Marta Dassù e Sergio Romano, due interventi sulla crisi egiziana.
Sulla STAMPA di oggi, 05/02/2011, a pag.1/35, Marta Dassù elenca una serie di interpretazioni sulla crisi egiziana. Cita alcuni opinionisti, quella di Garton Ash «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
è di una banalità assoluta, non era il caso di riprenderla. Passa poi in rassegna i vari scenari, quelli che hanno riempito le pagine dei giornali in tutti questi giorni: il potere dell'esercito, la modernizzazione della società egiziana, se si verificasse sarebbe cosa buona, il pericolo di una presa del potere da parte dei fondamentalisti, cosa non buona, ma cosa vogliono davvero i Fratelli musulmani ? difficile capirlo, chi sostiene una cosa chi l'altra, valli un po' a capire, stanno dalla parte dell'Iran oppure no, Marta Dassù ritiene di no, ma aggiunge, per cautelarsi, vallo a dimostrare ! e, infine, quanto sarebbe cosa buona l'arrivo della democrazia, un arrivo però che contiene rischi evidenti...
Insomma, è il solito compitino-riassunto, per cui alla fine uno si chiede che cosa avrà mai voluto dire Marta Dassù con tutti i suoi 'non solo ma anche'.
Non ce ne voglia l'autrice, ci faccia invece dono di una analisi nella quale il lettore medio, quale noi siamo, possa capire come la pensa.
Ecco l'articolo:
La Stampa-Marta Dassù: " Una partita cruciale per tutti noi "
Marta Dassù
A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro.
Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.
Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.
Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.
Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.
Corriere della Sera-Sergio Romano: " Iran 1979, Egitto 2011 analogie e differenze "
Sul CORRIERE della SERA di oggi, 05/02/2011, a pag.49, di fronte ad una lettera che pone domande chiare, Sergio Romano si preoccupa unicamente di far sapere quanto sono grandi le differenza fra la presa del potere da parte di Khomeini e quella possibile da parte dei Fratelli musulmani o da un El Baradei, sodale da lunga data proprio dello stesso potere iraniano. Ancora una volta l'analisi di Romano cerca di tranquillizzare i lettori su quanto può avvenire nei prossimi giorni in Egitto, riduce il pericolo del fondamentalismo musulmano, comunque si presenti, una linea che gli è abituale.
Ecco lettera e risposta:
Sergio Romano
In Egitto mi pare di rivedere un vecchio copione, quello dell’Iran. Come allora Jimmy Carter, alla fine del 1977, disse che l’Iran era un saldo bastione dell’Occidente, ora Hillary Clinton, qualche giorno prima dello scoppio dei disordini, ha detto che l’Egitto è un Paese «stabile» . Come allora gli Stati Uniti invitarono lo Scià ad avviare un programma di «democratizzazione» , ora Barack Obama chiede a Hosni Mubarak di farsi da parte per una «transizione ordinata verso la democrazia» ; come allora in Iran il primo governo di transizione fu affidato al laico Shapur Bakhtiar, ora spunta in Egitto il laico ElBaradei. Ma dopo Bakhtiar venne Khomeini e tutto quello che, purtroppo, sappiamo.
Stefano Nitoglia
studio. nitoglia@yahoo. it
Caro Nitoglia ,fra la crisi iraniana del 1978 e quella egiziana dei nostri giorni esiste una fondamentale differenza. Lo Scià era gravemente malato (morì di cancro nel luglio del 1980), affrontò la crisi con una serie di pericolosi tentennamenti e non poté contare sul sostegno delle forze armate. Mubarak invece ha già affidato alle forze armate egiziane il compito della transizione e non sembra avere altra preoccupazione fuor che quella di andarsene alla fine del suo mandato con il massimo decoro possibile. Non è tutto. Lo Scià fu abbattuto da un’ondata di protesta dietro la quale si profilava sin dall’inizio la presenza decisiva del clero sciita e del suo leader in esilio, l’ayatollah Ruhollah Khomeini. In Egitto la Fratellanza musulmana mi sembra molto meno bellicosa del passato e non ha un leader carismatico a cui affidare le proprie fortune. Esiste poi un’altra importante differenza, economica e sociale. Nel 1979, quando lo Scià dovette abbandonare il Paese, l’Iran era un Paese ricco e favolosamente arricchito dal vertiginoso aumento del prezzo del petrolio dopo la «guerra del Kippur» , il conflitto arabo israeliano del 1973. L’Egitto è un Paese molto più povero, privo di grandi risorse naturali e di un’agricoltura che possa sfamare 77 milioni di persone. La rivoluzione iraniana rovesciò il regime anche e soprattutto perché quell’alluvione di denaro, dopo il 1973, aveva ingigantito l’appetito dello Scià per armamenti moderni e faraonici progetti infrastrutturali: una messe di affari e contratti che ebbe soprattutto l’effetto di attrarre a Teheran uno stuolo di affaristi, moltiplicare esponenzialmente il tasso di corruzione del Paese, provocare la rabbia popolare e intorpidire il giudizio critico delle democrazie occidentali sulle sorti del regime. Poco più di un mese fa è uscito dagli archivi britannici il «Browne Report» , una indagine di novanta pagine commissionata trent’anni fa da David Owen, allora ministro degli Esteri del Regno Unito, sulle ragioni per cui la diplomazia inglese non era riuscita a prevedere la crisi iraniana. Il rapporto spiega che i diplomatici di Sua Maestà e quelli degli Stati Uniti erano soprattutto impegnati a sostenere le offerte delle industrie belliche dei loro Paesi e avevano perduto in tal modo la capacità d’interrogarsi sul futuro della monarchia e di affrontare con i loro interlocutori iraniani argomenti imbarazzanti. Beninteso, caro Nitoglia, lei non ha torto: non bisogna dimenticare le lezioni del passato. Ma le differenze sono spesso più importanti delle analogie.
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