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Il Foglio - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
01.02.2011 Egitto, Iran: analisi di Massimo Boffa, Redazione del Foglio, Viviana Mazza, Carlo Panella, Christian Rocca
Sta succedendo come in Iran nel '79 ?

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore
Autore: Massimo Boffa - La redazione del Foglio - Viviana Mazza - Carlo Panella - Christian Rocca
Titolo: «I mullah d’Iran: onda islamica come nel ’ 79 - Non si vede all’orizzonte un Khomeini egiziano e Al Azhar tace. E’ l’esercito l’unico regista - In Egitto la dittatura non è un destino»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/02/2011, a pag. III, l'articolo di Massimo Boffa dal titolo "  ", l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Non si vede all’orizzonte un Khomeini egiziano e Al Azhar tace. E’ l’esercito l’unico regista ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo " L’Egitto dopo il regime ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " I mullah d’Iran: onda islamica come nel ’ 79 ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 13, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " In Egitto la dittatura non è un destino ", possibilista su un'evoluzione non del tutto negativa della situazione in Egitto.
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Massimo Boffa : " E se va a finire come in Iran? "


Khomeini

Al culmine della rivoluzione iraniana, i seguaci dell’ayatollah Khomeini annunciarono al mondo la propria ideologia geopolitica. Il nemico numero uno erano naturalmente gli Stati Uniti, il Grande Satana, il grande corruttore, e poi Israele, che occupava i luoghi santi dell’islam. Ma questo, all’epoca, si traduceva soprattutto in gesti simbolici: ambasciate da conquistare, bandiere da bruciare. Gli autentici e immediati avversari dell’internazionale islamista, quelli verso i quali si indirizzava direttamente la predicazione rivoluzionaria, erano i regimi arabi e musulmani. Dal Marocco all’Iraq, Teheran incitava i popoli a rovesciare i propri despoti corrotti e infedeli. Da trent’anni a questa parte, mai come oggi questo programma sembra essere arrivato all’ordine del giorno. I fatti della Tunisia sono stati il detonatore, ma è l’Egitto la vera posta in gioco. In Tunisia, paese le cui élite si sono dimostrate compatte e in cui il movimento islamico non è mai stato forte, è probabile che il regime, liberatosi di Ben Ali, riesca a mantenere il controllo della situazione. Se ci si riuscisse anche in Egitto, ogni persona sensata tirerebbe un sospiro di sollievo. Ma per ora non sembra il caso. Anzi, si staglia minacciosa sopra le piramidi l’ombra di una rivoluzione egiziana, il disastro più grande dopo quella iraniana di 30 anni fa. Del resto, non è forse proprio in Egitto che tutto è cominciato? E’ in Egitto che, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, si è venuta per la prima volta distillando la miscela esplosiva che avrebbe successivamente infiammato l’islam, trasformando quello che era essenzialmente un credo religioso nella più aggressiva ideologia politica contemporanea. Se si dovesse indicare l’autore che, più di ogni altro, ha rivoluzionato la moderna cultura musulmana, al punto da diventare il principale ispiratore di tutte le formazioni del jihad, da al Qaida fino a Hamas, passando per Khomeini, non vi è dubbio che si tratti di Sayyid Qutb (1906-1966), militante egiziano dei Fratelli musulmani, fatto impiccare da Gamal Abdel Nasser. A lui si deve l’idea fondamentale, che da allora non ha fatto che diffondersi e radicalizzarsi, secondo cui l’autentico islam non è quello che viene devotamente, ma esteriormente, rispettato nei paesi che si dicono musulmani, ma soltanto quello che diventa regime politico, incarnandosi nella legge di Dio, nella sharia. Per questo Qutb esortava i “veri musulmani” a organizzarsi in un’avanguardia che non si limitasse alla predicazione ma passasse all’azione. E che si impegnasse in una guerra santa per creare una società autenticamente islamica, combattendo non soltanto contro il “nemico lontano”, gli infedeli, ma anche contro il “nemico vicino”, cioè i regimi fintamente musulmani. Questa idea, variamente rielaborata, aggiornata, dissimulata, resta alla base del pensiero dei Fratelli musulmani. In un certo senso, l’Egitto è, per la rivoluzione islamica, quel che la Germania era per la rivoluzione comunista: la culla e il luogo di elezione. Non è vero che le rivoluzioni scoppiano perché inevitabili: ci sono errori da una parte e mosse azzeccate dall’altra. In questi giorni, il peggiore incubo di Barack Obama dovrebbe essere di passare alla storia come un nuovo Jimmy Carter. Durante la crisi iraniana del 1978-79, Carter fece ciò che Obama sta facendo adesso: appoggiare il governo, ma esercitare pubbliche pressioni sul regime esortandolo a riformarsi. Allora ne risultò l’impressione che, di fatto, l’America avesse abbandonato il suo alleato, lo scià, e che stesse lavorando per una soluzione “democratica”, alla prova dei fatti rivelatasi del tutto improvvisata. Il rischio è che oggi possa accadere lo stesso. E’ quel che va ripetendo, in queste ore drammatiche, un analista attento come l’israeliano Barry Rubin, direttore del Global Research in International Affairs Center. “Riguardo la rivolta in Egitto, non c’è una buona politica per gli Stati Uniti, ma l’Amministrazione Obama sembra stia adottandone una vicina all’opzione peggiore”, scrive sul suo blog (www.rubinreports.blogspot.com). L’America, dice, dovrebbe puntare, al di sopra di ogni altro obiettivo, sulla sopravvivenza del regime egiziano, magari adoperandosi discretamente, dietro le quinte, per alcuni cambiamenti. E invece, insiste Rubin, sta mostrando pubblicamente il proprio appoggio alle “riforme” e alla “democrazia”, sperando di ingraziarsi i futuri governanti. In tal modo, conclude Rubin, demoralizza il proprio alleato e non accumula alcun credito verso l’eventuale potere che verrà, il quale rinfaccerà comunque a Washington l’appoggio pluridecennale al regime di Hosni Mubarak. La prospettiva minacciosa, che ogni attore responsabile dovrebbe prendere in altissima considerazione, è che, così facendo, si acceleri la dissoluzione del regime egiziano, creando un vuoto di potere che soltanto gli islamici, prima o poi, potranno colmare. La retorica del popolo che caccia il tiranno è una di quelle stucchevoli frivolezze piacevoli da leggere sulla carta, ma che purtroppo hanno ben poco a che fare con la realtà. Il guaio è che proprio così molta opinione pubblica occidentale (e dunque i relativi governi), nonché parte dei protagonisti degli eventi, si rappresentano quel che sta succedendo. E niente è più sinistramente simile al precedente iraniano di questa atmosfera di entusiasmo che circonda i rivoltosi egiziani. Gli ottimisti, di cui c’è sempre grande abbondanza, mettono l’accento sul fatto che le proteste sono nate spontanee, che il movimento si è alimentato da solo, grazie alla rete, a Twitter, a Facebook (a Teheran erano le cassette registrate con i discorsi antiscià di Khomeini), che nessuna organizzazione ha incanalato i manifestanti egiziani verso obiettivi partigiani. Ma proprio questo dovrebbe essere inquietante. In assenza di forze strutturate, nel caso di un vuoto di potere, saranno i più organizzati e chi sa quel che vuole, cioè gli islamici, ad assumere la leadership. E’ vero, per ora i Fratelli musulmani hanno adottato un basso profilo: partecipano al movimento anti Mubarak ma non cercano di mettersi alla sua testa. In primo piano compaiono personaggi che non mancano mai nelle fasi nascenti delle rivoluzioni (i Kerenskij, i Bakhtjar, gli ElBaradei), che rappresentano bene l’illusione generosa dell’unità popolare e del lieto fine. Ma, se arriva il tempo della radicalizzazione, costoro sono destinati, prima o poi, a essere travolti dagli eventi. In Iran passarono mesi, dopo la caduta dello scià, prima che tutte le altre opzioni politiche venissero sconfitte dagli islamici khomeinisti; a Pietrogrado durò da febbraio a ottobre. Che il regime di Mubarak fosse dispotico e corrotto non vi è dubbio alcuno, come dubbio non vi era a proposito della monarchia di Reza Pahlevi. Altrettanto autentica e generosa è – ed era – la passione delle folle del Cairo e di Teheran, assetate di libertà e di giustizia. Ma, quando un regime viene trascinato nel fango, è come una pentola in ebollizione che sia improvvisamente scoperchiata: si rischia di rimanere ustionati. Fuor di metafora, se il regime egiziano collassa, chi prenderà il suo posto? Oggi in Egitto non ci sono forze moderate organizzate. L’unica forza organizzata (a parte l’esercito) sono i Fratelli musulmani, che godono nel paese di un seguito popolare. Per questo “libertà” e “democrazia” suonano come prospettive tutt’altro che rassicuranti. L’esperienza che il mondo musulmano ne ha fatto negli ultimi decenni è un precedente che deve, quanto meno, far riflettere gli entusiasti. In Iran, trent’anni fa, il popolo fece crollare la monarchia dello scià con i risultati che sappiamo. In Libano le elezioni hanno portato al potere Hezbollah. Nella Striscia di Gaza ha vinto Hamas. In Algeria, negli anni Novanta, il successo degli islamici alle elezioni scatenò la guerra civile. In certi casi, la democrazia non è la soluzione. E’ il problema.

Il FOGLIO - "  L’Egitto dopo il regime"


Hosni Mubarak

Con il regime di Mubarak sta collassando la sua prospettiva per il futuro, la successione dinastica e il passaggio di consegne al giovane Gamal. E’ difficile credere che, dopo questi sette giorni di proteste, il rais egiziano possa ancora imporre una sua via d’uscita alla piazza. Fouad Ajami ha citato in un suo articolo sul Wall Street Journal un breve passaggio di un libro di Nagib Mahfuz: l’amante del faraone dice di aver sentito voci di una possibile rivolta, “dicono che i sacerdoti sono molto potenti, possono prendere il controllo del cuore e delle menti della gente”. Il faraone sorride e risponde: “Ma io sono il più forte”. Che ne sarà della rabbia del popolo?, insiste la ragazza. “Si calmerà – risponde il faraone – quando mi vedrà sulla mia carrozza”. E’ evidente che Mubarak non è il più forte, e la protesta non si è affatto fermata quando è apparso in televisione. Ora è necessario capire chi giocherà il ruolo del faraone, perché un Egitto senza guida – e senza una guida chiara – è uno scenario che neppure i più pessimisti prendono in considerazione. Da un lato c’è l’esercito che, come in Tunisia e come accade spesso nelle dittature, vuole svolgere un ruolo di garante della transizione. Dall’altro ci sono i religiosi, quei Fratelli musulmani che svolgono il ruolo di guide e di curatori, occupandosi della coscienza degli egiziani come del funzionamento delle loro fognature. In mezzo c’è ElBaradei, accolto come l’eroe del riformismo egiziano ma di fatto più accreditato nei salotti di Vienna che in quelli del Cairo, che fa patti con la Fratellanza e dialoga con l’esercito. I media occidentali si sono entusiasmati per la rivolta, innamorandosi del riformismo chic di ElBaradei e sottovalutando la minaccia dei Fratelli musulmani, che in Europa hanno la voce suadente dei Tariq Ramadan. I governi occidentali procedono con cautela, perché, finita l’avventura della “freedom agenda”, del “I say what I mean and I mean what I say”, non sanno nemmeno più cosa augurarsi (tranne Israele, che dice: meglio Mubarak che l’instabilità). Forse bisognava investire prima su una transizione, quando ancora non c’era la piazza in rivolta. Non è stato fatto, ma è indispensabile iniziare subito, perché l’euforia è un lusso da analisti, poi restano i militari, o i turbanti.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : "I mullah d’Iran: onda islamica come nel ’ 79  "


Ayatollah Ahmad Khatami

L’Iran rivendica il ruolo di ispiratore delle rivolte popolari in Nord Africa e Medio Oriente. Solo che ci sono due modi di vedere la questione e due «fronti» che reclamano il primato: da una parte il regime iraniano paragona le manifestazioni in Tunisia, in Egitto, in Yemen alla Rivoluzione islamica del 1979 che rovesciò lo Scià e portò il clero al potere; dall’altra, invece, l’opposizione iraniana le accosta alle proteste del Movimento Verde del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad, ovvero alla più grande sollevazione contro la Repubblica islamica, repressa nel sangue. «Un Medio Oriente sta prendendo forma» , ha detto l’ayatollah ultraconservatore Ahmad Khatami (nessuna parentela con l’ex presidente riformista Mohammed Khatami) durante la preghiera dello scorso venerdì. «Sarà basato sull’Islam e sulla democrazia religiosa» . Khatami, uomo del regime e membro dell’Assemblea degli esperti, è lo stesso ayatollah che nel giugno 2009, quando la piazza si sollevò nel suo Paese accusando il governo di brogli elettorali, invitò la magistratura a «punire coloro che guidano le rivolte con durezza e senza pietà, per dare a tutti una lezione» . Aggiunse che i leader dei «rivoltosi» erano «mohareb» , cioè in guerra contro Dio, accusa per la quale è prevista la pena capitale. Il leader dell’opposizione iraniana, Mir Hossein  Mousavi, ha paragonato invece il grido degli iraniani «Dov’è il mio voto» , allo slogan degli egiziani «Basta con il regime» . Ha scritto sul suo sito Kaleme. com che lo scopo è lo stesso, porre fine «a governi che opprimono» il popolo, e spera che in Egitto, Tunisia, Yemen, vi sia quel cambiamento finora negato agli iraniani. Benché a parole appoggi le proteste, il regime ha paura, secondo Mahmood Amiry-Moghaddam di «Iran Human Rights» . L’aumento del numero delle esecuzioni in Iran, con 84 impiccagioni a gennaio, servirebbe a intimidire la gente per evitare che l’ «effetto contagio» la porti di nuovo in strada: «Anche il popolo iraniano è esasperato dall’aumento del costo degli alimenti, dalla disoccupazione, da condizioni economiche sempre più dure— dice —. Il regime non può permettersi che scoppi un’altra rivolta» .

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Non si vede all’orizzonte un Khomeini egiziano e Al Azhar tace. E’ l’esercito l’unico regista "


Carlo Panella

Il FOGLIO sembra non essere del tutto d'accordo con l'articolo di Carlo Panella pubblicando a fianco questa breve:

L’interpretazione di quel che sta accadendo in Egitto oscilla tra l’eccitazione rivoluzionaria e il mantenimento dello status quo. In mezzo ci sono gli imbarazzi della comunità occidentale e i ricordi del passato, in particolare della cacciata dello scià in Iran, nel 1979. Massimo Boffa e Carlo Panella erano a Teheran quando scoppiò la rivoluzione che portò all’instaurazione del regime degli ayatollah e oggi leggono quel che accade al Cairo in modo diverso. La minaccia dei Fratelli musulmani, come spiega Giulio Meotti dando voce alle paure di Israele, c’è ed è grande. Il Foglio cercherà di capire, con interventi e analisi, se il contagio è democratico o se è contagio della Umma islamica.

Ecco il pezzo di Carlo Panella:

La piazza egiziana e la Casa Bianca si stanno muovendo, disordinatamente, verso un obiettivo comune: affidare ai generali egiziani il ruolo risolutivo per uscire dalla crisi. La folla nelle strade inneggia all’esercito, mentre gli emissari di Barack Obama trattano con il capo di stato maggiore, il generale Sami Hafez Enan, i passi da intraprendere. Il tutto, va detto, mentre non appare sulla scena un qualche leader religioso che possa riscuotere i consensi dell’ayatollah Khomeini in Iran. E, soprattutto, Al Azhar tace, là dove l’Università coranica di Qom era stata il centro propagatore della rivolta iraniana del 1979. Quanto al “laico” Mohammed ElBaradei, è evidente che sa farsi molto notare dai media occidentali, ma in realtà sconta la marginalità di una carriera giocata non mai al Cairo, ma a New York, nei corridoi dell’Onu (e sui media occidentali anti Bush), senza raccordi profondi con settori della società egiziana. Questa curiosa spinta degli Stati Uniti e della piazza ad assegnare allo stato maggiore il compito di imporre a Hosni Mubarak un’uscita di scena può preludere a vari scenari, ma una cosa è chiara: riportare la crisi in mano all’esercito non implica una rottura del regime, ma soltanto una sua evoluzione, non di più. E di questo la piazza non se ne rende conto. Dal 1952 è l’esercito l’asse centrale, la spina dorsale del regime e dell’esercizio del potere nella società egiziana. Un dato che differenzia alla base il regime egiziano da quello di Ben Ali. In Tunisia, i generali – pur condividendo prebende e corruzione del regime – mai hanno giocato un ruolo politico né ai tempi di Habib Bourguiba né con Ben Ali. In Egitto invece, il regime si regge tuttora, persino nell’economia, persino nella gestione delle amministrazioni locali, sui quadri dell’esercito (ottantamila di carriera, duecentosessantamila di leva). Non è più quella société militaire costruita da Nasser e descritta nel 1962 da Anouar Abdel Malek, ma ne è l’evoluzione. La gestione del potere nasseriano si basava su una gerarchia che vedeva i generali andare in pensione verso i 55 anni per diventare amministratori delegati di un’industria o di un ente dello stato. Questo era l’essenza del “socialismo arabo” nasseriano che distrusse il non disprezzabile tessuto industriale preesistente (ad Alessandria la piccola e media industria era impiantata da italiani, espropriati nel 1954). Anwar el Sadat e Hosni Mubarak hanno ridotto la centralità delle gerarchie militari e coinvolto due dozzine di grandi famiglie nella gestione dell’economia, ma hanno sempre garantito il ruolo centrale dell’esercito. Un esempio: la potente famiglia copta Sawiris, che oggi con Naguib controlla tra l’altro l’italiana Wind (in Egitto, grazie anche alla straordinaria fertilità del delta e al canale di Suez si è realizzata negli ultimi 150 anni una non disprezzabile accumulazione di capitale finanziario). A oggi nessun esponente di queste grandi famiglie, a differenza di quanto è accaduto in Tunisia, ha preso le distanze dal rais. L’esercito, peraltro, a tutt’oggi controlla l’industria militare egiziana (non disprezzabile) e, anche grazie al miliardo e trecento milioni di dollari che riceve dagli Stati Uniti (che si somma ai 4 miliardi di dollari del budget interno), controlla una specie di “Iri in divisa” (spesso in joint venture con le “famiglie”) che comprende buona parte dell’industria alberghiero- turistica, dell’industria del cemento e delle costruzioni, della distribuzione, olearia e della strategica gestione dell’acqua. Inoltre Mubarak ha sì ridotto a un quarto (a differenza di Nasser) i ministri provenienti dall’esercito, ma ha nominato ex generali alla testa dei governatorati civili delle regioni, facendo compenetrare l’esercito nell’amministrazione civile. Il tutto, in un paese in cui da 37 anni la retorica del regime assegna all’esercito egiziano il glorioso alloro dell’unica vittoria araba in una guerra contro Israele (che fu invece una sconfitta militare – Ariel Sharon arrivò a cento chilometri dal Cairo – e fu ribaltata unicamente dall’embargo petrolifero del 1973), e allora Hosni Mubarak era comandante dell’aviazione. Quando Mubarak ha nominato vicepresidente il generale Omar Suleiman (capo del Mukhabarat, il servizio segreto, suo braccio destro), non ha soltanto nominato il suo successore, ma ha anche indicato il militare con cui i militari devono trattare (nel suo convincimento, da posizioni di subordinazione). E’ una trattativa tutta interna allo stato maggiore in cui Mubarak gioca anche il suo enorme prestigio personale tra i generali, accresciuto dal fatto che è stato il comandante nell’Accademia militare che tutti i generali di oggi hanno frequentato da cadetti. Se ci si avventura dunque nello scabroso campo delle previsioni, si può ipotizzare che quella più probabile – salvo verifiche – vedrà aumentare a dismisura la pressione del generale Sami Hafez Enan su Mubarak perché compia un gesto forte, quali le dimissioni a favore di Omar Suleiman. Magari, quando la pressione della piazza scemerà, con un governo affidato a un El- Baradei o un peso piuma simile, che i militari possono condizionare in mille modi, debole com’è a fronte dei “poteri forti” dell’economia e della élite egiziana. Queste pressioni si scontrano però con un rais che pare non rendersi conto – convinto ancora di essere “di famiglia” con i Clinton – di essere ormai costretto a un’exit strategy, se vuole evitare il peggio a se stesso e alla sua famiglia. A oggi sembra affermarsi un “riformismo dei generali” che non farà crollare il regime, ma forse lo obbligherà a evolversi. Mentre, nonostante i tanti “Allah o Akbar” urlati nelle piazze, la tanto temuta minaccia islamista pare ancora essere di tono minore. Il che non toglie che i Fratelli musulmani siano certamente attrezzati per poter ottenere un eccellente risultato, se mai vi saranno elezioni libere.

Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " In Egitto la dittatura non è un destino "


Christian Rocca

Non sappiamo come andrà a finire in Egitto. Non siamo in grado di prevedere se Hosni Mubarak resisterà alle rivolte di piazza, se al Cairo si installerà un credibile governo di transizione verso la democrazia, se i militari garantiranno la laicità dello stato, se i Fratelli musulmani sfrutteranno il vuoto di potere per creare una repubblica islamica. Sappiamo soltanto una cosa: le dittature non portano stabilità. Altrimenti il Medio Oriente sarebbe la regione più stabile del mondo. Invece è, appunto, il Medio Oriente un luogo flagellato da 60 anni di guerre, pervaso da fanatisimi di ogni tipo, teatro di violenze senza senso.

Le dittature portano repressione. Cancellano la società civile. Negano lo sviluppo economico. Alimentano fascismi, nazionalismi armati e interpretazioni belliche dell'Islam (jihad). I regimi dispotici distruggono le istituzioni politiche, arrestano gli oppositori liberali, spazzano via qualsiasi alternativa e costringono i sudditi a rifugiarsi nelle moschee, nelle madrasse, nelle istituzioni religiose dove si diffonde la cultura dell'odio naturalmente rivolta verso l'esterno, verso l'Occidente, verso l'America, verso chi finanzia i loro carcerieri.

I regimi mediorientali torturano i loro stessi cittadini, sponsorizzano il terrorismo e consentono all'islamismo radicale di sopravvivere, proprio per ricordare all'Occidente che cosa potrebbe succedere senza il loro provvidenziale pugno di ferro. Turarsi il naso per il despota di turno – Saddam, Assad, Abdullah, Mubarak, Ben Alì, Gheddafi – alla lunga non è una politica saggia, credibile, meno che mai “realista”.

L'idea che l'uomo forte garantisca il commercio del petrolio e la sicurezza d'Israele è un'illusione. L'Egitto è stato il principale alleato mediorientale d'Israele e Stati Uniti, ma è stato costretto a questa "umiliazione" per aver perso due guerre lanciate per distruggere lo stato ebraico (e l'uomo che ha siglato la pace con gli ebrei, Anwar al Sadat, è stato ucciso esattamente per questo motivo).

Sono i regimi arabi, compresi quelli che definiamo “moderati” o “laici”, ad alimentare la cultura dell'odio anti-occidentale, a puntare il dito contro il nemico esterno, a usare l'estremismo musulmano per chiedere più soldi e ottenere mano libera per schiacciare il dissenso.

La politica dello status quo non ha funzionato, come è stato evidente quella mattina di settembre del 2001. Barack Obama ha provato a tendere la mano con il discorso del Cairo, ma in cambio ha ricevuto un pugno serrato. L'alternativa è cambiare quei regimi e, nell'attesa, le politiche occidentali sul Medio Oriente. La strada è puntare sugli aiuti economici, sociali, culturali a favore della società civile, rigettando la tesi che il mondo arabo sia incompatibile con la democrazia.

Il conservatore George Bush e il socialdemocratico Tony Blair avevano individuato una strategia per stimolare pacificamente la formazione di gruppi, movimenti, istituzioni liberali nel Greater Middle East, ma i problemi creati dalla guerra in Iraq e la loro uscita di scena hanno convinto i successori ad abbandonare un programma che magari oggi avrebbe fatto trovare pronta un'opposizione democratica alternativa a quella illiberale dei Fratelli musulmani. Negli ultimi due anni, in realtà, anche Bush si è tirato indietro. Obama invece ha ridotto gli aiuti economici al Cairo (non quelli militari), dimezzato il sostegno finanziario e azzerato quello politico ai gruppi democratici egiziani. Non è una sorpresa che oggi la piazza non abbia una guida e possa essere strumentalizzata dagli islamisti. I pericoli sono enormi. Ma la dittatura è parte del problema, non della soluzione.

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