Egitto, 13/02/2011, tre commenti. Sulla STAMPA, a pag.1/29, l'analisi di quel grande scrittore che è Enzo Bettiza, che esprime con chiarezza come non si possano ancora trarre le conclusioni. Sul CORRIERE della SERA, Sergio Romano, a pag.1/30, preceduto da un nostro commento. Infine, dal SOLE24ORE del 12/02/2011, l'intervento di Farian Sabahi, preceduto da una nostra nota.
Ecco gli articoli:
La Stampa-Enzo Bettiza: " L'enigmatica vittoria delle masse"
Enzo Bettiza
Sono due, a mio parere, i tratti caratteristici di queste rivolte a catena delle masse arabe lungo le coste africane fino alla punta dello Yemen: il grandioso effetto domino, combinato con una certa indeterminatezza dell'approdo finale del loro travolgente e contagioso movimento da un Paese all'altro. Non si sa quello che potrà accader domani o dopodomani in Tunisia, dove per ora predomina un totale vuoto anarchico, da cui già erompono migliaia di profughi disperati verso Lampedusa. Ancor meno si sa quello che potrà accadere in Algeria, dove i primi sussulti di popolo si stanno scontrando con il potere militarizzato del presidente Bouteflika, addestrato alla soppressione spietata, più che mai deciso a soffocare nel sangue ogni forma di opposizione. Nemmeno è possibile prevedere cosa potrà accadere a giorni in Marocco, in Libia, in Giordania, dove l'ondata lunga dello tsunami non si è ancora manifestata pienamente. L'imprevedibilità è connaturata ai fermenti delle masse arabe, e, più in generale, alle velocissime mutazioni politiche ed economiche delle società arabe.
Queste inducono facilmente a valutazioni affrettate o errate. Basterà dire che un giornale analitico come l'Economist, notoriamente serio per le sue stime in campo internazionale, metteva l'anno scorso Egitto e Tunisia nel novero delle economie stabili del mondo.
Per intanto, sarà opportuno fermare l'attenzione su quanto è appena successo proprio in Egitto, il più cospicuo, più antico e più popoloso dei Paesi a maggioranza islamica dell'Africa settentrionale.
Oggi ottantacinque milioni di abitanti sotto un cielo procelloso; fino all'altro ieri due milioni giornalieri di greggio attraverso lo stretto di Suez, e migliaia di turisti istancabili fra le piramidi e le sponde del Nilo. Di colpo, dopo trent'anni di democrazia di facciata, manipolata dal pugno militare d'un capo di Stato sostenuto e finanziato dall'America, abbiamo assistito ai diciotto giorni di una sommossa sempre più vasta, più incontenibile, che sembrava avere e aveva un solo obiettivo individuabile: la cacciata dal Palazzo del presidente Mubarak. L'hanno definita «rivoluzione» o, addirittura, postmodernamente, «rivoluzione del web», poiché sarebbe stata la generazione dei computer e dei blogger ad accendere la scintilla di una rivolta coronata alfine dalla vittoria.
Le prime domande da porsi, a bocce un poco più ferme, sono due. Quale rivoluzione e quale vittoria? Le rivoluzioni in genere hanno una guida carismatica, una leadership politica o religiosa, un programma di cambiamento radicale come quello di Lenin nella Russia del 1917 oppure, per restare nell'universo islamico, di Khomeini nell'Iran del 1979. La massa rivoltosa che d'ora in ora cresceva nella piazza Tahrir è stata invece acefala. Priva di un programma nitido di libertà e di democrazia, è apparsa, sì, vastamente e variamente coagulata in diverse componenti sociali, studenti, operai, avvocati, medici, islamici dichiarati e no; ma non è apparsa capeggiata da un consapevole gruppo dirigente volto ad abbattere un sistema più che una persona che, per un trentennio, l'aveva rappresentato nel bene e nel male. Hosni Mubarak, in fondo, diligente e realistico protagonista di guerre e paci con Israele, non è stato che la punta estrema, pervertita dalla durata eccezionale, di una casta militare: casta a suo modo kemalista perpetuatasi a partire dal 1952, in un clima di democrazia illiberale, da Nasser a Sadat fino allo stesso Mubarak che, non a caso, i colleghi in divisa hanno allontanato dal potere esiliandolo con l'onore delle armi a Sharm El Sheikh, entro i confini del Paese. Nessuna fuga ignominiosa come quella di Ben Ali dalla Tunisia.
Ecco perché la vittoria enigmatica della massa egiziana può apparire oggi come una vittoria di Pirro. Una vera rivoluzione democratica, con la caduta del sistema militare e almeno una parziale rivalutazione prioritaria del ruolo del Parlamento, non c'è stata. C'è stato un fisiologico passaggio di testimone, acclamato da una massa quasi incapace di comprendere ciò che acclamava, dal logorato Mubarak al suo ministro della Difesa Tantawi. La tanto attesa «transizione alla democrazia», esaltata tardivamente dal presidente americano, verrà paradossalmente gestita da un Consiglio superiore delle forze armate? Mi pare superfluo aggiungere che i generali, una volta confiscata la vittoria delle masse e ristabilito il meccanismo dei controlli sulle masse, saranno più interessati a intralciare che stimolare l'avvento di una vera democrazia.
Un'ultima considerazione non può non riguardare il ruolo velato dei Fratelli Musulmani prima e durante la grande crisi. C'è chi sottolinea la presenza della setta islamica, fondata nel 1928, come un fattore non del tutto negativo nello sviluppo degli eventi in corso. Andrebbe comunque ricordato che i Fratelli hanno prodotto Ayman al-Zahawiri, medico egiziano oggi massimo ideologo di Al Qaeda, e che uno dei loro propagandisti di punta negli anni Cinquanta e Sessanta fu lo scrittore Sayyid Qutb, particolarmente ostile nei confronti dell'Occidente. La setta, che è ormai uno dei partiti meglio organizzati in Egitto, è stata attiva nell'eteroclita massa rivoltosa tramite i sindacati dei medici e degli avvocati da essa creati e controllati. Hamas è una delle sue propaggini nella Striscia di Gaza. I Fratelli Musulmani, combattuti e spesso duramente perseguitati dalla casta laica e panarabista dei militari, hanno un peso virtuale in termini elettorali che non supera comunque il venti per cento; si muovono e s'infiltrano dove possono con dovuta circospezione. Sopravvalutarla sarebbe eccessivo; ignorarla, pericoloso.
I pericoli che circondano l'Egitto dopo l'uscita di scena di Mubarak non sono certo finiti. Una brusca svolta o scossa islamista della «transizione» potrebbe farsi sentire da un momento all'altro. Anche perché una politica estera europea non esiste, mentre l'America di Obama sembra avere la testa altrove. Washington, in effetti, sembra più che mai ossessionata dall'islamismo asiatico: come controllare il Pakistan, come uscire dall'Afghanistan, come trovare un modus vivendi con l'Iran. L'islamismo araboafricano ha comunque e pur sempre nell'Egitto, ancorché meno importante d'una volta nell'agenda strategica degli Stati Uniti, un suo perno vitale oggi particolarmente esposto e sensibile. Nessuno lo sa meglio di Israele e dell'Arabia Saudita. Sono queste le due potenze regionali che più temono il disinteresse americano per il Medio Oriente e che, da opposti punti di vista, scrutano con crescente preoccupazione le torbide acque del Nilo.
Corriere della Sera-Sergio Romano: " Curioso, esultiamo per un golpe militare"
Nell'analisi di Sergio Romano c'è un vuoto. Descrive ciò che è avvenuto, ma si dispiace che a reggere le sorti del paese siano i militari. Per onestà, avrebbe dovuto scrivere quale era la soluzione di suo gradimento, per esempio elezioni subito, con probabile vittoria del duo ElBaradei-Fratelli Muslmani. Non l'ha scritto, ma, conoscendo il suo giudizio sull'islamizzazione della Turchia, era facile intuirlo.
Sergio Romano
Ci sono elementi controversi in questo terremoto egiziano. Resta da capire perché quasi tutti i governi democratici abbiano accolto un golpe con soddisfazione. Può darsi che il passaggio dei poteri al Consiglio supremo delle forze armate sia la migliore soluzione possibile della crisi egiziana. Ma converrebbe, per amore di chiarezza, chiamare ciò che è accaduto con il suo nome. Stiamo applaudendo un colpo di Stato militare. Hosni Mubarak aveva delineato un percorso che avrebbe modificato tre cruciali articoli della costituzione (fra cui quello che gli ha consentito di conservare per trent’anni le leggi di emergenza promulgate dopo l’assassinio del suo predecessore) e si sarebbe concluso con le elezioni presidenziali di settembre. Erano parole credibili nella bocca di un uomo che ancora qualche settimana fa sperava di trasmettere il potere al figlio Gamal? Era lecito avere qualche dubbio. Ma la sua defenestrazione, poche ore dopo, è anzitutto la violazione di una carta costituzionale in cui è detto testualmente che il successore del capo dello Stato, quando questi si dimette, deve essere il presidente dell’Assemblea del popolo. Il potere passa invece alle forze armate, cioè a un corpo che ha imposto i suoi uomini ai vertici dello Stato, approvato a garantito lo stato di emergenza, sostenuto Mubarak, largamente approfittato del regime, vissuto per molti anni dell’aiuto finanziario americano.
Porterà il Paese alla democrazia? È possibile che ne abbia le intenzioni. Ma è difficile immaginare che sia disposto a spogliarsi lungo la strada della sua influenza e dei suoi privilegi.
Resta da capire perché quasi tutti i governi democratici abbiano accolto un golpe con soddisfazione e perché il presidente americano, in particolare, abbia visto negli avvenimenti «lo spirito di Martin Luther King» . Le ragioni sono probabilmente due. In primo luogo le forze armate garantiscono stabilità: un sospiro di sollievo per chi teme l’effetto domino e il ribaltamento di tutti gli equilibri regionali. In secondo luogo l’ortodossia democratica vuole che il popolo abbia sempre ragione.
Non è vero, naturalmente. La piazza, come abbiamo constatato più volte nel corso del Novecento, può avere torto e fare le scelte sbagliate. È comunque pressoché impossibile conoscere la volontà di un popolo senza leader. Sappiamo soltanto che al Cairo, per il momento, non vi è ancora un vincitore. Il capitolo della crisi non si è concluso e potrebbe riservare, prima della fine, altre sorprese.
IlSole24Ore- Farian Sabahi: " Perchè l'Iran fa il tifo per El Baradei "
La specialità di Farian Sabahi è confezionare articoli nei quali l'Iran appaia diverso da quello che è.
Impresa difficile, ma nella quale Sabahi investe molta buona volontà.
Ad una lettura attenta dei suoi articoli, è facile accorgersene, lei poi ci mette anche del suo, come quando manipolò, per esempio, una intervista a A.B.Yahoshua, nella quale gli faceva dire che l' Iran non era un pericolo per Israele. Forse era convinta che Yehoshua, non conoscendo l'italiano, non l'avrebbe mai saputo. Così però non andò. e la STAMPA, giustamente, le diede il ben servito. Ma Sabahi ha diversi santi in paradiso, via da un giornale approda a un altro. Ci ha provato con il CORRIERE della SERA, ma la collaborazione è durata lo spazio di un mattino, l'amicizia con Sergio Romano non è bastata. E'approdata infine alSOLE24ORE, dove non si sono ancora accorti della sua specialità.
La evidenziamo noi, in questa sua analisi, nella quale appare evidente come, dopo aver dato prova di essere moderatamente critica verso il paese dei mullah impiccatori, ci mancherebbe !, scivola nella sua specialità, ripulirne l'immagine, in modo tale da lasciare una valutazione, tutto sommato accettabile, dello stato più criminale che esista oggi sul pianeta.
Invitiamo i nostri lettori, e i colleghi del SOLE24ORE, a leggere con attenzione la parte nella quale presenta El Baradei, la sua relazione con l'Iran, e quanto una sua eventuale leadership sarebbe da augurarsi. Ha soltanto omesso l'applauso di Ahmadinejad, ma non è una dimenticanza, rientra nella sua funzione di trombettiera del regime iraniano.
Un'altra sua specialità è quella di presentarsi come un'amica degli ebrei e degli israeliani, una copertura che regge finchè non salta, quando chi ne conosce le attitudini non rivela il suo gioco. Qualcuno all'inizio ci casca, anche più di uno, ma poi il gioco mostra la corda, e la facciata crolla.
La nostra è poi conosciuta negli ambienti dei rifugiati iraniani nel nostro paese, ma evitiamo di riportane qui i giudizi.
Farian Sabahi
Ieri le autorità iraniane hanno celebrato l'anniversario della rivoluzione del 1979 con slogan di solidarietà verso gli insorti del Cairo, che gli ayatollah hanno definito "islamici" auspicando una svolta khomeinista. In realtà, in piazza Tahrir gli integralisti sono solo un tassello di un mosaico complesso. L'Egitto sunnita e l'Iran sciita sono diversi, a cominciare dal tessuto sociale: il 40% degli egiziani vive sotto la soglia di povertà contro il 18% degli iraniani; mentre in Egitto a protestare per primi sono stati i poveri, la base di consenso di Ahmadinejad è costituita dai diseredati che ricevono sussidi pubblici. Anche la questione femminile si declina diversamente: le egiziane hanno in media 2,83 figli mentre il tasso di fertilità delle iraniane, che nelle università sono la maggioranza, è dell'1,7%; inoltre, se nella Repubblica islamica molte rinuncerebbero al velo, per le egiziane l'hejab è simbolo di resistenza. Di simile l'Egitto e l'Iran hanno un glorioso passato pre-islamico e una storia di regimi dispotici, l'orgoglio nazionalista e il coinvolgimento delle forze armate in politica ed economia, un elemento da non sottovalutare. I due paesi si contendono l'egemonia regionale, sono sospettosi l'uno dell'altro e mal tollerano i confronti: con gli egiziani non si può azzardare l'ipotesi che le loro proteste traggano ispirazione da quelle iraniane, e tantomeno dai discorsi di Ahmadinejad che ha sobillato le masse arabe: apprezzano la sua sfida agli Usa ma non lo vorrebbero come leader. Intanto, pur prodigandosi in congratulazioni ai dimostranti egiziani, le autorità iraniane sono seriamente preoccupate di un possibile esito democratico. Tra Il Cairo e Teheran non corre buon sangue: il 17 settembre 1978 il presidente egiziano Sadat e il premier israeliano Begin firmarono gli accordi di Camp David e il trattato di pace. Nel 1979 lo scià di Persia, malato di cancro, tentò invano di entrare negli Usa, per ripiegare sul Cairo dove è sepolto. L'esilio egiziano del sovrano deposto incrinò i rapporti tra la nascente Repubblica islamica e l'Egitto. Nel settembre 1980, quando l'Iraq invase l'Iran, Sadat prese le parti di Saddam. L'anno dopo il presidente egiziano fu ucciso da un fondamentalista e i mullah di Teheran dedicarono un murale alto quattro piani al suo assassino. In questo contesto l'eventuale successione di ElBaradei a Mubarak potrebbe essere funzionale agli equilibri regionali. A capo di un'ampia piattaforma che riunisce le forze di opposizione, potrebbe rivelarsi l'anello di congiunzione tra Il Cairo e Teheran, per una serie di motivi: quand'era a capo dell'Aiea, ha dimostrato di comprendere le ragioni degli iraniani ed è riuscito a tenere testa agli Usa, dimostrando di non essere filo-americano e quindi di poter compiacere l'opinione pubblica egiziana scesa in piazza a gridare la propria rabbia contro il sostegno di Washington a Mubarak. Inoltre, sua moglie è iraniana: Aida Elkachef sarebbe una donna in gamba, influente senza essere invadente, forse imparentata con un ayatollah. Un legame che potrebbe rivelarsi controproducente ma che, in questa fase, dà l'impressione che ElBaradei possa muoversi abilmente in diverse arene: occidentale, araba e iraniana. Se ElBaradei succedesse a Mubarak sarebbe una vittoria della società civile sui militari. E non dovrebbe dispiacere a Israele, che in Egitto teme una deriva islamista. In ogni caso il nuovo governo egiziano non avrà né il tempo né l'energia per minacciare lo stato ebraico. Saranno altre le gatte da pelare, sul fronte interno, a cominciare dai Fratelli musulmani che potrebbero strumentalizzare la protesta e tentare di prenderne le redini. Dimostrando che ElBaradei è un burocrate di lungo corso ma da troppo tempo all'estero, abituato alle battaglie diplomatiche, sostenuto dalla classe media e dagli intellettuali, ma alieno alle masse e lontano dalle dinamiche interne. Eppure, proprio per questo, forse in grado di traghettare il paese oltre la mediocrità che ha caratterizzato il sistema politico, le cui ovvie conseguenze sono state la povertà, la marginalizzazione e l'umiliazione di ampi strati di popolazione che oggi, oltre al pane, rivendicano dignità.
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