Ritratto di Daniel Libeskind, l'architetto che ha disegnato il Museo ebraico di Berlino e autore del progetto di Ground Zero. Su REPUBBLICA di oggi, 06/02/2011, a pag. 42, di Cloe Piccoli, dal titolo "Daniel Libeskind, Archistar"
Ground Zero, il progetto Daniel Libeskind
Le sue architetture sono icone del contemporaneo e lui, Daniel Libeskind, ebreo polacco, figlio di operai emigrati a New York, l´uomo che ha vinto il concorso per ricostruire Ground Zero, sostiene che abbiamo un estremo bisogno di progetti simbolici, idee, storie e memorie in cui riconoscerci. «L´architettura è memoria» spiega con quei suoi occhi brillanti dietro le spesse lenti degli occhiali. «Ogni grande edificio ci aiuta a capire la nostra identità, è una connessione essenziale con il passato, senza non avremmo orientamento, non sapremmo nemmeno chi siamo». Ha una considerazione altissima del valore politico e civile dell´architettura questo progettista diventato famoso con il Museo Ebraico di Berlino, fra i luoghi più simbolici al mondo, che distilla nello spazio, drammatico e rarefatto, la tragedia dell´Olocausto. «Non ero partito con l´intenzione di farne un simbolo, se cerchi di fare qualcosa di simbolico non lo sarà mai veramente. Perché l´icona nasce da un percorso profondo, da basi forti, non può essere semplicemente inventata come un´astrazione. Deve essere reale, inserita nella storia, nel tempo e nello spazio, nella luce, nella proporzione, e poi se sei fortunato, viene fuori il simbolo, qualcosa che avrà risonanza nell´immaginario e nel futuro». Libeskind è solare e positivo, sorride spesso, ama parlare d´architettura e di progetti, ha una rara disponibilità a spiegare idee e lavori nei dettagli. Adora l´Italia, ci ha vissuto per alcuni anni, capisce l´italiano e, forse, potrebbe anche parlarlo (un po´), ma preferisce l´inglese, ormai, la sua prima lingua. Come New York è la sua città d´adozione. Ci arriva nel 1960 con una borsa di studio dell´American-Israel Cultural Foundation Fellowship di Tel Aviv. «Non parlavo una parola d´inglese, ma ero finalmente nella terra promessa, era l´inizio». Oggi Libeskind ha all´attivo pregetti in tutto il mondo, tra cui il masterplan di Ground Zero che ha battezzato Memory Foundations. «È un progetto di enormi proporzioni, complesso, politico, ed estremamente simbolico. I lavori sono in corso ma ci sono moltissimi fattori di cui bisogna tenere conto: innanzitutto le famiglie delle vittime, poi l´amministrazione di New York e del New Jersey, l´Autorità Portuale che possiede il terreno, gli investitori, gli architetti che realizzano le diverse architetture, l´autorità dei trasporti, la metropolitana, i treni. È un progetto davvero molto articolato, ma procede. Lo vedo crescere ogni giorno dalla finestra del mio studio che affaccia sulla parte nord del cantiere, e la sera lo vedo di nuovo dal mio appartamento sulla parte sud». Poetico e pragmatico, visionario ma determinato, Libeskind racconta con grande energia questo progetto su cui sono puntati gli occhi del mondo intero. Con lui c´è sua moglie Nina, ne condivide idee, lavori, viaggi e visioni. «A settembre 2011 sarà pronto il Memorial», continua, «l´area centrale attorno a cui ruota tutto. L´ho immaginata vuota: un parco con grandi alberi, un luogo pubblico, di memoria e dignità. Non volevo costruire dove un tempo sorgevano le due torri, le nuove costruzioni sorgeranno intorno a questo luogo spirituale. La mia idea era anche di avere delle cascate per coprire il rumore delle macchine e creare un senso di pace. New York è una città fantastica, in movimento perenne, ma può anche essere un luogo calmo e denso di significati». Al centro del Memorial, dove fino all´11 settembre 2001 sorgevano le due torri, verranno scavati due vuoti profondi le cui pareti, con incisi i nomi delle vittime, saranno coperte da vigorose cascate, mentre un´architettura di vetro sarà l´ingresso a un museo della memoria sotterraneo. «Intorno, nonostante la crisi economica, stanno crescendo le cinque nuove torri, affidate a diversi architetti. Quella che sto facendo io, la numero quattro, la Freedom Tower, alta 1776 piedi, il numero che richiama l´anno dell´indipendenza degli Stati Uniti, è già al cinquantesimo piano. L´idea finale è quella di un quartiere non solo di uffici, ma anche di abitazioni, luoghi per la cultura, lo svago, il commercio. Integrare tutte queste funzioni significa ridare energia a questo luogo». L´architetto racconta ancora sforzi e risorse, sfide e desideri, delusioni e successi, legati a questo organismo che cresce di giorno in giorno. «A settembre saranno anche ricollegate le strade e le metropolitane, più in là aprirà la stazione, un incredibile e fantastico snodo che connetterà treni e metropolitana, non ci sarà più quell´interruzione della città che c´è ora, e questo è un elemento, oltre che funzionale, fortemente simbolico. Sono stato in cantiere pochi giorni fa, siamo in un momento straordinario, finalmente si vedono i lavori vicini alla fine, è un´intera città di operai che lavorano ventiquattrore al giorno sette giorni su sette. È davvero emozionante». Entusiasmo e determinazione sono i due poli attorno a cui ruota l´intero lavoro di Libeskind. «I miei genitori mi hanno insegnato a non cedere sotto pressione, a cercare strade alternative se la via principale non è percorribile». È quello che ha fatto. Daniel Libeskind è nato a Lodz, nel 1946, da genitori sopravvissuti prima ai campi di sterminio nazisti e poi agli anni del socialismo. «Amo la Polonia e la cultura polacca, anche se sono vissuto lì in un periodo molto grigio, e naturalmente parlo ancora la lingua. Ricordo la scuola, il conservatorio dove ho studiato pianoforte, la strada dove abitavo, gli amici, la rivoluzione. Delle ore passate in casa e, ancora ragazzino, di quando strappavo le immagini di Stalin dalle pareti della nostra cucina». La musica è la sua prima passione. I suoi esordi, le sue prime conferme, e soprattutto la borsa di studio che lo porta a New York sono in campo musicale. «L´ho amata fin da bambino, per me la musica è sempre stata un mondo protetto, un luogo di concentrazione astratto da tutto il resto e, a dire il vero, non l´ho mai abbandonata del tutto. Ha ancora un ruolo importante, anche nella mia architettura», spiega, «perché l´orientamento dell´essere umano avviene innanzitutto attraverso l´udito e non attraverso la vista: il senso dell´equilibrio sta nell´acustica. Il Museo Ebraico, ad esempio, è uno spazio acustico. L´armonia, il suono, il ritmo sono storicamente molto vicini all´architettura. Per certi versi il mio lavoro è una partitura, un disegno da eseguire e da orchestrare». A New York entra alla Cooper Union for the Advancement of Science and Art, una delle poche università americane che sostiene gli studi di giovani meritevoli ma dalle limitate possibilità economiche. «È stato fantastico studiare in una grande scuola internazionale dove c´erano artisti come Sol Lewitt e Hans Haacke, architetti come Richard Meier e Peter Eisenman». Dalla Cooper Union passa a Londra dove, più tardi, entra a far parte del corpo docenti della scuola d´architettura più all´avanguardia, l´Architectural Association. Nel 1988 espone al Moma di New York nella mostra Deconstructivist Architecture. A quel punto arrivano i primi progetti, a iniziare dal Museo Ebraico (consegnato nel 1999), per cui l´architetto si trasferisce a Berlino dove apre uno studio. Intanto Libeskind inizia a pensare al design. «Il design è in un certo senso architettura. Alla base ci sono processi logici e idee condivisi con l´architettura. Ad esempio il concetto dell´uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, ovvero dell´uomo come misura di tutte le cose, è alla base sia di un grande progetto architettonico come il Museo d´Arte Contemporanea del nuovo quartiere City Life di Milano che di un oggetto di design come la Torq Chair realizzata con Sawaya & Moroni». E in effetti la poltrona in acciaio somiglia molto ai disegni per il nuovo museo milanese. Ma non è mai solo una questione di forme. «Avere l´idea di una posizione seduta è anche avere idea di una tradizione architettonica che ha una percorso storico. Quindi un edificio, o un mobile significativo, devono essere basati su un concetto. Senza il concetto è solo moda. Ci sono mobili e architetture che hanno il dono di distillare lo spirito del tempo: quelle sono le vere icone, in cui forma e significato sono inscindibili, come il Padiglione Barcellona di Mies van der Rohe». E mentre da New York a Milano i cantieri procedono, l´architetto continua a guardare lontano. Il suo ultimo progetto di design per il prossimo Salone del Mobile con Sawaya e Moroni si chiama Altair. Dal nome di una delle stelle più brillanti del cielo.
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