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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Helena Janeczek, Lezioni di tenebra 31/01/2011

Lezioni di tenebra                      Helena Janeczek
Guanda                                          Euro 15


Un corpo a corpo con la memoria, con i suoi oblii, i suoi lampi di ricordo. Nel cuore nero dell' Europa, Auschwitz. È qui che Helena Janeczek ci porta con Lezioni di tenebra riproposto ora da Guanda dopo i successi delle Rondini di Montecassino. Un viaggio accanto alla madre ebrea polacca sopravvissuta come suo padre alla Shoah: all' inizio, in un hotel di Varsavia, a cinquant' anni esatti dal giorno in cui lasciò i genitori nel ghetto di Zawiercie per salvarsi la vita, quella donna grida di dolore per la prima volta. Un percorso, un racconto necessari, alla ricerca di quel che è stato e resta nei luoghi e, soprattutto, dentro di sé. Un sé cresciuto tra una madre vitale e debordante e un padre più misterioso che poco o nulla le hanno narrato della persecuzione,e pochissimo anche dell' ebraismo, tirandola su in Germania dove si fermarono nel ' 46-' 47, una condizione con cui la Janeczek si è scontrata costantemente e da cui è venuta via appena possibile. La fascetta del suo libro, scritta da Saviano, lo definisce "una battaglia con la memoria". Ci si riconosce? «Sì, sottolinea un aspetto centrale e drammatico. È stata una memoria conquistata. Anche se scrivere fu tutt' altro: come mettere un piede nell' acqua e ritrovarsi già a nuotare. Provando un senso di liberazione anche perché potevo farlo in italiano, nella lingua del mondo dove vivo, per destinare quelle pagine alle persone che amo. Perché questo era poi il senso del libro». In Figli dell' Olocausto, che lei cita, Helen Epstein indaga come la ferita della Shoah si trasmetta ai figli dei sopravvissuti: da un lato un senso persecutorio, dall' altro una sorta di risentimento per la diversità ereditata dai genitori unita al bisogno stringente di non ferirli mai. Sono caratteristiche che le appartengono? «Molte sì, specie l' imperativo di essere una sorta di riparazione ai traumi vissuti, e l' essere dei veicoli di trasmissione della lacerazione pur senza averla subita. La Epstein però non si occupa del fatto che i nostri genitori hanno avuto una vita piena prima, un ambiente, delle passioni politiche e private, mentre per noi figli questo prima non esiste, è come se fossimo stati generati da una voragine. Con poche altre risorse per fondare il nostro senso di identità». Il tema del rapporto con la Germania dove è cresciuta è centrale. Quel non doversi mai sentire tedesca insegnato e praticato dai suoi... «Stavo crescendo nella terra sbagliata. Di fatto per loro ero una rappresentante del popolo ebraico. Così, se sei sano, cerchi di svicolare: sentivo che c' erano altre parti del mondo amabili, l' Italia innanzitutto. Provavo rabbia per la volontà tedesca di non affrontare fino in fondo quella che fu la loro ampia disponibilità a essere carnefici. Ma insieme ho capito che i percorsi possono cambiare». Non ha provato risentimento per i suoi perché si erano fermati a Monaco? «Avevano chiesto il visto per l' America, poi ci fu la tubercolosi di mio padre e tutto saltò. L' ho vissuta come una congiura della fatalità. In realtà ho un sentimento ambivalente verso la Germania. Quando ho avuto un figlio comunque non gli ho parlato in tedesco, nonostante le strane proteste di mia madre. Ho cambiato lingua». Nel libro lei ruba a sua madre frammenti di parole, frasi in polacco, yiddish, ebraico, lingue che i suoi non le hanno insegnato come lei sottolinea. Perché pensa che non l' abbiano fatto? «L' istinto di non voler far vedere chi si era veramente ha influito su molte trasmissioni, della Shoah, delle lingue, della religione. Per meè stato faticoso, l' ho vissuto come una privazione profonda e mi ha richiesto enormi sforzi». A un certo punto c' è un certo fastidio per i ragazzi israeliani che entrano ad Auschwitz con la bandiera, un gesto così convincente e commovente invece. «Dire "Abbiamo vinto" mi pare semplifichi troppo le cose. Israele è stato poco presente nella mia fanciullezza, di quel lungo periodo di "marranesimo" faceva parte anche il non mostrare un senso di appartenenza. Il mio rapporto ora è tranquillo però, anche se sono di sinistra e a volte critica, sono apertamente a sostegno del suo diritto all' esistenza». Ultima domanda. Si dice che lei abbia collaborato a scoprire Saviano, è vero? E poi, Javier Cercas definisce la vostra una generazione di autori che scrivono romanzi "ibridi", tra finzione e storia: questa definizione le appartiene? «Moltissimo, e con Cercas ho discusso proprio della necessità di ridefinire il romanzo e il suo rapporto con la realtà, un tema percorso fin da Lezioni di Tenebra, che gioco forza è letteratura testimoniale e non per fare deroghe sui nomi e dati, perché indaga una trama lacerata da tanti oblii. In mezzo a queste forme di narrazioni diverse c' è anche Gomorra. E sì, sono tra gli scopritori di Saviano prima del suo best seller: facevo girare i suoi scritti in Mondadori e lì dentro l' ho seguito da allora in poi».

Susanna Nirenstein
R2 Cult – La Repubblica


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