Egitto, chi non ha capito nulla: Sandro Viola, Robert Fisk, Marco D'Eramo tre analisi alla rovescia
Testata:La Repubblica - L'Unità - Il Manifesto Autore: Sandro Viola - Robert Fisk - Marco D'Eramo Titolo: «La paura di Israele - Nessun incubo islamico. In piazza Tahrir ho visto l'Egitto laico - Obama, doppio dilemma»
Riportiamo da REPUBBLICA d oggi, 03/02/2011, a pag. 1-30, l'articolo di Sandro Viola dal titolo " La paura di Israele ". Dall'UNITA', a pag. 30, l'articolo di Robert Fisk dal titolo " Nessun incubo islamico. In piazza Tahrir ho visto l'Egitto laico ". Dal MANIFESTO, in prima pagina, l'articolo di Marco D'Eramo dal titolo " Obama, doppio dilemma ". Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Sandro Viola : " La paura di Israele "
Abu Mazen, Bibi Netanyahu
Sandro Viola rimprovera Israele di aver tralasciato i negoziati con i palestinesi e attribuisce questo fatto alla sua presunta sicurezza di non venire più colpito dal terrorismo palestinese. Se fosse questa la verità, ci sarebbe da chiedersi come mai non sia stato Israele ad abbandonare per l'ennesima volta il tavolo dei negoziati, ma Abu Mazen. Se non è ancora stato raggiunto un accordo è 'grazie' alla controparte palestinese, non per via della presunta pigrizia israeliana. In ogni caso Viola sembra quasi compiaciuto della situazione in Egitto, perchè ora Israele sarà costretto a pentirsi della sua 'pigrizia' e della sua 'tracotanza' e penserà che se avesse negoziato (ovvero ceduto a tutte le richieste palestinesi) per tempo, ora la sua situazione sarebbe migliore. Ecco l'articolo:
Sino a una decina di giorni fa, pochi israeliani (gli intellettuali, i giornalisti) parlavano ancora di politica. Del negoziato con i palestinesi interrotto già nello scorso settembre, di come il premier Netanyahu fosse scaltramente riuscito ad arginare la pressione della Casa Bianca che voleva la continuazione del negoziato, o dell´isolamento internazionale in cui Israele si trova da tempo. Gli altri israeliani parlavano d´altro. I prezzi dei terreni e delle case, la Borsa, l´ultimo film, il nuovo ristorante a Tel Aviv, le vacanze. Alla pace con i palestinesi non pensavano quasi più. Del resto, ormai da tre anni erano spariti gli attentatori-suicidi, e da due anni Hamas aveva praticamente fermato i lanci dei suoi razzi sul Negev. Nel paese s´insinuava ogni giorno di più l´idea che una vera pace con i palestinesi non ci sarà mai, ma che il Muro e la forza militare d´Israele erano lì a rendere improbabili nuove convulsioni come le due Intifada degli anni Ottanta e Duemila. L´impressione d´uno straniero a Gerusalemme e soprattutto a Tel Aviv, era che i tentativi di giungere alla pace non interessassero più la società israeliana. I giornali avevano ridotto gli spazi prima dedicati alla politica, e un sondaggio dell´autunno 2010 su quale problema sembrasse più urgente agli israeliani, rivelò che solo l´otto per cento degli interrogati citava al primo posto il conflitto con i palestinesi. Il segno che quel conflitto veniva ormai considerato un peso, una seccatura – anche se una grossa seccatura –, ma non più una minaccia per la sopravvivenza dello Stato ebraico. È per questo che gli avvenimenti egiziani hanno rappresentato per Israele un brusco, dolente risveglio. Certo: la prospettiva (sebbene ancora piuttosto vaga) di un Iran dotato dell´arma nucleare inquietava da un paio d´anni la classe politica, era l´oggetto di incessanti studi dello Stato maggiore sulla convenienza di un´eventuale azione preventiva, e circolava ogni tanto anche nei discorsi della gente. Ma dopo tutto l´Iran non è tanto vicino, e la sua bomba nucleare non è ancora fabbricata. Mentre il pauroso, per ora inarrestabile sbandamento del regime di Hosni Mubarak, le enormi e tumultuose dimostrazioni del Cairo suscitano emozioni assai più forti e profonde. Perché l´Egitto è vicino, è sulla frontiera occidentale d´Israele: la frontiera che da trentadue anni veniva considerata la più tranquilla, la più sicura. Il primo riflesso avvertibile di questa ondata di preoccupazioni che investe Israele è il ritorno degli israeliani alle abitudini del passato. L´irrinunciabile e ansioso ascolto, alle otto di sera, dei telegiornali più seguiti: il Canale 2 condotto dalla brava Yanit Levi, o il 10 che ha come conduttori Yaakov Eilon e Miki Haimovic. Rispuntano anche nei discorsi sugli autobus, nei caffè, nei campus universitari, le opinioni degli editorialisti più stimati, Nahum Barnea dell´Yediot Ahronot, Ofer Shaleh di Maariv, Ari Shavit di Haaretz. Dunque quella specie di smemoratezza che aveva colto la società israeliana, la convinzione che s´era fatta strada sull´impossibilità d´una nuova guerra (salvo che con avversari non troppo temibili come gli Hezbollah o Hamas), si sono dissolte in una sola settimana. E lo scioglimento martedì del governo giordano, il ricorso di re Abdullah II ai militari mentre anche le strade di Amman si stanno sempre più riempiendo di dimostranti, è venuto ad appesantire ulteriormente l´atmosfera. Tutti si rendono conto che in neppure un anno Israele ha perso i due soli appoggi che aveva nella regione. La Turchia di Erdogan, e l´Egitto di Mubarak scivolato nel caos. È vero, l´isolamento è una condizione alla quale Israele è abituato. I paesi arabi e islamici (tranne i due, Egitto e Giordania, con cui aveva firmato un trattato di pace) restano freddamente distanti se non ostili, il sentimento degli europei s´è fatto sempre più critico (se non si deve dire anti-israeliano), mentre gli scontri di tutto il 2010 con la Casa Bianca hanno aperto parecchie crepe nel rapporto con l´amministrazione, la diplomazia e l´opinione pubblica degli Stati Uniti. Ma Israele ha fatto il callo alla sua mancanza di amici. Ai governi di Gerusalemme basta il legame con l´America, che nonostante le liti tra Obama e Netanyahu intorno al negoziato con i palestinesi, regge, e reggerà forse per sempre. Tuttavia, il vuoto che si apre in questi giorni davanti a Israele con la crisi egiziana, rappresenta un colpo inatteso (il celebre servizio d´intelligence israeliano, il Mossad, nulla aveva previsto) e molto violento. Non c´è frontiera, adesso, che possa ritenersi sicura. A nord ci sono gli Hezbollah, a sud c´è Hamas, e adesso – mentre a ovest c´è il disfacimento del regime egiziano – a est scoppiano moti anche in Giordania. Né serve a rassicurare il discorso d´un Egitto che potrebbe farsi democratico senza per questo rompere il trattato di pace con lo Stato ebraico. Come dice il suo presidente, Shimon Peres, anche Hamas aveva vinto le libere elezioni in Palestina, ma solo per chiedere l´indomani la sparizione d´Israele dalle carte geografiche. Adesso, forse, il mondo politico israeliano e quella grossa parte dell´opinione pubblica del paese furiosamente contraria a qualsiasi compromesso territoriale con i palestinesi, rifletteranno sui danni politici, morali ed economici che quarantaquattro anni di occupazione della Palestina hanno procurato ad Israele. L´adagiarsi sulla conservazione dello status quo, la politica dei rinvii, il sistematico svicolare (come dimostrano i documenti pubblicati giorni fa da Al Jazeera) di fronte ad ogni apertura venuta negli anni dai palestinesi, sono stati esiziali. I "Palestinian papers" forniti dall´emittente araba hanno forse minato la credibilità del leader palestinese Mahmud Abbas agli occhi del suo popolo (troppe concessioni, troppo affanno nel voler chiudere la trattativa), ma ai nostri occhi sono chiarissimi. Per due anni, tra 2006 e 2008, l´Autorità nazionale palestinese avanzò proposte molto generose sugli insediamenti, su Gerusalemme, e sul "diritto al ritorno" dei profughi che dovettero lasciare le loro case nel ´48 e nel ´67. L´intesa con il premier israeliano d´allora, Ehud Olmert, fu davvero vicina. Ma l´opposizione dei coloni e poi l´avvento del governo Netanyahu sostenuto dai partiti di destra, la fecero andare in fumo. Oggi, se ci fosse stato un accordo con i palestinesi, la posizione d´Israele dinanzi al collasso del regime egiziano sarebbe diversa, meno inquietante e spinosa? La risposta è sì. I moti del Cairo non hanno avuto sinora, per fortuna, allarmanti intonazioni anti-israeliane. Ma la pace con i palestinesi avrebbe reso Israele meno sola e sconcertata di com´è in queste ore.
L'UNITA' - Robert Fisk : " Nessun incubo islamico. In piazza Tahrir ho visto l'Egitto laico "
Robert Fisk
Robert Fisk scende in piazza coi manifestanti e, nonostante si trovi in mezzo all'azione, dimostra con il suo articolo di aver compreso poco (nulla?) di quanto sta succedendo in Egitto. Certo che la rivolta è nata contro Mubarak dalla popolazione asfissiata dalla dittatura, ma è impossibile non accorgersi che i Fratelli musulmani, ben infiltrati, stanno strumentalizzandola a proprio vantaggio. Ma a Robert Fisk interessa la realtà? Rileviamo che l'UNITA' ha scelto quale 'esperto' Robert Fisk, del quale pubblica tutti gli articoli. Complimenti ! Ecco il suo articolo:
Quella di martedì è stata la parata della vittoria, ma senza la vittoria. Il solo dispiacere che al calar delle tenebre Hosni Mubarak si autodefiniva ancora «presidente» dell'Egitto. Mubarak ha concluso la giornata come previsto, apparendo in televisione per annunciare che bisognerà aspettare fino alle prossime elezioni. Sulle prime agli egiziani avevano detto che questa doveva essere la marcia di un milione di persone fino al Palazzo di Kuba, residenza ufficiale di Mubarak a Heliopolis. Ma la folla era tale che gli organizzatori, che facevano capo a circa 24 gruppi di opposizione, hanno deciso che era troppo pericoloso esporsi alle cariche della polizia segreta. In seguito hanno detto di aver scoperto un furgone con a bordo uomini armati nei pressi di piazza Tahrir. Io ho visto solamente 30 sostenitori di Mubarak che urlavano a squarciagola il loro amore per l'Egitto davanti alla sede della radio sotto lo sguardo vigile di oltre 40 soldati. Le urla di odio per Mubarak stanno diventando familiari e gli striscioni sempre piu' interessanti. «Né Mubarak né Suleiman; non abbiamo bisogno di Obama — ma non ce l'abbiamo con gli Usa», diceva generosamente uno.striscione_«Via tutti. compresi i vostri schiavi», diceva un altro. In un cortile sporco e malridotto ho visto dei ragazzi che con lo spray scrivevano su candide lenzuola rettangolari gli slogan politici per pochi centesimi. Le sale da te dietro la statua di Talat Harb erano affollate di gente che parlava di politica con la stessa passione che si vede nei dipinti orientalisti di Delacroix Ma cosa era? L'inizio di una rivoluzione? O una rivolta? O una «esplosione» di rabbia come l'ha descritta un giornalista egiziano con il quale ho parlato? Questo avvenimento politico senza precedenti aveva alcuni Elementi peculiari. Anzitutto lo spirito laico della manifestazione. Donne col chador, il niqab o il fazzoletto marciavano allegramente accanto a ragazze coni capelli lunghi sulle spalle, gli studenti camminavano accanto agli imam e ad uomini con barbe che avrebbero fatto morire di invidia Osama bin Laden. I poveri con i sandali logori e i ricchi vestiti da uomini d'affari si confondevano nella folla multicolore dando una rappresentazione grafica dell'Egitto diviso in classi e facendo pensare all'invidia sociale incoraggiata dal regime. Avevanc fatto l'impossibile e, in un certo senso, la loro personale rivoluzione so. ciale l'avevano già fatta con pienc successo. Poi c'era l'assenza dell'«islamismo» vero e proprio incubo dell'Occidente, incoraggiato ovviamente dall'America e da Israele. Mentre il. mio cellulare continuava a squillare andava in onda la solita, vecchia storia. Tutti — giornalisti radiofonici, televisivi, redazioni — volevano sapere se dietro l'oceanica dimostrazione c'era la Fratellanza Musulmana. La Fratellanza avrebbe preso il potere in Egitto? Ho detto la verità. Erano scemenze. La «Fratellanza Musulmana» alle ultime elezioni ha preso il 20% dei voti e i membri dell'organizzazio-ne sono 145.000 su una popolazione di oltre 80 milioni. Una folla di egiziani che parlavano inglese si è raccolta intorno a me durante uno di questi imperdibili colla qui telefonici. Sono quasi caduti a terra dalle risate al punto che ho dovuto ncare la conversazione. Natural-me e non è servito a nulla spiegare interve ndo in diretta che il gentile e umanisst o ministro degli Esteri di Israele, Avigdòr.Lieberman— che una volta ha detto che "Mubarak puo' andare all'inferno"— può finalmente ritirarsi dalla scena, politicamente inten *** do. La gente era travolta dagli eventi. E anche io. Mi trovavo all'incrocio dietro il Museo Egizio dove appena cinque giorni prima — mi sembravano passati cinque mesi — sono quasi morto soffocato per lacrimogeni. Fino ad allora nessuna parola di lode e sostegno da parte dell'Occidente per queste 'donne e questi uomini coraggiosi. E anche l'altro ieri non si è levata una voce per ringraziarli. Sorprendentemente erano pochissimi i segni di ostilità nei confronti degli Stati Uniti malgrado le espressioni infelici di Obama e di Hillary Clinton negli otto giorni precedenti. Quasi dispiaceva per Obama. Se avesse sostenuto il tipo di democrazia che aveva predicato al Cairo sei mesi dopo la sua investitura, se avesse chiesto qualche giorno prima l'uscita di scena di questo dittatore di Serie C, la folla oltre alla bandiera egiziana avrebbe sventolato quella degli Stati Uniti e Washington avrebbe realizzato la missione impossibile: trasformare l'odio contro l'America (Afghanistan, Iraq, «guerra al terrore» e via dicendo) nel rapporto più disteso e amichevole che gli Usa ebbero negli anni '20 e'30 e, malgrado l'appoggio dato alla nascita di Israele, nel calore che caratterizzava le relazioni tra arabi e americani fino agli anni '60. Ma no. Queste possibilità' sono andate perse in appena sette giorni di debolezza e codardia come quelli vissuti a Washington e che stridevano con il coraggio di milioni di egiziani che cercavano di fare quello che noi occidentali gli chiediamo sempre: trasformare una dittatura in democrazia. Loro volevano la democrazia. Noi volevamo la «stabilità», la «moderazione», la «misura», la leadership «forte», le «riforme» caute e i musulmani ubbidienti. Il fallimento della leadership morale occidentale potrebbe rivelarsi una delle principali tragedie del Medio Oriente. L'Egitto non è anti-occidentale. Non è nemmeno particolarmente anti-israeliano anche se le cose potrebbero cambiare. La tragedia è che un presidente americano ha teso la mano al mondo islamico e poi ha mostrato il pugno quando quello stesso mondo islamico è sceso in piazza per combattere una dittatura e chiedere la democrazia. Questa tragedia potrebbe prose' nei giorni a venire nel caso in cui Stati 'ti e Unione Europea decidessero di a giare il successore designato di Mub vale a dire il vicepresidente Omar S capo dei servizi segreti e negoziato on Israele. Suleiman ha detto di voler aprire un tavolo negoziale con «tutte le fazioni»—ha persino tentato di imitare Obama. Ma in Egitto tutti sanno che un suo eventuale governo sarebbe l'ennesima giunta militare che gli egiziani sarebbero chiamati ad ossequiare per ottenere quelle elezioni veramente libere che .Mubarak non ha mai concesso. È possibile, è concepibile che il migliore amico di Israele ir. Egitto dia a questi milioni di egizian: la libertà e la democrazia che chiedo. no? È possibile che l'esercito appogg acriticamente quella democrazia con siderato che riceve da Washington 12 bella somma di 1,3 miliardi di dollar. l'anno? Questa macchina militare che non combatte una guerra da 3f anni, è sotto-addestrata e super-ar mata con armamenti per lo più obso lezi — anche se l'altro ieri si potevanc ammirare i nuovi carri MI A1— e van ta legami inestricabili con il giro de gli alberghi e dei complessi residen ziali di lusso, graziosi regali del regi me Mubarak ai generali per premiar( la loro fedelta». E cosa facevano gli americani? Cor reva voce che i diplomatici american fossero in viaggio per l'Egitto per pre siedere il negoziato tra il futuro presi dente Suleiman e i gruppi dell'opposi zione. Correva anche voce che diversi soldati del corpo dei Marines fossero stati inviati in Egitto per difendere l'ambasciata americana da eventuali attacchi. Certo è che Obama alla fine ha detto a Mubarak di togliere il disturbo. Certo è che le famiglie americane sono state evacuate dal Marriott Hotel del Cairo e scortate da soldati e poliziotti egiziani all'aeroporto abbandonandc un popolo che poteva benissimo essere amico dell'America. Ecco alcuni messaggi postati su Twitter in Egitto: «Sono uno scrittore e alla gente del mondo libero che ha paura che i fondamentalisti islamici possano prendere il potere. voglio dire che in Egitto una cosa del genere non accadrà mai. Quando gli egiziani saranno realmente liberi non permetteranno ai fanatici di prendere il potere». egli ultimi trenta anni abbiamo pro t0 ammirazione per il sogno amen che parla di libertà e democrazia. Per questo ci aspettiamo che l'America appoggi tutti coloro che'nel mondo lottano per la libertà e la democrazia». «Sono contento di poter finalmente dire come ci sentiamo qui in Egitto. È un momento storico. Spero che le cose vadano come noi tutti desideriamo. Vogliamo tutti la democrazia». «Chi ha paura di arrampicarsi su una montagna vivrà sempre sprofondato nel fango. Noi non vogliamo più vivere nel fango». «Sono egiziano e chiedo l'aiuto di tutti gli esseri umani. Non dobbiamo essere solamente noi egiziani a chiedere a questo tiranno di rispondere del suo operato. Tutto il mondo deve chiederlo insieme a noi». «Siamo in due milioni a piazza Tahrir e non ce ne andremo fin quando non se ne sara' andato Mubarak».
Il MANIFESTO - Marco D'Eramo : " Obama, doppio dilemma "
Marco D'eramo analizza la situazione in Egitto, ma dalla sua conclusione risulta evidente che non è stato in grado di capire molto. Secondo lui l'Egitto non rischia di diventare un nuovo Iran, a meno che Obama non punti su qualcuno di diverso dai Fratelli Musulmani. Appoggiare il partito islamista che vuole la sharia per evitare che l'Egitto si tramuti in teocrazia. Un ragionamento impeccabile, sul serio. Degno del quotidiano di Rocca Cannuccia. Ecco il pezzo:
Afebbraio 2011 appare un’ironia della storia che proprio al Cairo fu tenuto da Barack Obama, nel giugno 2009, il discorso che maggiori speranze suscitò tra le masse e gli intellettuali arabi. S’intitolava «Un nuovo inizio». Sono passati solo 19 mesi, ma sembra un’eternità. Oggi infatti, quando il mondoarabo, in particolare l’Egitto, è davvero di fronte a un «nuovo inizio », il presidente degli Stati uniti è costretto a scegliere solo tra chi deludere e deve far fronte a due esigenze contraddittorie e autoescludentisi. Da un lato infatti deve appoggiare i tentativi di democratizzazione in corso: se non lo facesse, l’immagine degliUsa «paese della libertà» ne uscirebbe macchiata assai. Dall’altro lato deve far sì che l’Egitto continui a essere nel mondo arabo il partner più fidato di Israele. Ora, il problema è che a percorrere la via democratica fino in fondo, il governoche emergerà rispecchierà più da vicino i sentimenti popolari e quindi sarà meno filo-israeliano, se non addirittura anti-israeliano. Ma se gli Stati uniti cercheranno di garantirsi una continuità in politica estera rispetto al precedente regime, allora la «democrazia» sarà per forzamoncae parziale.Basti pensare al precedente palestinese dove elezioni libere e senza brogli hanno dato la maggioranza ad Hamas, incluso dagli Usa tra le organizzazioni terroriste. Usando un concetto della teoria dei sistemi, Obama è in una situazione di double bind da cui non può districarsi semplicementenominandounaltrodittatore, per esempio facendo assumere il potere all’attuale uomo forte del regime, il capo dei servizi segreti e nuovo vicepresidente, Omar Suleiman, che comunque ha i suoi 74 anni e costituirebbeuna soluzione solo temporanea.Una soluzione però che ai milioni di dimostranti egiziani apparirebbe una presa in giro. È dal colpo di stato del 1952 che l’Egitto è ininterrottamente governato da militari di carriera (MuhammadNaguib, Gamal Abdel Nasser, Anwar El Sadat, Hosni Mubarak). Ma il mondo in cui si trovano a operare gli Statiuniti oggi non è più quello in cui, parlando del dittatore nicaraguense Somoza, il presidente Franklin Delano Roosevelt poteva dire: «Sarà un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Oggi,nonfosse altro che per l’esistenza di Al Jazeera edi Internet,nonèpiù così semplice sostituire «i nostri figli di puttana». Da questo punto di vista, il timore che l’Egitto si trasformi in un nuovo Iran (e che Obama faccia la fine di Jimmy Carter) non è del tutto infondato. Perché all’Iran fu vietato per decenni di dotarsi di una democrazia: quando ci provò,con ilpremierMohammadMossadeq, nel 1953 gli americani gli organizzarono un bel golpe e affidarono il paese alla dittatura dello Scia Rezxa Palhavi. Ma senza ricorrere al caso estremo dell’Iran, basta guardare alla Turchia, altropaese di 75milioni di abitanti, che bussa alle porte dell’Europa e che ha dovuto subire il duro tallone dei militari per quasi un secolo: per i turchi il laicismo occidentalizzante era inestricabilmente intrecciato con l’immagine di una dittatura militare. Per disfarsi un po’ alla voltadi questo strapotere armato, i turchi sono ricorsi a un partito islamico. Anche gli algerini si erano rivolti all’integralismo come baluardo contro una corrotta dittatura militare. In Egitto, i Fratelli musulmani non sono stati e non sono al centro della rivolta, che è secolare.Ma certo è che, se per garantire la sicurezza d’Israele, gli Stati uniti punteranno su un altro «figlio di puttana », allora un’evoluzione dell’Egitto in senso iraniano è quasi garantita.
Per inviare la propria opinione a Repubblica, Unità, Manifesto, cliccare sull'e-mail sottostante