivoluzione di tipo nuovo.
Sono state le contraddizioni in cui si è impigliato il regime autoritario di Mubarak con la sua politica di modernizzazione ad aprire la strada a questa rivolta inimmaginabile. Già nel 1997 Mubarak aveva esortato gli egiziani a sfruttare le nuove opportunità di Internet. Voleva fare dell´Egitto il modello di una moderna società del sapere nel mondo arabo. Dopodiché si cercò sempre di risolvere con mezzi autoritari la contraddizione tra la libertà di navigare in Internet e la censura sulla stampa.
Si tratta di un "incendio di vaste proporzioni"? La rivoluzione araba è dunque un "rischio globale" - come quelli rappresentati dall´11 settembre, dalla crisi finanziaria o anche dal mutamento ambientale? Da essa può partire una frana politica che minaccia l´intera regione arabo-israeliana o addirittura l´ordine mondiale? La rivolta araba può anche essere un "terremoto" politico, ma non è un evento naturale: nasce dal coraggio di persone che nella loro disperazione sono riuscite a vincere la paura. Nel caso della rivoluzione araba si tratta di insurrezioni contro regimi autocratici, come quelle avvenute con la rivoluzione francese, la rivoluzione americana o la caduta del muro di Berlino nel 1989. A ragione la cancelliera tedesca, Angela Merkel, cresciuta nella Ddr, di fronte alle dimostrazioni pacifiche del Cairo ha ricordato le Montagdemonstrationen, le dimostrazioni pacifiche che hanno contribuito a abbattere il regime comunista.
Si può riconoscere tutta una serie di paralleli tra il 1989 europeo e il 2011 arabo: in entrambi i casi si tratta in primo luogo di rivolte non violente, in secondo luogo di catene di eventi transnazionali, e - terzo - in entrambi i casi i regimi avevano/hanno fatto bancarotta. In quarto luogo, i cittadini della Ddr si vedevano privati delle opportunità di vita, così come la gioventù araba, che a dispetto della buona istruzione si trova chiuse le porte del mercato del lavoro. In quinto luogo, là come qui la gente vuole la stessa cosa di gran parte delle persone dell´Occidente: una vita migliore maggiore uguaglianza sociale, posti di lavoro e libertà di opinione. In sesto luogo, tanto nel blocco orientale europeo quanto nei Paesi arabi la religione crea luoghi di rifugio sociale nei quali la resistenza si è potuta organizzare. Tuttavia, in settimo luogo, c´è questa differenza fondamentale: il crollo del Muro di Berlino era stato salutato e festeggiato in tutto il mondo. Ovunque, in tutte le teste e in tutti i governi, l´alternativa politica era presente. Si trattava soltanto del "come", non del "se", arrivare all´integrazione dei Paesi e degli Stati post-comunisti nel sistema del capitalismo democratico. Invece, per l´Egitto manca proprio questa chiara alternativa.
L´immagine del mondo arabo è cambiata. Ci sono buoni motivi per ritenere che l´era del post-colonialismo, nella quale la "democrazia" araba aveva assolto alla funzione di rendere possibile il persistere dell´imperialismo occidentale, sia giunta alla fine. Si può intendere la rivolta araba anche come una paradossale protesta condotta nel nome dei valori occidentali contro il perdurante dominio dell´Occidente. Lo si può rilevare considerando il ruolo dell´esercito egiziano che ha avuto una parte decisiva nell´aprire l´Egitto al mercato occidentale, ma nello stesso tempo ha assicurato il potere autoritario di Mubarak contro le richieste di partecipazione democratica. Molti egiziani sono scesi in piazza non soltanto per conquistare la loro indipendenza dal raìs. Essi manifestano anche per la loro indipendenza dagli Usa e dai loro alleati.
Una differenza essenziale tra il 1989 europeo e il 2011 arabo sta però anche nel fatto che l´Europa, bloccata e fuorviata dall´islamofobia, non vuole comprendere che (finora) c´è anche una serie di innominati perdenti della rivoluzione araba, ossia in primo luogo il fondamentalismo islamico - fino ad al Qaeda - e in secondo luogo il coro dei critici fondamentalisti del fondamentalismo islamico (in Germania Necla Kelek, Thilo Sarrazin e compagni). Non si tratta affatto di una rivoluzione teologica, ma demografica. Ciò che ha fatto battere il cuore di questa protesta non è stato l´islamismo radicale, ma la disoccupazione degli attivisti di Facebook, dotati di un alto livello di istruzione e connessi in rete. Guardate l´Egitto: non è una dimostrazione vivente della possibilità di unire l´Islam e i valori occidentali?
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