Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 02/02/2011, a pag. 1-33, l'articolo di Arrigo Levi dal titolo "Finite le illusioni di Israele ". Da REPUBBLICA, a pag. 29, l'articolo di Barbara Spinelli dal titolo " Il dizionario dei luoghi comuni ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 5, l'articolo di Ugo Tramballi dal titolo " Israele rischia l'isolamento nell'area ".
Arrigo Levi, Barbara Spinelli, Ugo Tramballi vedono nel conflitto israelo-palestinese una delle cause della crisi di Mubarak in Egitto.
A tal proposito, invitiamo a leggere l'analisi di Manfred Gerstenfeld pubblicata ieri da IC, cliccando sul link sottostante, nella quale spiega chiaramente come il conflitto israelo-palestinese non c'entri nulla con le rivendizaioni scoppiate in Medio Oriente.
http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=115&sez=120&id=38376
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:
La STAMPA - Arrigo Levi : " Finite le illusioni di Israele "
Arrigo Levi
Arrigo Levi attribuisce a Israele il fatto che non esista uno Stato palestinese. Niente di più lontano dalla verità. Sono stati gli arabi nel '48 a rifiutarlo, nella speranza di cancellare in breve tempo quello ebraico.
Levi spera che la caduta di Mubarak "spinga questo governo israeliano a una iniziativa a sorpresa per condurre proprio ora al successo il negoziato con i Palestinesi ". Il negoziato con i Palestinesi (con la P maiuscola, perchè?) è sempre fallito non per colpa di Israele. Sono i palestinesi ad essersi sempre opposti a qualunque soluzione. Fare cessioni senza garanzie non è una strategia vincente e Gaza ne è la prova lampante.
Ecco l'articolo:
L’ invito a «sostenere Mubarak», rivolto da Israele agli Stati Uniti e ai Paesi europei, non sembra davvero una reazione adeguata alla potenziale estrema gravità, per lo Stato ebraico, di un cambiamento di regime in Egitto. L’atteggiamento dominante, e il solo per ora possibile, a Washington come nelle capitali europee, è di «wait and hope», aspettare e sperare. Nessuno, in Occidente, può o avrebbe potuto «sostenere Mubarak»: e come? Mandando cannoniere di fronte ai porti egiziani? L’Occidente altro non può fare che aspettare gli sviluppi di quelle che sono ancora le fasi iniziali di una vera e propria rivoluzione, di cui nessuno può prevedere gli sviluppi; e auspicare, dichiarandolo apertamente, che essa conduca alla nascita di una democrazia egiziana, e non alla fondazione di un «Medio Oriente islamico che faccia finalmente i conti con Israele», come si augura il governo iraniano. Contare su un intervento occidentale che rafforzi Mubarak è assurdo, sembra piuttosto l’espressione di uno Stato di confusione del governo di Netanyahu di fronte a un potenziale stravolgimento, ai danni d’Israele, di tutto il quadro mediorientale, che ha ancora nell’irrisolto conflitto israelo-palestinese uno dei suoi nodi centrali.
La trentennale pace con l’Egitto era rimasta, a livello popolare, una «pace fredda». Ma aveva assunto i caratteri di una vera e propria alleanza contro la minaccia di un islamismo estremista, che si manifestava concretamente anche nella ostilità dell’Egitto al potere di Hamas a Gaza. Non sembra ragionevole, da parte israelita, una reazione analoga al «wait and hope» dell’Occidente: una «non politica», che in questa fase d’incertezza può anche rappresentare la scelta più saggia per l’Europa o l’America, ma una scelta che Israele, che ha ben altro in gioco, non può permettersi.
Israele, o meglio l’Israele dell’alleanza fra destra politica e religiosa guidata da Netanyahu, poteva anche pensare che la sostanziale inazione diplomatica, e la continuazione dell’espansione nei territori occupati, rappresentasse una politica comoda e non rischiosa nei confronti di un mondo palestinese diviso e privo di sostanziali appoggi dal mondo arabo e islamico: a patto, beninteso, di non guardare troppo in avanti nel tempo, e di illudersi che una Palestina sempre più debole avrebbe finito per doversi accontentare di una pace imposta a qualsiasi condizione. Se sono vere le rivelazioni di Al Jazeera, l’atteggiamento rinunciatario dei negoziatori palestinesi poteva giustificare queste illusioni.
Ma l’alleanza con l’Egitto era la premessa necessaria di questa politica, in verità ingiusta nei confronti del popolo palestinese, e miope da parte di uno Stato d’Israele che troverà la finale garanzia del suo avvenire storico soltanto nella nascita di uno Stato palestinese che offra il giusto riconoscimento alle ragioni del popolo palestinese. Se gli Ebrei hanno continuato a dirsi per duemila anni «l’anno prossimo a Gerusalemme», perché mai i Palestinesi, con alle spalle un grande mondo arabo e islamico, dovrebbero dimenticare in tempi brevi il sogno di una loro patria?
Dunque, che può fare Israele? Da più parti l’avvio della rivoluzione egiziana ha indotto diversi osservatori a chiedersi se proprio il venir meno della «colonna della pace» che aveva base al Cairo non possa avere l’effetto sorprendente di spingere Israele, nel timore di un proprio ulteriore isolamento, a rilanciare il negoziato in sospeso con i Palestinesi, dimostrando la necessaria disponibilità alle concessioni, indispensabili per un accordo, sulla cessazione dei nuovi insediamenti come sull’accettazione di una capitale palestinese nelle zone a popolazione araba della grande Gerusalemme. (Del resto, nella Gerusalemme storica, dentro le antiche mura, non ci sono né il Parlamento né la Presidenza né gli essenziali organi di governo neppure dello Stato d’Israele).
Ma per ora questo è soltanto un auspicio. Anche l’opportunismo istintivo di un politico abile come Netanyahu non sembra all’altezza di una tale svolta politica. La speranza che la rivoluzione egiziana porti alla nascita di una democrazia laica egiziana è forse ancora meno audace della speranza che l’annuncio, che comunque viene dal Cairo, di una nuova era di instabilità e imprevedibilità di tutto il mondo arabo-islamico (non sappiamo se e dove si fermerà l’ondata rivoluzionaria, dopo la Tunisia e l’Egitto), spinga questo governo israeliano a una iniziativa a sorpresa per condurre proprio ora al successo il negoziato con i Palestinesi. Gli osservatori meno ottimisti temono l’effetto opposto di un ulteriore rinchiudersi d’Israele dietro l’illusoria sicurezza del muro di protezione ai confini dello Stato.
La REPUBBLICA - Barbara Spinelli : " Il dizionario dei luoghi comuni "
Barbara Spinelli
Barbara Spinelli ritiene che islam e democrazia siano compatibili e, per dimostrarlo, cita ad esempio la Turchia e l'Indonesia.
Evidentemente il concetto di democrazia che ha Spinelli non include libertà di stampa, nè di opinione, nè di culto.
La soluzione prospettata da Spinelli per il conflitto israelo-palestinese è uno Stato unico binazionale. Il che comporterebbe, ovviamente, la cancellazione di Israele. Il desiderio di Spinelli, insomma.
Ecco l'articolo:
Ancora non sappiamo quale sarà l´esito delle rivoluzioni arabe, in Tunisia ma soprattutto in Egitto. E se davvero sfoceranno in democrazie costituzionali. Ma fin da ora quel che sta accadendo costringe gli occidentali a guardare da vicino questa regione, cosa che non hanno mai fatto sul serio né dopo l´ultima guerra mondiale, né dopo la decolonizzazione, né quando il Medio Oriente ha cessato di essere un luogo quasi astratto di accaparramento e di scontro fra Urss e democrazie liberali.
Questo sguardo da vicino giunge terribilmente tardi, e sono le popolazioni stesse a trasformare il luogo da astratto in concreto: sono quelle piazze arabe i cui cuori e le cui menti si volevano conquistare, dopo l´11 settembre, con il ferro e il fuoco, esportando democrazia come fosse un foglio appiccicato da fuori sui popoli. Guardarli da vicino significa non solo provare a decifrare i loro tumulti, ma cominciare da noi: da una rivoluzione nelle nostre teste, nelle nostre parole, nei dizionari di luoghi comuni ereditati dall´epoca coloniale e all´origine di politiche contraddittorie, sostenitrici di autocrazie che erano amiche nostre ma non dei loro popoli. Le guerre da noi lanciate hanno rigonfiato in questi paesi la corruzione, l´immobilità, lo sfruttamento della persona. I tumulti sono partiti da alcuni suicidi. A differenza del kamikaze, il suicida colpisce se stesso, non l´altro. È un inizio del tutto nuovo.
Il primo luogo comune nei nostri dizionari è la suddivisione amici moderati-nemici radicali. È la gara per l´accaparramento che continua, come nella guerra fredda, con la differenza che il discrimine è il rapporto con America - e Israele - e la lotta al terrorismo. Gli amici non sono necessariamente i filo-occidentali, e ancor meno chi vuole le basi Usa. Una persona come Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti nominato vicepresidente e indicato come possibile successore di Mubarak a noi «amico», è conosciuto in Egitto come torturatore, complice delle deportazioni (extraordinary rendition) di sospetti di terrorismo nei paesi dove la tortura è normale (in Italia, collaborò con la Cia per la deportazione in Egitto di Abu Omar, nel 2003).
Tutti gli attributi cui ricorriamo (moderati, fautori di nostri valori) franano d´un colpo come accade alle bugie. I regimi a Tunisi o al Cairo, o quelli giordano e saudita, non diventano moderati per il mero fatto che avversano l´Islam radicale e non Israele. Prima o poi, se si è democratici come si pretende, deve entrare nel calcolo il favore che gli autocrati godono presso i popoli, e questo è mancato. È un atteggiamento coloniale che gli arabi non accettano più. Non è da escludere che le prime mosse dei nuovi regimi, democratici o no, non saranno filo-americane ma anticoloniali.
Il secondo luogo comune concerne l´Islam. Lo stereotipo dice: l´Islam è da sempre incompatibile con la democrazia, e saranno gli estremisti a prevalere. Anche qui, l´ignoranza si mescola a conveniente malafede: l´anti-islamismo è la colla che ha legato l´Ovest a regimi esecrati dai popoli. Non è in nome di Allah che gli egiziani hanno riempito le piazze, ieri, e che anche i giordani manifestano. Sono spinti, spesso, dal primordiale bisogno di pane quotidiano. Dai tempi delle guerre contadine nel ´500 e dalla rivoluzione francese sappiamo che il pane implica una profonda idea di pace. Oggi implica una domanda possente di democrazia, di legalità, di giustizia sociale. L´Islam radicale, compresi i Fratelli musulmani, ha organizzazioni più capillari - assistenza ai poveri, ai disastrati - ma anche se si metteranno alla testa dalle rivoluzione non ne sono i veri iniziatori e lo sanno.
Inoltre, siamo di fronte a un falso storico. Primo, perché il 75 per cento dell´Islam ha democrazie elettive, dall´Indonesia alla Turchia. Secondo, perché molti paesi hanno sperimentato la democrazia, senza riuscirci. L´interventismo occidentale ha più volte congelato tali esperimenti. Un esempio: il complotto anglo-americano del ´51-53 per eliminare il premier Mossadeq pur di salvare, sconsideratamente, l´amico scià di Persia.
Ma lo stereotipo cruciale riguarda Israele, e non stupisce che l´inquietudine maggiore si condensi qui. I movimenti arabi dovrebbero esser accolti con speranza da quella che viene chiamata la sola democrazia in Medio Oriente: è come li saluta un editoriale di Haaretz. Ma una rivoluzione mentale ancora non c´è, e per questo i timori si diffondono e sono anche fondati. La democrazia araba non gioca obbligatoriamente a favore di Netanyahu, ed è fonte di gravi pericoli se nulla cambia nella politica israeliana. In un mondo arabo assetato di libertà si vedranno più da vicino i difetti di una democrazia certo più avanzata - Israele ha una stampa libera, una giustizia indipendente - ma che occupando da 44 anni la Palestina controlla milioni di cittadini non democraticamente: declassandoli, assediandoli a Gaza, recludendoli in Cisgiordania.
Israele non cessa di essere uno Stato minacciato mortalmente, e la perdita dell´Egitto sarebbe un cataclisma. Ma anche qui l´autoesame s´impone. Gli arabi stanno abbandonando il vittimismo per entrare nell´età del potere su di sé: dalla cospirazione alla costruzione, dall´umiliazione all´azione, scrive Roger Cohen sul New York Times del 31 gennaio. La stessa emancipazione dovrà avvenire nelle teste israeliane. Il cataclisma può aiutare gli ex colonizzatori occidentali come Israele a ripensare il passato. Israele nasce nel 1948 come uno Stato etnico, nel momento in cui le democrazie europee scoprivano le catastrofi causate dagli Stati troppo omogenei fuorusciti dagli imperi asburgico e ottomano. Pur scappando dalla Shoah, gli ebrei non giunsero in Palestina come un «popolo senza terra in una terra senza popolo» (la definizione fu dello scrittore Zangwill, nel 1901). Piano piano, Israele ha dovuto vedere il desiderio palestinese di tornare nelle città da cui furono cacciati, e di costruirsi uno Stato. Ma grande è la fatica di guardare. Ancora il 30 agosto 2002, il capo di stato maggiore Moshe Yaalon dichiarava: «Bisogna fare in modo che i palestinesi capiscano nei più profondi anfratti della loro coscienza che sono un popolo sconfitto». Convinto dell´immaturità araba, Israele ha potuto negare la realtà, dire che non esistevano interlocutori palestinesi con cui fare la pace. Anche per lui sta giungendo l´ora in cui dal vittimismo tocca passare all´esercizio del potere non solo sugli altri, ma su di sé.
La democrazia araba è desiderata ormai anche da Obama. Ma più essa avanza, più cresceranno le spinte su Israele perché cessi l´occupazione dei territori, perché le colonie siano smantellate. Chiunque guardi la mappa della Palestina (il sito è Facts on the Ground - American for peace now)» vedrà una terra talmente costellata di colonie che nessuno Stato, tantomeno democratico, è concepibile.
Israele ha tutte le ragioni di preferire Suleiman a El Baradei al Cairo: perché la democrazia araba sconvolge ovunque le comodità dello status quo. È travolto lo status quo in America: Obama sarà costretto a riesumare il tema dell´occupazione. Il rischio, per Israele, è che la rivolta lambisca i palestinesi. Già si è visto quel che produce il voto democratico quando c´è stasi: vincono Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano. La democrazia può indurre i palestinesi a rinunciare a uno Stato separato; a chiedere uno Stato binazionale, senza omogeneità etnico-religiose: tutto questo, in nome della democrazia e del principio, sacralizzato proprio in America, dell´one man-one vote, «ogni uomo un voto». Un principio che in uno Stato binazionale darebbe agli arabi la maggioranza, in poco tempo. Sarà difficilissimo per Israele, a quel punto, restare immobile, guadagnar tempo, e evitare che l´America non appoggi un principio che è indiscutibile in democrazia.
Il SOLE 24 ORE - Ugo Tramballi : " Israele rischia l'isolamento nell'area "
Ugo Tramballi
Tramballi scrive " Quando gli arabi torneranno a guardare verso di loro, gli israeliani saranno ancora in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Ma non avranno più amici nella regione. Congelando la trattativa di pace, è stato perso tempo importante. Soprattutto questo governo di Bibi Netanyahu che ha avuto seri interlocutori palestinesi per farne una vera. ". Qaali sarebbero gli interlocutori seri per la pace con Israele ? Abu Mazen che sente la mancanza dei terroristi di Monaco e che aspetta che scada la moratoria sugli insediamenti durata 10 mesi per sedersi al tavolo dei negoziati e chiedere una proroga per il solo fatto di essere lì ? O Hamas che continua con il lancio di razzi ? Perchè deve essere Israele a fare il primo passo e cedere senza avere nulla in cambio ? I vari governi israeliani hanno fatto di tutto per trovare un accordo, ma sono sempre arrivati solo rifiuti e violenza dalla controparte palestinese. Tramballi fa finta di non saperlo. Perchè?
Ecco l'articolo:
Salvare il regime, Mubarak compreso. Da Kiryat Ben Gurion, a Gerusalemme, il cablo del ministero degli Esteri è arrivato tre giorni fa a tutte le ambasciate israeliane in Occidente: fare lobbying per il raìs. L'invito del più stretto alleato in Medio Oriente arrivava proprio quando americani ed europei scaricavano Mubarak e cercavano finalmente di capire cosa fosse il movimento sceso in piazza, quale interlocutore potrebbe essere Mohamed ElBaradei, quanto radicali o moderati siano i Fratelli musulmani.
Avigdor Liebermann è il meno diplomatico fra i ministri degli Esteri della storia d'Israele ma non è solo lui il responsabile di una tempistica così mediocre. Le manifestazioni al Cairo e la caduta di Hosni Mubarak, alleato insostituibile d'Israele, sono il segno di un fallimento geopolitico. Dopo tanto combattere guerre e negoziare paci è come tornare al 1973, anno dell'ultima grande guerra con gli arabi. Oltre la frontiera settentrionale il Libano è controllato da Hezbollah; a Gaza c'è sempre Hamas; a Sud, il confine più importante, non si sa; la Giordania a Est è un paese intrinsecamente fragile; a Nord-Est tutti pregano che almeno tenga il regime siriano, un "nemico affidabile". Se aggiungiamo la rottura con la Turchia, l'isolamento israeliano nella regione è quasi totale.
Tutte le dinamiche sono interne ai singoli paesi: dove la gente è scesa in piazza e dove lo farà, la questione è economica, di libertà individuali e collettive. Non si parla di "nemico sionista" né di palestinesi. Ma la questione è sempre sotto traccia, è nei cromosomi del mondo arabo. In ogni paese in cui sia stata firmata, la pace con Israele è impopolare. E se prima o poi non sarà la gente a ricordarsi della questione palestinese, ci penseranno i leader vecchi e nuovi: sollevare il problema è sempre stato un pretesto utile per chi ha delle difficoltà interne, un facile mezzo di consenso. Anche se il regime egiziano in qualche modo sopravvivesse, il suo candidato potrebbe essere Amre Mussa, ex ministro degli Esteri e da un decennio segretario della Lega Araba: diversamente da Mubarak, Mussa non è affatto un amico d'Israele. Anche Mohamed ElBaradei, moderato e favorevole alla pace, dovrebbe tener conto degli umori della gente.
Quando gli arabi torneranno a guardare verso di loro, gli israeliani saranno ancora in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Ma non avranno più amici nella regione. Congelando la trattativa di pace, è stato perso tempo importante. Soprattutto questo governo di Bibi Netanyahu che ha avuto seri interlocutori palestinesi per farne una vera. Andando in Israele in questi anni era facile cogliere un senso di autocompiacimento. Il muro aveva azzerato il terrorismo palestinese; la guerra di Gaza ridato fiducia nella propria forza dopo le incertezze in Libano; scampato il pericolo iniziale, l'amministrazione Obama era tornata all'ordine, praticamente comparsa dallo schermo; si è ricominciato pesantemente a costruire negli insediamenti senza che si sollevasse una sola protesta di qualche rilevanza. E infine l'economia che, nonostante tutto, cresce con medie cinesi proporzionalmente al deterioramento politico della regione. Perfino nell'Autorità palestinese i dati economici sono smaglianti.
In questa torre d'avorio e di ottimismo, Israele ha coltivato la convinzione che non ci sia altro da fare, che vada bene così. Che della pace con i palestinesi, per usare le parole di Avigdor Lieberman, se ne parlerà «fra 16 anni». Forse. Sfiancati da due intifade, i palestinesi non hanno la forza per scatenarne un'altra. Nemmeno Hamas. Ma quella che s'intravvede in questo '89 inaspettato potrebbe essere peggio: un'intifada araba.
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