Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/02/2011, a pag. 1-3, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Lo smacco di Barack ".
Barack Obama, Abdullah II, Maurizio Molinari
Hosni Mubarak apprezza più il sostegno di Riad che le critiche di Washington e adesso Barack Obama si trova di fronte ad una inedita sfida: Arabia Saudita ed Egitto puntano a sfruttare la crisi in atto. Con lo scopo di ridimensionare il ruolo americano in Medio Oriente. Le prime avvisaglie di quanto stava maturando sono arrivate al Presidente americano il 29 gennaio. Aveva telefonato al re saudita Abdullah per chiedergli sostegno nell’ottenere la rapida uscita di scena del Raiss ma la risposta lo colse di sorpresa: «Hosni Mubarak non solo è un alleato del regno ma è un mio amico personale» disse il sovrano wahabita secondo la ricostruzione del dialogo che fonti arabe hanno premurosamente consegnato al «Times» di Londra. E poiché Obama insisteva, il re andò oltre: «Se priverete l’Egitto degli aiuti economici annuali il Tesoro saudita ha risorse a sufficienza per sostituirvi». Mai prima il regno wahabita aveva sfidato tanto apertamente un’amministrazione americana. Negli equilibri fra potenti in Medio Oriente i soldi valgono quanto le armate: proponendosi di sostituirsi all’America nel fornire 2,8 miliardi di dollari annui all’Egitto il re saudita fece capire di essere determinato a sostituire la Casa Bianca nel ruolo di garante della stabilità lungo il Canale di Suez, il cuore del Medio Oriente. Poche ore dopo Riad trasmetteva lo stesso messaggio ai comandi militari del Cairo - destinatari della maggioranza dei fondi americani - e da quel momento in poi la capacità di pressione del Pentagono di Bob Gates sul capo di Stato Maggiore Sami Enan e sul ministro della Difesa Hossein Tantawi ha iniziato a ridursi. Passavano pochi giorni e il Segretario di Stato, Hillary Clinton, coglieva l’occasione della partecipazione alla Conferenza per la sicurezza a Monaco per esprimersi a favore di «una transizione guidata da Omar Suleiman» il super 007 nominato vicepresidente da Mubarak. Le parole di Hillary svelavano la realpolitik di chi prendeva atto della determinazione di Mubarak a non dimettersi, forte del sostegno di Riad e della possibilità di guidare la transizione con il fidato Suleiman. Ma nelle stesse ore la Casa Bianca marciava in direzione differente. Martedì pomeriggio, ora di Washington, Biden chiamava Suleiman per esercitare nuove pressioni, rimproverargli i ritardi nella transizione e ribadire che Washington si aspettava, in una maniera o nell’altra, le dimissioni di Mubarak. Da quel momento l’amministrazione si è divisa fra il realismo di Hillary e la convinzione di Biden che Mubarak fosse davvero in procinto dell’addio al potere.
Dopo il briefing di intelligence ricevuto ieri mattina dalla Cia, Obama si è convinto che era Biden ad aveva ragione. La Casa Bianca ha creduto alle notizie che arrivavano dal Cairo su un Mubarak verso le dimissioni e lo stesso capo della Cia, Leon Panetta, diceva al Senato «questa sera il Raiss si dimetterà». Verso metà mattinata sono affiorate delle incertezze, al punto che Obama da bordo dell’Air Force One che lo portava a Marquette, in Michigan, diceva «aspettiamo e stiamo a vedere che cosa accadrà». Passavano altri 60 minuti e Obama sembrava oramai sicuro di aver colto il risultato a lungo cercato facendo leva sui militari egiziani: «Si sta facendo la storia, andiamo verso una transizione ordinata e libere elezioni». Ma quando Mubarak ha preso la parola è arrivata la doccia fredda: niente dimissioni e conferma dell’intesa con Suleiman e i militari per una transizione fino a settembre «libera da condizionamenti stranieri». L’amarezza della Casa Bianca è arrivata subito: «Non era quello che speravamo e volevamo» ha fatto sapere un portavoce. Ad Obama non è restato che annullare la precedente intenzione di parlare «dopo Mubarak», come la Casa Bianca aveva fatto sapere, riunendo nella Roosevelt Room il consiglio di sicurezza nazionale per una delle sedute più difficili dall’inizio della presidenza. Con in agenda la sfida lanciata all’America da Hosni Mubarak, che fino al 25 gennaio era l’alleato più importante nel mondo arabo. In gioco non c’è più solo il futuro democratico dell’Egitto ma il prestigio americano in Medio Oriente.
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