Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 01/02/2011, a pag. 29, l'articolo di Vittorio Zucconi dal titolo " Il vento del Nilo sulla Casa Bianca ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 2, l'articolo di Ugo Tramballi dal titolo " La sfida di El Baradei il temporeggiatore ". Dall'UNITA', a pag. 17, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Mairead Corrigan Maguire dal titolo " E' una rivoluzione non violenta. Dobbiamo sostenerla ", a pag. 20, l'articolo di Pino Arlacchi dal titolo " No ai profeti di sventura. Dall'Egitto alla Tunisia soffia un vento di libertà ".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:
La REPUBBLICA - Vittorio Zucconi : " Il vento del Nilo sulla Casa Bianca "
Vittorio Zucconi
Vittorio Zucconi vede positivamente la rivoluzione in Egitto, descrive Mubarak come colui che da 30 anni " garantiva l´arretratezza civile ed economica, ma anche la fedeltà agli interessi di Washington e di Israele ", contrapponendogli el Baradei, premio Nobel per la fisica. Come sia possibile prendere sul serio el Baradei, specialmente dopo che ha favorito in maniera plateale il nucleare iraniano, è un mistero. Ma anche Zucconi, che scambia la pace con la fisica ! Infatti El Baradei ebbe il Premio Nober per la pace, non per la fisica.
Mubarak non è la democrazia, ma è meglio della teocrazia iraniana. Solo gli illusi possono farsi incantare dalla qualifica di 'Premio Nobel' e pensare che el Baradei sarà positivo per l'Egitto.
Ecco il pezzo:
In 48 ore, dalla richiesta vaga e pilatesca di «fare le riforme» a chi in 30 anni non le aveva mai fatte, alla «transizione rapida» a un governo di gente nuova che prepari elezioni vere chiesta ora, il ribaltone politico del principale alleato, finanziatore e protettore dell´Egitto, è stato radicale.
Barack Obama non può e non vuole - e ne ha avvertito la Segretaria di Stato Clinton - farsi risucchiare nel vortice di un regime e di un uomo che si inabissano, proprio ora che stava faticosamente risalendo dalla crisi dei suoi primi due anni. Il vento del Cairo può inaridire la ripresa americana, la Borsa, la finanza di nuovo nel panico e gonfiare l´inflazione attraverso il rialzo dei costi del petrolio, costringendo le autorità monetarie ad aumentare i tassi e dunque a gelare la primavera economica.
L´antico riflesso della «stabilità» a qualsiaso costo, e dell´ipocrisia di collocare tra i «buoni» anche i peggiori regimi purché allineati con gli interessi americani, che fossero i generali Cileni sotto Nixon o i boss pakistani come Musharraf negli anni di Bush che predicava la libertà ai nemici ma tollerava l´illiberalità degli amici, si è dovuto piegare alla tenacia e alla vastità della rivolta pacifica contro Hosni Mubarak. Ma soprattutto, è stata la constatazione, maturata dopo sette giorni di folle pacifiche nelle strade del Cairo e della altre grandi città egiziane, che per ora, e non si sa per quanto ancora, la spinta a defenestrare Mubarak è ancora politica, e laica, e può essere guidata da non fanatici come il Nobel per la Fisica el-Baradei, a scuotere Washington dal suo attendismo. «Ogni giorno che passa, ogni scontro che scoppia o può scoppiare spinge la collera dei cittadini egiziani verso i movimenti religiosi organizzati come i Fratelli Mussulmani», ha detto Fareed Zakaria.
Ma non tutte le esitazioni e le titubanze che avevano segnato le prime risposte di quella superpotenza che da trent´anni paga l´allineamento del Cairo al costo di due miliardi di dollari all´anno versati all´esercito egiziano, sono state superate. Per l´America abbandonare il vecchio che aveva raccolto i cocci di una nazione spezzata dall´assassino di Sadat punito per avere firmato la pace con Menachem Begin, non è facile, Anche perché «non abbiamo davvero un cavallo in corsa sul quale puntare» ha confidato una fonte della Casa Bianca. Mohammed el-Baradei, divenuto per ora il volto e la voce delle piazze, non è un leader politico né un generale con divisioni corazzate alle spalle.
E´ l´uomo che nel marzo del 2003 demolì ufficialmente, davanti all´Onu, il castello di bugie propagandistiche sulle «armi di distruzione di massa» irakene nella sua qualità di presidente dell´Agenzia atomica internazionale e si guadagnò il risentimento perenne delle destre belliciste. Mentre l´Egitto di Mubarak era lo stato che riceveva quei prigionieri che il governo Bush gli affidava in segreto perché facesse loro quello che la legge vietava agli americani di fare. Torturarli.
In più, questa irruzione brusca e inaspettata dell´Egitto nell´arena dei grandi drammi internazionali con tutte le possibili e terrificanti conseguenze anche interne, è esattamente quello che la Casa Bianca meno avrebbe voluto, in questa fase di lenta convalescenza dalla crisi dei suoi primi due anni e dalla batosta elettorale dello scorso novembre. Decimo di punto per decimo di punto di Pil e di disoccupazione calante; indice di Borsa dopo indice di Borsa che il giorno prima dell´esplosione sotto le piramidi era tornato per la prima volta ai livelli della primavera 2008, prima del grande crack; il quadro politico ed economico in miglioramento. Le tre «R», la Ripresa economica, la Resurrezione politica del Presidente in chiave moderata, la Ricostruzione dello staff presidenziale - il vero governo americano - con personaggi più graditi anche ai critici, avevano fatto sperare che il peggio fosse alle spalle, e che Obama potesse cominciare la navigazione verso la quarta, e cruciale «R»: la Rielezione.
Il vento del Nilo ha sconvolto questi ordinati progetti di rinascimento obamiano. La rivolta popolare nella nazione chiave della «mezzaluna» araba ha trasformato il sempre insoluto puzzle bidimensionale del Medioriente, il rapporto fra Israele e palestinesi, in un «cubo di Rubik» tridimensionale, del quale Obama non sentiva il bisogno, lui che proprio al Cairo era andato a pronunciare il discorso della «mano tesa» al mondo arabo. La Tunisia ha buttato a mare il proprio tiranno, con la «rivoluzione dei gelsomini».
L´Egitto spinge per liberarsi dell´uomo, e della famiglia, che da 30 anni garantiva l´arretratezza civile ed economica, ma anche la fedeltà agli interessi di Washington e di Israele. La Siria trema e promette «riforme democratiche» alle quali nessuno crede. L´Iran, da lontano, plaude ai ribelli del Cairo purché si muovano nella «verità dell´Islam», dunque verso un´altra repubblica del Corano.
Quel desiderio di libertà, che ogni presidente americano, da Woodrow Wilson in poi, ha sempre detto di voler assecondare, soprattutto quando infastidiva gli avversari, forse comincia a soffiare davvero. E a confermare un saggio motto popolare americano: «Attenti a esprimere desideri perché si potrebbero avverare».
Il SOLE 24 ORE - Ugo Tramballi : " La sfida di El Baradei il temporeggiatore "
Mohamed el Baradei ai tempi della presidenza dell'AIEA, con Mahmoud Ahmadinejad
Ugo Tramballi vede positivamente el Baradei e ne delinea un profilo interessante. Peccato che manchi la fase della sua vita durante la quale, da direttore dell'AIEA, ha fatto di tutto per aiutare il programma nucleare iraniano. Dichiarando che era per uso civile ! Questo elemento, da solo, è sufficiente a non considerarlo un candidato ideale per l'Egitto. Se poi si aggiunge il fatto che ha ottenuto l'appoggio dei Fratelli Musulmani...
Ecco il pezzo:
«Povertà, malattie, crimine organizzato e armi di distruzione di massa sono minacce senza frontiere contro le quali le nozioni tradizionali di sicurezza nazionale sono diventate obsolete. Non possiamo rispondere a queste minacce costruendo più muri, sviluppando armi più grandi o mandando più truppe. Al contrario. Per la loro natura queste minacce richiedono prima di tutto una cooperazione multinazionale».
No, non è Barack Obama. È Mohamed ElBaradei, il giorno in cui andò anche lui a Oslo a ritirare il Nobel per la pace. «Oggi l'Egitto ha un nuovo eroe», gli aveva telegrafato Hosni Mubarak. Grande respiro, visione profonda. Soprattutto grande coraggio perché era il 2005 e nel mondo ancora dominavano il pensiero e l'azione di George Bush: unilateralismo e guerra convenzionale alla minaccia del momento, il terrorismo islamico. Da direttore dell'Agenzia atomica dell'Onu, ElBaradei aveva contestato l'idea della "canna fumante", prova dell'atomica che Saddam Hussein doveva nascondere da qualche parte. Era il pretesto per arrivare fino a Baghdad con la 101esima aviotrasportata e i carri armati del 7° Cavalleggeri. ElBaradei vi si era opposto davanti al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Senza spirito di rivalsa, qualche anno dopo avrebbe constatato: «Gli Stati Uniti hanno speso 3mila miliardi di dollari per arrivare alla stessa conclusione alla quale era giunta l'Agenzia con 5 milioni».
ElBaradei era rimasto inascoltato dagli americani ma non dagli egiziani, dal Delta all'Alto Nilo, che finalmente avevano trovato un loro campione. Lo è ancora al punto da sostituire Mubarak all'età di 68 anni? Pacato, silenzioso, puntiglioso ai limiti della noia, ElBaradei aveva deciso di entrare solo l'anno scorso nella sanguigna arena politica egiziana. Se lo aveva pensato prima, ha saputo nasconderlo con grande scrupolo. Tutti pensavano fosse arrivato alla pensione. Dopo 27 anni all'estero come diplomatico egiziano, poi all'Agenzia Atomica dove era diventato direttore nel 1997, ElBaradei aveva invece trasformato Vienna nella rampa di lancio della sua seconda vita.
Fondato all'estero il Fronte nazionale per il cambiamento, il 19 febbraio dell'anno scorso era rientrato in Egitto. All'aeroporto del Cairo lo aveva accolto qualche decina di sostenitori: pochi per attirare l'attenzione delle masse egiziane, relativamente numerosi per allarmare il regime, sufficienti per eccitare la stampa internazionale. Nella palude politica del Medio Oriente era nata una nuova stella.
All'inizio la tattica di ElBaradei assomigliava a quella del Mahatma Gandhi quando rientrò in India dal Sudafrica nel 1917: poche dichiarazioni, nessun bagno di folla, rispettosa ma ferma distanza dall'arcipelago dei partiti d'opposizione. Ma molti viaggi per conoscere il grande paese e da esso farsi conoscere. ElBaradei alla preghiera del venerdì nella popolare moschea al-Husseini del Cairo, a stringere mani nel quartiere piccolo borghese dei dipendenti statali di Gamaliya, alla Pasqua coopta con Pope Shenouda III. Viaggi al sud e nel Delta tra i fellah.
Poi, inaspettatamente, ElBaradei ha ripreso l'aereo ed è andato negli Stati Uniti. L'Alliance of Egyptian-American gli aveva organizzato 20 incontri con la comunità degli espatriati, primo passo di un lungo viaggio dentro la diaspora. Gli immigrati egiziani sono tradizionalmente apolitici ma potenzialmente una forza di pressione. Sono circa 8 milioni in tutto il mondo e ogni anno mandano in Egitto 8 miliardi di dollari.
Il Sistema non lo aveva mai perso di vista: in fondo ElBaradei era uno di loro. Era il figlio di un famoso avvocato, era stato un dipendente del ministero degli Esteri. Se fosse stato cooptato avrebbe potuto essere una buona soluzione di transito per uscire dalla sfiancante epoca Mubarak. Ma il Sistema non era così elastico. Era così incominciata una strisciante manovra di delegittimazione. Il culmine fu quando su Facebook apparvero le foto "scandalose" della figlia Laila che vive a Londra col marito inglese: immagini da spiaggia con un bikini castigato e un bicchiere in mano: forse una birra! Quanto basta per indignare un paese religioso e conservatore.
Le elezioni parlamentari dell'autunno passato avrebbero dovuto essere un buon banco di prova per le ambizioni di ElBaradei. C'era da menare le mani, sollevare sentimenti. Invece di lui si erano perse le tracce. «Ma dove c... sei? Il paese è in fiamme e tu te ne stai in America?», protestò un sostenitore su Twitter. L'assenza di dichiarazioni, sia pure da lontano, fu presa per un'implicita resa. Mohamed ElBaradei il temporeggiatore, stava solo aspettando il momento migliore per sfidare il mondo dal quale è venuto.
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " E' una rivoluzione non violenta. Dobbiamo sostenerla "
Mairead Corrigan Maguire con Ismail Haniyeh, capo di Hamas.
Mairead Corrigan Maguire, premio Nobel per la pace e professionista dell'odio contro Israele non poteva rinunciare a quest'occasione per attaccare Israele. Infatti dà il suo appoggio a el Baradei (descritto da Udg come "collega " di Maguire, che lui ritiene essere un complimento), auspicando il suo successo in Egitto e che si ripercuota Israele.
Immancabile la solita litania di Gaza prigione a cielo aperto, peccato che Maguire non sia in grado o non voglia identificare i veri carcerieri.
Ecco l'intervista:
Ciò che sta avvenendo in Egitto è qualcosa di straordinario, epocale. Scendendo nelle strade, rischiando la vita, centinaia di migliaia di persone, di ogni età ed estrazione sociale, chiedono libertà, diritti, giustizia. E' una rivoluzione popolare non violenta che dimostra come esista un'alternativa praticabile tra rassegnazione e terrorismo. Chiunque nel mondo crede davvero che libertà, diritti, giustizia sono dei principi da difendere e radicare ovunque nel mondo, non può non schierarsi con gli eroi di Piazza Tahrir . A sostenerlo è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976. Maguire, assieme al altri Nobel per la pace, come Lech Walesa, Jody Williams e Betty Williams, è tra i primi firmatari di un appello indirizzato al Governo egiziano, che verrà trasmesso anche ai Capi di Stato e di Governo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L'iniziativa è promossa dal World Summit of Nobel Peace Laureates e dal suo co-chair Walter Veltroni. Il testo chiede alle istituzioni egiziane di salvaguardare «la libertà e l'incolumità dei manifestanti che in queste ore sono scesi nuovamente nelle piazze delle maggiori città egiziane e del leader dell'opposizione e Premio Nobel per la Pace Mohammed El Baradei; fermato e poi rilasciato durante le manifestazioni di qualche giorno fa». Da tempo, Mairead Maguire è impegnata in campagne di solidarìètà con il popolo palestinese. «la rivo- luzione egiziana - rimarca in proposito al Nobel per la Pace - può aprire scenari nuovi in tutto il Medio Oriente. A cominciare da Gaza, dove un milione e mezzo di persone sono costrette da Israele a vivere in una prigione a cielo aperto. Questo crimine non deve restare impunito». Qual è il senso politico dell'iniziativa dei Nobel per la Pace? «Fare la nostra parte per evitare che la rivolta finisca in un bagno di sangue. E' questo l'obiettivo prioritario: garantire la libertà e l'incolumità dei manifestanti. La Comunità internazionale deve agire sulle autorità egiziane per impedire che prosegua la brutale repressione di questi giorni. Il popolo egiziano rivendica libertà, chiede elezioni libere. E' inaccettabile che la risposta sia affidata ai carri armati». il documento dei Nobel per la Pace è anche a sostegno del vostro «collega» egiziana Mohammed El Baradei «Non è un sostegno "corporativo" ma è l'appoggio a un egiziano coraggioso che interpreta in maniera propositiva il premio assegnatogli: Co- nosco El Baradei, ho imparato ad apprezzarne l'equilibrio negli anni in cui ha diretto l'Aiea Non è un estremista, ciò che vuole è che l'Egitto conosca una stagione nuova: quella della democrazia». Prima la Tunisia, ora l'Egitto, e la pro-testa investe anche l'Algeria, Io Yemen, la Giordania..Cè chi teme la destabilizzaziòne del Maghreb e del Medio Oriente... «Non sono d'accordo. Parlare di destabilizzazione è dare un connotato negativo a quanto sta avvenendo. Io parlerei invece di fine di un' illusione e di una opportunità...». Quale illusione e quale opportunità? «L'illusione di poter mantenere uno status quo fondato su nomenclature inamovibili, in alcuni casi gerontocrazie al potere da decenni. Queste nomenclature hanno fatto l'interesse dell'Occidente ma non dei loro popoli...». -E l'opportunità? «È l'opportunità di un cambiamento mosso da istanze universali, da bisogni che spezzano vecchi Muri ideologici mettendo in discussione quell'idea, cara agli esegeti del "Conflitto di civiltà", per cui il mondo islamico è per sua natura incompatibile con la democrazia. Questo è il messaggio che viene dalla- Tunisia, dall'Egitto: battersi contro regimi autoritari non significa volerli sostituire con regimi teocratici, altrettanto impermeabili a qualsiasi istanza di libertà». Lei da tempo è impegnata in campagne di solidarietà con il popolo pale-stinese. Le vicende egiziane possono avere una ricaduta anche su questo fronte? - «È presto per dirlo, ma non c'è dubbio che la rivolta in Egitto è anche un messaggio a una Comunità internazionale che, in nome della "stabilità", ha coperto l'oppressione esercitata. da Israele nei confronti dei Palestinesi: penso al muro dell'apartheid in Cisgiordania e all'embargo imposto a Gaza. Ma una "stabilità" fondata sulla forza delle armi e sull'oppressione non può reggere all'infinito. Il bisogno di libertà non può essere ingabbiato. In Egitto come in Palestina».
L'UNITA' - Pino Arlacchi : " No ai profeti di sventura. Dall'Egitto alla Tunisia soffia un vento di libertà "
Pino Arlacchi
Pino Arlacchi nega che ci sia uno scontro di civiltà fra occidente e islam, nega che la situazione in Egitto sia negativa, attacca Sartori per la sua analisi sull'Egitto. Arlacchi sostiene che chi vede lo scontro di civiltà non ha i dati per dimostrare la sua tesi. Gli attentati terroristici islamici contro le democrazie occidentali, i discorsi dei terroristi su internet, lo statuto di Hamas, le cronache piene di notizie che riguardano cellule di al Qaeda pronte a colpire fermate appena in tempo, la situazione invivibile in Svezia, in Olanda, in Gran Bretagna, ...non sono dati sufficienti?
Le manifestazioni di piazza in Egitto sono nate contro Mubarak, ma non si può non notare che sono appoggiate dai Fratelli Musulmani, nè far finta di non cogliere le similitudini con quanto è successo in Iran nel '79.
Hosni Mubarak non è la democrazia. Ma ha il pregio di non mirare alla distruzione degli Stati occidentali e di arginare il terrorismo islamico. E' un alleato dell'Occidente, scaricarlo per dar man forte agli islamisti pensando di fare il bene dell'Egitto è una tesi che poteva concepire solo Arlacchi.
Ecco l'articolo:
Eun vento di libertà quello che soffia dal Nordafrica, e chi tiene alla democrazia deve essere all'altezza del messaggio che ci arriva da quei luoghi. Anche perché c'è chi semina dubbi e paure. Profeti di sventura e conservatori alimentano confusioni di ogni risma (vedi i fondi di Sartori e soci sul Corriere della sera) sugli esiti della rivoluzione democratica in corso in Egitto e nel mondo arabo. Ma chi conosce quei contesti e crede nello sviluppo umano non può che gioire per quanto sta accadendo.. - La destra globale agita in questi giorni lo spettro del radicalismo islamico acquattato dietro le ali dei movimenti e pronto a venire allo scoperto un minuto dopo l' uscita di scena dei tiranni. Una volta abbattuto l'arco delle autocrazie fi loccidentali che si estende dalla Mauritania alla penisola arabica, ci ritroveremmo a fronteggiare un arco di democrazie fondamentaliste a noi potenzialmente ostili. Una specie di dedizione su scala allargata dell' incubo khomeinista post-1979. Questo scenario sembra ben costruito; ma in realtà è campato in aria. Perché si basa sulla vittima concettuale più illustre del cambiamento in atto: l' idea dello scontro di civiltà, cioè di una frattura irriducibile tra l' Occidente e il resto del pianeta, e in particolare con il mondo islamico. Mi riferisco a tutte quelle speculazioni sull' incompatibilità tra Islam e democrazia, sul rapporto privilegiato tra Occidente e libertà civili, e. sulla necessità di esportarle in un Medioriente insensibile ai valori della democrazia liberale. Bene. Se c'è una cosa che balza agli occhi, è il fatto che siano proprio questi i valori per i quali migliaia di dimostranti stanno rischiando la vita scendendo in piazza nei più diversi contesti del mondo arabo. Non c'è nulla di specialmente «islamico» nelle loro rivendicazioni. Essi stanno animando un' ondata di democratizzazione la cui somiglianza con quelle precedenti, avvenute in altre parti della terra, è impressionante. Come si fa a non vedere in questi movimenti il tracciato inconfondibile dei diritti dell' uomo che si affermano, e dei valori universali che non hanno bisogno di essere esportati perché già presenti in ogni angolo del pianeta e in ogni essere umano? Occorre essere davvero ciechi di fronte alle ragioni dell' emancipazione umana (essere cioè di destra), o interessati ad altre cose, per non riconoscere la matrice nroeressiva ed universale degli eventi che stanno scuotendo il Nordafrica e il Medioriente. Le altre cose sono il mantenimento dei privilegi delle dittature locali e degli interessi occidentali nel petrolio, nelle materie prime, nelle vendite di armi e nella supremazia a tutto campo nella regione. Parlo di matrice universale perché la crescita della democrazia si è rivelata inarrestabile. Nel 1974 c'erano solo 40 democrazie nel mondo, e quasi tutte in Occidente. Negli anni '70 la democrazia si è estesa in Europa occidentale, con la caduta delle dittature in Portogallo, Grecia e Spagna. Negli anni '80 militari e. dittatori si sono ritirati dal potere a favore di governi elettivi in 9 Paesi dell' America Latina e in parte dell' Asia (Filippine, Pakistan, Bangladesh, Nepal, Tailandia). Negli anni'90 quasi tutte le nazioni latinoamericane erano democratiche, e il crollo del Muro di Berlino ha rapidamente trasformato l' intera Europa orienta- Russia inclusa, in un area democratica. Nel 1994, anche il regime più odioso del mondo, l'apartheid sudafricano, è caduto, cedendo il passo a una democrazia. E lo stesso è avvenuto in vari stati africani. Nel 2010, secondo Freedom House, 147 su 194 Paesi potevano essere considerati liberi o parzialmente liberi: il 75%, comprendenti i due terzi della popolazione mondiale. E parlo di matrice progressiva degli eventi in Egitto e altrove perché solo nelle democrazie i diritti fondamentali hanno la possibilità di crescere, e perché solo nelle democrazie si sviluppa l' avversione alla guerra che l'ha resa obsoleta, moribonda, -e quasi 'fuorilegge come strumento di politica estera. La proposizione che due democrazie non si fanno tra loro la guerra, la pace democratica, è diventata quasi un assioma della scienza politica contemporanea. - Lo spettro del possibile «takeover» degli islamisti radicali è, appunto, uno spettro. Chi lo agita non ha prove credibili. Conta solo sulla paura,l' ignoranza, e sull' inganno delle coscienze alimentato da un quindicennio di islamofobia, e di isteria sullo scontro di civiltà e sul pericolo terrorista. Né in Tunisia né in Egitto, in realtà, il-crollo delle autocrazie è suscettibile di portare a governi e parlamenti dominati da estremisti. L' eventuale instaurazione della democrazia sarà seguita da regimi moderati, i fondamentalisti non potrano sperare di detenere posizioni maggioritarie. Tutto ciò per la ragione molto semplice che il 90% della popolazione di questi Pae si non sostiene i gruppi integralisti. È composta da musulmani é cittadini moderati che vogliono solo vivere in pace, stare meglio, e godere dei propri diritti senza temere ne aggredire nessuno. La fine delle autoaazie non porterà caos, ma rafforzerà la stabilità e la sicurezza regionali. È avvenuto così in passato, e non esiste ragione perché questa volta le cose vadano in modo diverso. È successo in Ame- rica Latina, dove la fine delle dittature non ha fatto emergere governi massimalisti, ma normali coalizioni democratiche ché hanno disteso i rapporti tra i paesi e reso gradualmente superfluo il terrorismo. È successo nell' Europa dell' Est, dove la caduta dei regimi comunisti non ha partorito alcunché di eccessivo nel campo politico, ma una serie di ordinarie democrazie sempre più simili alle nostre. E il terrorismo di Al Queda e Bin Laden? Non approfitterebbe dei cambi di regime per impossessarsi di un paese islamico da lanciare all' attacco dell' Occidente? Chi avanza questa ipotesi non sa cos'è il terrorismo islamico e ne ignora le cause. Bin Laden e soci sono proprio il prodotto dell' assenza di democrazia in Egitto, Arabia Saudita e altrove. La rimozione delle attuali tirannie farebbe venire mend la ragione di essere del fondamenta-lismo più estremo, che è una reazione alle angherie delle elites locali prima ancóra che dei lori protettori occidentali. Se gli integralisti si presentassero alle elezioni, competendo con regolari formazioni politiche moderate o anche radicali, ma collocate nell' alveo della dialettica politica non violenta, non raccoglierebbero consensi travolgenti. In Pakistan e nello stesso Egitto, quando è stato possibile misurarne la forza «pacifica», .i partiti islamisti estremi non sono mai andati oltre il 10-20 dei voti. Grandi Paesi democratici come la Turchia e l' Indonesia, inoltre, sono governati da forze di ispirazione islamica moderata ancora criticabili in quanto a rispetto dei diritti umani, ma che agiscono nei teatri regionali con politiche sempre più favorevoli alla distensione e alla pace. E poi, a che titolo i fondamentalisti potrebbero chiedere agli elettori dei loro Paesi di affidargli il governo nazionale? I movimenti dì questi giorni sono spontanei, o guidati da forze e persone laiche, provenienti dalla società civile, che non hanno a che fare con la Fratellanza musulmana e il terrorismo. La costruzione della democrazia nel Nordafrica e nel Medioriente è opera di forze esse stesse democratiche e non violente. Non è l' esito accidentale di uno scontro tra estremismi armati. Non diamo ascolto, perciò, ai costruttori di paura. Diamo credito, invece, alle forze dell' emancipazione che stanno cambiando il mondo. Ancora una volta.
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