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La Stampa Rassegna Stampa
30.01.2011 Egitto: in Giordania in bilico il solo governo
L'articolo di Claudio Gallo

Testata: La Stampa
Data: 30 gennaio 2011
Pagina: 5
Autore: Claudio Gallo
Titolo: «In Giordania la rabbia risparmia il re»

Egitto, sulla STAMPA di oggi, 30/01/2011, in un servizio di Claudio Gallo, dal titolo "In Giordania la rabbia risparmia il re", le reazioni nel vicino stato che confina con Israele.


Re Abdallah di Giordania con Hosni Mubarak

È come svelare il finale del film, eppure bisogna essere onesti: la Giordania non sta esplodendo, come la Tunisia, come l’Egitto. Almeno per ora, poi inshallah. Al venerdì delle manifestazioni contro il carovita è seguito un sabato invernale e sonnacchioso. La differenza con gli altri Paesi arabi è che il bersaglio polemico resta il governo, nessuno mette in discussione la monarchia hashemita di re Abdallah. Almeno per ora, poi inshallah.

Un focherello di protesta tuttavia è rimasto acceso: il Fronte di azione islamica, il braccio politico dei Fratelli musulmani, ha indetto una manifestazione di protesta davanti all’ambasciata egiziana. Un po’ è vera solidarietà panaraba e islamica, un po’ è un parlare a nuora perché suocera intenda.

Amman è una città a cavalcioni di sette colli, come Roma. La spina dorsale e il riferimento topografico sono le rotonde stradali. Specialmente dalla prima all’ottava. L’ambasciata del Cairo sta non troppo distante dalla quinta rotonda. Pochi agenti e qualche vigile. Il fondo della via è transennato. La sede diplomatica è un palazzone squadrato di pietre bianche, sette piani, nessuno che si affacci alle finestre. Davanti c’è l’unica guardia armata di mitra che incontreremo. Di fronte, una piccola folla che intona slogan.

Gli attivisti, alcuni con la kefiah rosa e bianca in testa, saranno meno di un centinaio. C’è uno che dà il ritmo e gli altri scandiscono: «Hosni Mubarak l’Arabia Saudita ti aspetta», oppure la variante «... l’aereo ti aspetta». Poi ancora: «Hanno venduto l’Egitto in cambio di dollari», e poi anche, più impegnativo: «Denunciamo gli accordi di Camp David e Sharm».

A battere le mani al coro c’è Hamza Mansour, 60enne segretario del Fronte di azione islamico. La kefiah a pepi rosa copre la testa incorniciata da una barba candida, come le sopracciglia cispose. I due occhi grigio-azzurri lampeggiano quando parla, ma il tono è gentile. Come finirà in Egitto? «Gli egiziani non si fermeranno, la pazienza è finita. La loro leadership non ha scelta: deve ascoltare il popolo». Puntando l’indice verso l’alto. Ma se Mubarak alzerà ancora il livello della violenza? «Può provarci, è quello che sta facendo. Otterrà soltanto una risposta più aspra e scaverà un fossato tra sè e la gente».

In Egitto a rivoltarsi sono il Lumpenproletariat e quella parte di classe media che sta franando nella povertà. I Fratelli musulmani non sembrano alla testa delle proteste. L’affermazione, per un leader islamico, potrebbe suonare provocatoria, ma lui non batte ciglio: «È un sommovimento cui partecipa tutto il popolo e i Fratelli musulmani ne fanno parte». Poi sposta il colloquio sulle colpe dell’Occidente: «È ambiguo, vuole sempre che le cose vadano a suo modo, non come vogliono i popoli». «Obama dice che appoggia il popolo?», ride, «Il popolo egiziano non crede a Obama. Ma se è proprio l’America che ha sostenuto quel regime per 30 anni!».

E in Giordania? «Tutti gli arabi sono arrabbiati. I regimi non rappresentano la gente. Lo stesso qui: chiediamo un forte cambiamento politico». Però qui vuol dire una cosa ben diversa che non in Egitto o in Tunisia o in Yemen. Infatti alla domanda se vogliano sbarazzarsi del governo e del re, la risposta è pronta: «Il re? No, il re no. Vogliamo mandare a casa il premier e cambiare la legge che lo vuole di nomina regale. Dev’essere il Parlamento a eleggerlo». Un altro punto cardinale dell’opposizione è la legge elettorale. «Sì, vogliamo che sia la magistratura a supervisionare il voto, che non sia più una faccenda solo del Ministero dell’Interno».

I cori su Mubarak e Ben Ali vanno avanti, ma è chiaro che non succederà nulla di cruento. La composizione sociale diversa, la metà della popolazione palestinese, una monarchia autoritaria ma non troppo, sono tutte differenze che come un muro impediscono per ora il contagio egiziano.

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