Egitto: i Fratelli Musulmani sempre più vicini alla vittoria la notizia non è positiva, ma qualcuno la pensa diversamente. Commenti di Redazione del Foglio, Guido Olmpio, Roberto Bongiorni, Shlomo Avineri, Manlio Dinucci
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore - Il Manifesto Autore: La redazione del Foglio - Guido Olimpio - Roberto Bongiorni -Shlomo Avineri - Manlio Dinucci Titolo: «I Fratelli musulmani valgono il 40 per cento. Ecco i perché - Il silenzio dei qaedisti sconfessati - I copti temono la deriva islamica - Israele e il doppio rebus d'Egitto - Perché è rivolta sociale»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/02/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo " I Fratelli musulmani valgono il 40 per cento. Ecco i perché ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Il silenzio dei qaedisti sconfessati ", preceduto dal nostro commento. Dal SOLE 24 ORE, a pag. 11, l'articolo di Roberto Bongiorni dal titolo " I copti temono la deriva islamica ", a pag. 14, l'articolo di Shlomo Avineri dal titolo " Israele e il doppio rebus d'Egitto ". Dal MANIFESTO, a pag. 1-3, l'articolo di Manlio Dinucci dal titolo " Perché è rivolta sociale ", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " I Fratelli musulmani valgono il 40 per cento. Ecco i perché "
David Schenker
Roma. “Se ci saranno elezioni libere in Egitto, i Fratelli musulmani possono arrivare anche al quaranta per cento dei consensi”, spiega al Foglio David Schenker, che guida il dipartimento di arabistica al Washington Institute for Near East Policy. “Gran parte della protesta al Cairo è stata guidata da una generica gioventù, ma la Fratellanza è pronta a subentrare”. Il magazine americano Foreign Affairs ha appena pubblicato un’analisi dal titolo emblematico: “La Fratellanza dominerà l’Egitto”. Un successo che si spiega con una strategia ancora inesplorata della Fratellanza: la conquista, dopo le città, delle campagne. “La Fratellanza era un gruppo urbano, mentre oggi ha assunto un aspetto rurale”, ha scritto il giornale egiziano filo governativo al Ahram. E’ stata chiamata la “ruralizzazione” del movimento, tramite l’enfatizzazione del rituale islamico, della patriarcalità, della sobrietà e di un codice d’onore sempre più acceso. Decisiva è stata l’attrazione degli insegnanti nelle periferie delle città e delle campagne. Questo gruppo di potere è andato ad aggiungersi agli oltre tremila accademici universitari che costituiscono da molti anni l’élite urbana della Fratellanza. Al Ahram parla di “famiglia alternativa”, una comunità chiusa come un villaggio, un modello vincente in un’epoca di disintegrazione delle strutture tradizionali. “Cinquant’anni fa i Fratelli musulmani reclutavano soprattutto fra i figli degli impiegati, i colletti bianchi”, commenta Ahram. Oggi invece si rivolge alla campagne, riempiendole di islamismo e opportunità. Campagne abitate spesso da lavoratori che negli anni Settanta andarono a cercare fortuna in Arabia Saudita, tornando poi in patria carichi di islamismo fondamentalista. Nel libro “The future of islam in the middle east”, Mahmud A. Faksh spiega come parte del successo islamista in Egitto si deve proprio a questo mix di “ruralizzazione delle città, impoverimento di massa, stato Leviatano e perdita dell’identità”. I Fratelli sono così arrivati a conquistare settori sempre più cospicui della popolazione, che potrebbero valere un quaranta per cento alle elezioni. Come ha spiegato l’analista del Daily Star Ibrahim El Houdaiby, spostandosi nelle campagne la Fratellanza ha sposato anche un islam salafita sempre più austero, che ha avuto un’influenza nell’attuale leadership estremista. Decisiva è la rete di ventidue ospedali della Fratellanza sparsi per il paese e i tanti centri per gli orfani e gli anziani. Delle cinquemila organizzazioni non governative presenti in Egitto, addirittura il venti per cento sono islamiste. Durante il terremoto egiziano del 1992 fu la Fratellanza a sostenere la popolazione con rifugi, brandine e assegni familiari. Accanto alla strategia “sociale” c’è stata quella “professionale”, iniziata nel 1987 con la conquista della leadership dell’ordine degli ingegneri, forte di duecentomila membri. Dal 1990, la Fratellanza ha conquistato tutti i principali ordini professionali: medici, ingegneri, dentisti, commercianti e farmacisti. Nel 1992 ha preso anche la maggioranza dell’associazione degli avvocati, evento che “ha generato panico nei circoli secolari e liberali in Egitto e nel mondo arabo”. Anche l’ottanta per cento dei membri dell’Egyptian Medical Syndicate è iscritto alla Fratellanza. E come ha detto Anwar Shehata, tesoriere del sindacato e celebre Fratello, “l’islam è un modo di vivere e noi lo mettiamo in pratica”. O per dirla con un leader della Fratellanza, Abdel Moneim Abul Futuh, i servizi sociali sono “una naturale estensione dei principi islamici”. Lo stesso è accaduto a Gaza con Hamas. Al di là delle elezioni, Schenker è convinto che il gruppo islamista abbia già vinto: “Se vai al Cairo, per non parlare delle campagne, vedi come il novanta per cento delle donne egiziane porti oggi il velo. La Fratellanza ha usato la da’wa, la conversione e la predicazione, per cambiare la società egiziana. Costruiscono una società ‘pia’”. Che secondo Muhammed Ashmawy, uno dei magistrati più alti in grado in Egitto ma anche esperto di islam, è un sinonimo più gentile di “totalitario”.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Il silenzio dei qaedisti sconfessati "
Osama Bin Laden
L'articolo di Guido Olimpio non è l'unico che il Corriere della Sera ha dedicato alla situazione in Egitto. Un articolo di Roberto Tottoli (che non riportiamo)sostiene la necessità di dare 'una chance ai Fratelli Musulmani', come se fossero semplicemente una delle forze politiche in gioco. Terrorismo islamico? Quando mai, sono quarant'anni che non si muovono. E pazienza se solidarizzano con Hamas e, per estensione, con Hezbollah, Siria e Iran. Sono tutti buoni e tranquilli. Stupisce che il quotidiano italiano più importante dia uno spazio simile alle tesi esposte da Tottoli, che nessun serio analista condivide. Ecco l'articolo di Guido Olimpio:
WASHINGTON — Il Nord Africa si ribella e Al Qaeda resta silenziosa. Almeno fino ad oggi Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri non si sono pronunciati. Forse hanno bisogno di tempo. Per motivi di sicurezza — afferma l’intelligence — o piuttosto per ragioni di opportunità. Vogliono capire come andrà a finire. Cercano le parole giuste, magari le troveranno presto. I vertici qaedisti, per anni, hanno insistito su una sola nota: c’è solo la lotta armata, la democrazia è un’eresia. Una posizione che ha un significato personale per Al Zawahiri. Egiziano, leader della Jihad, processato dal regime, costretto all’esilio, ha sempre sostenuto che «la via per Gerusalemme passa per Il Cairo» . Uno slogan che indicava un percorso marcato da attentati e kamikaze. Ma i «martiri» delle piazze sono diversi da quelli di Al Qaeda. Non si fanno saltare, ma muoiono come bonzi o assassinati dalla polizia. La strategia di Bin Laden è arcaica come la carica dei cammellieri pro Mubarak sulla piazza Tahrir. Alcuni osservatori americani invitano alla cautela. Certo, le dimostrazioni di questi giorni provano che esiste un’altra strada per liberarsi del raìs. Una sconfessione per gli apostoli della violenza. Ma Al Qaeda non ha mai fretta, preferisce attendere. Specie quando non ha seguito. I seguaci di Osama compaiono se c’è l’ambiente ideale, come è avvenuto nell’Iraq del dopo Saddam. «Aspettiamo che il tifone termini la sua corsa» , ha scritto un commentatore islamista convinto che, alla fine, il movimento raccoglierà i suoi frutti. Meglio, per ora, fiancheggiare la protesta. Thirwat Salah Shehata, veterano della Jihad egiziana e figura di spicco, ha espresso sul web il suo sostegno ai giovani e si è rivolto anche all’esercito affinché si schieri con i contestatori. Un riferimento alle forze armate non gradito dai visitatori del forum: «Sono laici, dalle loro file escono i tiranni» . Dunque, in questa fase, i jihadisti fanno da osservatori. Sembrano sorpresi come i regimi. Ma, dall’altra parte, non possono che gioire per la cacciata del tunisino Ben Ali e della situazione di Hosni Mubarak, due alleati dell’Occidente. È possibile che Al Qaeda, scavalcata dal coraggio dei manifestanti, si auguri che la transizione fallisca. In questo modo potrà sfruttare la rabbia di chi si sentirà tradito. Infatti su Internet, gli islamisti ammoniscono: «Non fatevi scippare la vittoria dagli opportunisti» . L’altra carta proveranno a giocarla nel Sinai, regione dove hanno appoggi e che nel corso degli anni si è trasformata in una piattaforma per pianificare attentati. Hanno colpito in passato e pochi giorni fa è stato sabotato il gasdotto a El Arish. L’unica cosa che sanno fare.
Il SOLE 24 ORE - Roberto Bongiorni : " I copti temono la deriva islamica "
Un'immagine della strage di copti ad Alessandria
Il ricordo di quella tragica notte lo si vede ancora sulla facciata della chiesa dei Santi, e lo si avverte sui volti sfuggenti dei fedeli mentre escono dalla messa. Tutti si allontanano di fretta; via da quelle mura ancora scheggiate, da quella statua della Madonna in parte mutilata, dal pericolo che si annida dietro ogni angolo. L'ingresso è sbarrato da una cancellata. All'interno del cortile c'è un'ambulanza: «Non vogliamo che i terroristi ne usino una per un'altra strage», confida un guardiano. Prima di accedere alla chiesa un grande manifesto ritrae Gesù Cristo e i volti di 23 persone con una corona d'oro sul capo; sono le 24 vittime della strage di capodanno, quando un'autobomba ha investito i fedeli mentre uscivano dalla messa. Fu il più feroce dei numerosi attacchi contro i copti. Al grido «Mubarak down», migliaia di giovani copti scesero in piazza e si scontrarono con la polizia. Accusavano il presidente di non averli protetti, qualcuno lo definì complice della strage.
È passato solo un mese e ora i cristiani di Alessandria sono prigionieri di un dilemma: partecipare alla rivolta, e chiedere la fine di un regime durato 30 anni, o restare a casa, come ha chiesto il loro Papa, Shenuda III, sperando che il presidente regga. Il solo pensiero che i Fratelli musulmani possano prendere il sopravvento è vissuto come un incubo. Davanti a una simile minaccia, i copti, il 10% della popolazione, sono paralizzati. Consapevoli che potranno pagare caro il prezzo per non essersi uniti alla rivolta (almeno 50 i morti qui).
Gli arcivescovi e i preti sono impenetrabili. Il papa ha proibito di comunicare con i media. Il prete della chiesa dei Santi farfuglia qualche parola, poi scompare. Un copione che si ripete in altre cinque chiese. Ramy, 25 anni, guardiano della chiesa dei Santi, ammette: «Non partecipo alla manifestazione. Nessuno di noi lo ha fatto. È meglio il peggior Mubarak che il migliore dei Fratelli musulmani».
È domenica, qualche chilometro più in là è in corso una grande manifestazione; migliaia di persone lanciano slogan contro Mubarak. Il clima, tuttavia, è diverso da quello gioioso di piazza Tahrir, al Cairo. Qui, il luogo della manifestazione, continuata anche ieri ma con meno dimostranti, è l'antica moschea Ibrahim. Indovinare chi tiene le redini della rivolta è facile: i Fratelli musulmani, che qui hanno creato la loro roccaforte. «È la rivolta del popolo, la stiamo organizzando insieme al movimento del 6 aprile e alle altre organizzazioni. Siamo una sola entità», ci spiega Saber Abu el-Fotouh, ex parlamentare dei Fratelli musulmani. Cerchiamo dei cristiani, invano. Davanti alla moschea i membri della Fratellanza ci perquisiscono più volte. «Noi siamo e saremo rispettosi dei nostri fratelli copti», spiega dal suo ufficio Medhat al-Hadad, dirigente della Fratellanza. «Tra due o tre mesi Mubarak se ne andrà. Organizzeremo elezioni libere. Contiamo di arrivare al 25-35% dei seggi. Se saremo al governo lasceremo che ognuno sia libero di professare la sua fede».
Parole che non convincono molti alessandrini. La seconda città dell'Egitto, oltre 4 milioni di abitanti, è tornata a vivere. Il treno con cui arriviamo dal Cairo spacca il minuto. I negozi sono aperti, i caffè gremiti, grappoli di passeggeri pendono dai tram, le banche sono assediate. Il ritorno alla normalità? Non per i copti. Pete George Sami, 23 anni, studente, ci riceve nell'appartamento in cui vive con la sorella Miray e suo marito. Il 31 dicembre fu travolto dall'esplosione. Operato, la sua gamba è ancora paralizzata. «Io ascolto il papa – ci spiega - e anche se riprendessi a camminare non mi unirei alla manifestazione». «Abbiamo paura dei Fratelli musulmani. Se solo potessi andare all'estero», aggiunge la sorella. Il marito Mina all'inizio ha aderito alla rivolta sui network. «Le mie illusioni si sono subito spente. Tutti i possibili sostituti sono peggiori di Mubarak, il dopo Mubarak ci renderà cittadini di terza classe. Ho paura a lasciare il crocefisso sul cruscotto dell'auto».
I copti lamentano gravi discriminazioni. Nel campo della giustizia, dell'università, delle forze dell'ordine. Chiedono una legge unica per i luoghi di culto e l'abolizione dell'indicazione della fede nelle domande d'impiego e negli atti di compravendita. Un tempo erano l'élite più istruita e abbiente. William Makram, 23 anni, studente di legge, il 31 dicembre ha perso madre, zio e nipotina. «Non mi sento sicuro. Vorrei andare negli Usa o in Canada». «I Fratelli musulmani sono come Hezbollah o Hamas», irrompe l'amico Youssef, produttore di video. «Forse nei primi tre anni cercheranno di contenersi, poi mostreranno il vero volto, quello dell'intolleranza».
Ci sono anche voci fuori dal coro. Naguib Gobraiel è una personalità. Nessun copto ha mai raggiunto come lui il grado di presidente di tribunale, carica poi lasciata per fare l'avvocato per i diritti umani. «Ho invitato i cristiani a unirsi a una rivolta giusta, per la libertà di espressione. Non parteciparvi significa essere identificati con la controparte». Alla fine un prete è disposto a parlare: Padre Radi Atalla, evangelista (1% della popolazione). «Il fine di questa rivolta è nobile», spiega. «Ho lasciato ai fedeli la scelta se andare in piazza, non come cristiani, ma come egiziani (i cristiani che hanno pregato domenica a Tahrir erano quasi tutti evangelisti). Sono propenso a una graduale transizione. Ma immaginatevi cosa accadrà con i Fratelli musulmani. Sono dei camaleonti».
Il SOLE 24 ORE - Shlomo Avineri : " Israele e il doppio rebus d'Egitto "
Shlomo Avineri
Due preoccupazioni hanno caratterizzato la reazione d'Israele agli eventi in Egitto, una ovvia, l'altra un po' meno. La prima è che se l'Egitto precipitasse nel caos o andassero al potere i Fratelli musulmani - che si oppongono strenuamente al trattato di pace con Israele - potrebbero essere in serio pericolo i trent'anni di pace continua tra Israele e il più importante paese arabo.
La seconda preoccupazione è rivolta a Washington, non al Cairo. Molti israeliani sono rimasti sconvolti dall'inconsistente reazione degli Stati Uniti agli eventi in corso in Egitto, talmente debole da rasentare l'incompetenza. Prima il presidente, poi il segretario di stato Hillary Clinton, infine l'inviato del presidente americano presso Mubarak non hanno fatto altro che altalenare fra una netta presa di distanze dall'alleato più fedele dell'America, l'esortazione ad andarsene e ulteriori suggerimenti a farlo nel minor tempo possibile, e poi - con una netta inversione di marcia - hanno avallato la "transizione ordinata" comandata da Omar Suleiman, il suo capo dell'intelligence.
Il rompicapo di fronte al quale si trova Israele è palese: essendo una democrazia, Israele dovrebbe accogliere con soddisfazione il processo di democratizzazione tra i suoi vicini; il fatto è che il regime di Mubarak è stato per Gerusalemme presupposto di pace, mentre le forze popolari si erano opposte al trattato di pace.
Gli israeliani si sono già trovati alle prese con questo dilemma in passato. Quando nel 1952 i Liberi ufficiali egiziani - uno dei cui capi era Gamal Abdel Nasser - abbatterono il regime corrotto del re Farouk, il primo ministro David Ben-Gurion salutò in loro i precursori della democrazia e della giustizia sociale. Da quella destituzione presero però vita il nasserismo - nocivo cocktail di nazionalismo panarabo espansionista, di socialismo autocratico di stato e di ideologia antioccidentale e anti-israeliana - e uno stato monopartitico, in definitiva un protettorato sovietico.
Se la situazione in Egitto evolverà verso una democrazia stabile, la pace con Israele si trasformerà da atto dovuto alla ragione di stato in una realtà basata su valori condivisi. Una simile eventualità renderà necessario un approccio più flessibile da parte del governo israeliano per ciò che concerne i negoziati con i palestinesi. Nel caso di un passo avanti dell'Egitto in direzione di un'autentica democrazia, ci si può facilmente aspettare che in Israele vi sarebbero pressioni interne molto forti in quella direzione. Sono tuttavia possibili anche altri sbocchi. Per decenni l'effettivo governo dell'Egitto è stato assicurato dall'esercito: la moderazione e il controllo di cui hanno dato prova i soldati nei confronti dei manifestanti, e il rispetto di questi ultimi per i soldati rannicchiati sui loro carri armati, indicano un rapporto complesso e simbiotico, grazie al quale l'esercito non è considerato solo il braccio esecutore dell'oppressione totalitaria (ciò che è in realtà) ma anche il simbolo dell'orgoglio nazionale.
Questo presupposto del sistema tradizionale faraonico potrebbe essere l'unica garanzia che la transizione avverrà con modalità relativamente pacifiche. I segnali di una simile transizione controllata per l'appunto dalle forze armate sono già evidenti: Omar Suleiman, il vicepresidente, e Ahmed Shafik, il primo ministro, sono entrambi ex generali. Pertanto - questa l'opinione corrente degli israeliani - i rapporti con Israele a breve termine potrebbero continuare a restare stabili.
Ma che accadrà con i Fratelli musulmani? Hanno tenuto un basso profilo durante le proteste: il loro islamismo militante spaventa molti egiziani laici, e di sicuro la vasta comunità dei cristiani copti. Se avessero tenuto un alto profilo, invece, oltretutto avrebbero smorzato il favore degli occidentali per quella che appare come una sollevazione popolare. Mentre gli osservatori occidentali sono propensi a vedere nel partito turco Ak un modello della Fratellanza musulmana, gli israeliani - indipendentemente dall'affiliazione di partito - ritengono allarmante la prospettiva dei Fratelli musulmani al governo.
Le ragioni di ciò sono evidenti: per 30 anni la Fratellanza musulmana si è opposta al trattato di pace. L'assassinio di Anwar Sadat fu opera dell'entourage dei Fratelli musulmani, come pure di altri futuri leader di al-Qaeda. L'ideologia dei Fratelli musulmani ha ininterrottamente contrastato l'esistenza di Israele. La Fratellanza appoggia al contrario Hamas a Gaza, e la sua ascesa al potere sicuramente rafforzerebbe i suoi sostenitori in Giordania, oltre a indebolire l'autorità palestinese laica, rendendo ancora più remoto nel tempo un possibile accordo tra israeliani e palestinesi.
Dopo aver goduto per decenni di pace con due dei suoi vicini, Israele a un tratto osserva ciò che sta accadendo in Egitto e, lungi dal considerarlo come un fenomeno precursore della democrazia, lo ritiene un possibile segnale di dissolvimento del suo sogno, quello di avere pace e di essere accettato dal mondo arabo. Quella che da lontano appare come l'alba di un nuovo giorno, nella regione potrebbe sembrare il fulmine che preannuncia la tempesta.
Il MANIFESTO - Manlio Dinucci : " Perché è rivolta sociale "
Manlio Dinucci
L'articolo di Manlio Dinucci non si differenzia da quelli pubblicati dal quotidiano di Rocca Cannuccia nei giorni scorsi. E' una ripetizione della solita solfa tanto cara al Manifesto, gli Usa sbagliano a non dare appoggio ai Fratelli Musulmani, la rivoluzione in Egitto è laica e democratica, Mubarak è il male peggiore, se gli Usa interverranno per stabilizzare la situazione sarà un male...il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani non viene preso in considerazione dal quotidiano di Rocca Cannuccia, forse per la politica del chi tace acconsente ? Ecco l'articolo:
«Gli Stati uniti stanno anteponendo la stabilità agli ideali democratici»: così scriveva ieri The New York Times sull’Egitto. Lasciano quindi «la speranza di pacifici e graduali cambiamenti nelle mani dei funzionariegiziani, a partiredaMr. Suleiman, che hanno tutti imotivi per rallentare il processo». La segretaria di stato Hillary Clintonha chiaritoalla Conferenza diMonacosulla sicurezza che, in Egitto, gli Usa «appoggiano le istituzioni» e, allo stesso tempo, sono «impegnati ad appoggiare» la società civile e chi «lavora con mezzi pacifici per mantenere il governo onesto». Ciò conferma cheWashington cerca di dare un volto «democratico» a un paese in cui il potere continui a poggiare sulle forze armate e in cui, soprattutto, resti dominante l’influenza statunitense. AWashington fanno però i conti senza l’oste: milioni di egiziani sono scesi in piazza non solo contro Mubarak, ma contro l’ingiustizia sociale che il suo regime ha imposto con la forza. Nel 1991, in cambio del condono di un debito militare di 7miliardi di dollari dovuti agli Stati uniti, l’Egitto di Mubarak accettò non solo di partecipare alla guerra contro l’Iraq, ma di attuare un programma del Fondo monetario internazionale, basato su radicali misure di privatizzazione e deregolamentazione. Ciò ha spalancato le porte del’Egitto alle multinazionali, soprattutto statunitensi e britanniche, provocando un crescente indebitamento del paese e impovertimento della popolazione. L’Egitto è un importante esportatore di petrolio e gas naturale (fornito anche a Israele): essi costituiscono come valore circa il 50% del suo export. L’industria energetica nazionale è però fondamentalmente inmano a compagnie occidentali (Bp, Shell, Eni e altre), che ne traggono alti profitti spartendone una parte con l’élite locale. L’Egitto è anche un importante esportatore di prodotti finiti, che rappresentano circa il 40% del suo export, grazie a un costo del lavoro tra i più bassi del mondo. Ma anche questo settore è dominato, anche indirettamente, dalle multinazionali (General Motors, Volkswagen e altre). In tale quadro, nonostante le crescenti esportazioni dirette soprattutto negli Usa e in Italia e i forti introiti del turismo (circa 11 miliardi di dollari annui), l’Egitto registra un deficit commerciale che è raddoppiato tra il 2006 e il 2010, superando i 25 miliardi di dollari. E’ cresciuto di pari passo il debito estero, che ha superato i 32miliardi dollari. Nonostante che il pil egiziano abbia mantenuto un alto tasso di crescita (5-6% annuo), la maggior parte della popolazione, soprattutto nelle zone rurali, vive in condizioni di povertà o comunque di gravi ristrettezze economiche, accresciute da un tasso d’inflazione che supera il 10% annuo. Secondo stime approssimative, circa il 40% della popolazione (che ammonta a quasi 85 milioni) si trova in condizioni di povertà e, tra questa, circa il20% in estrema povertà.Ciò significa che vi sono in Egitto almeno 35 milioni di poveri. I divari socioeconomici sono esemplificati dalla condizione abitativa. Nella Nuova Cairo, la città satellite della capitale, si costruiscono per l’élite al potere altre «gated communities»: lussuose zone residenziali recintate e presidiate da guardie armate, dai nomi suggestivi di «Beverly Hills», «Mayfair» e «Le Rêve», con ville da un milione di dollari, piscine e campi da golf.Allo stesso tempo lamaggior parte della popolazione del Cairo vive ammassata in abitazioni fatiscenti e, a poche decine di chilometri dalla capitale, le famiglie contadine vivono in capanne di fango. Seguendo le orme degli antichi despoti, il nuovo «faraone» Mubarak (la cui ricchezza ammonta a decine dimiliardi di dollari, depositati in gran parte all’estero) distribuisce pane al popolo, sotto forma di sussidi che ne abbassano il prezzo,ma che accrescono il debito estero egiziano pagato anch’esso, direttamente o indirettamente, dalla popolazione povera. È questo sistema di potere che gli Stati uniti intendono conservare, per mantenere l’Egitto nella loro sfera d’influenza, facendo ritirare un giorno (con una pensione d’oro) Mubarak. Così, in un Egitto controllato dalle alte gerarchie militari, saranno i «democratici» formati e finanziati daWashington a «lavorare conmezzi pacifici per mantenere il governo onesto».
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