A Mubarak toccherà pagare un prezzo significativo
ma il partito al potere farà tutto ciò che può – e può molto – per evitare l’effetto domino dalla Tunisia.
di Zvi Mazel
dal Jerusalem Post
(Traduzione di Laura Camis de Fonseca)
Zvi Mazel, già ambasciatore in Egitto
L’Egitto ha un regime forte e stabile’. Da tale premessa prendono l’avvio quasi tutte le ultime analisi delle rapide evoluzioni della situazione regionale. Questo era abbastanza vero fino a tre giorni fa. Ma la situazione è cambiata, non solo in Egitto. Zine El Abidine Ben Ali è stato spodestato dalla prima rivoluzione popolare della storia araba, e le onde d’urto si allargano. Le dimostrazioni di massa in Egitto nascono dall’esempio della Tunisia, anche se non è ancora certo che avranno risultati paragonabili. Lo spettacolo del potere in mano al popolo ha acceso la rabbia latente degli egiziani, portando allo scoperto anni di risentimento soffocato verso il regime di Mubarak. ‘Se ci riescono loro, perché non dovremmo riuscirci noi?’ si sono chiesti gli egiziani, e non solo questo. Anche in Siria l’onnipotente Assad è preoccupato. I suoi dipendenti pubblici hanno avuto un aumento di stipendio improvviso e Facebook è stato chiuso. In Giordania le proteste continuano da settimane. I lavoratori stranieri a Dubai hanno protestato per i loro stipendi da fame; 70 di loro sono stati imprigionati. Ad Algeri sembra essere tornata la calma dopo le recenti agitazioni, che però potrebbero ricominciare in ogni momento. In Marocco e in Yemen, dove ci sono state proteste lo scorso giovedì, si teme che la povertà, la disoccupazione e la corruzione portino a qualche reazione popolare. Il colonnello Gheddafi, che subito aveva rampognato i tunisini per aver cacciato Ben Ali, ci ha rapidamente ripensato ed ha assunto il tono di chi si congratula. Il re del Bahrain chiede un summit d’emergenza dei governi arabi. Che succederà in Egitto? E’ una domanda che si pongono non soltanto gli altri paesi arabi; anche gli USA e Israele osservano attentamente la situazione. Il paese di Mubarak è il più grande paese arabo: se il suo regime cade, l’intero Medio Oriente può finire nel caos. L’Egitto è anche il perno della politica americana nella regione e riceve più di un miliardo di dollari all’anno in aiuti militari. L’alleanza si basa sul fatto che gli americani danno per scontato che il governo sia stabile e che il trattato di pace con Israele non sia messo in discussione. L’Egitto non ha visto dimostrazioni così violente e così persistenti dalla rivolta per il pane del 1977, che obbligò il presidente Anwar Sadat ad annullare l’aumento del prezzo del pane e di altri beni di prima necessità. Ma la situazione economica oggi è molto peggiore. Ovunque c’è povertà. Circa il 40% della popolazione guadagna meno di 2 dollari al giorno. I dati ufficiali danno un tasso disoccupazione del 10%, ma in realtà potrebbe essere il doppio. Il 12 % della popolazione soffre di malaria e di epatite C. La corruzione è diffusa in tutte le élite al potere. Mubarak ha realizzato riforme economiche e finanziare necessarie, che però hanno avvantaggiato soltanto i ricchi. Nulla è stato fatto per migliorare la vita delle masse. Ma nell’odierno mondo di televisioni satellitari, internet e reti sociali la gente è molto più cosciente della propria condizione. Un tempo si diceva con compiacenza che in Egitto non ci sarebbe mai stata una esplosione popolare, perché il flusso della reazione popolare è lento come il flusso del Nilo. Non è più così. Il Nilo scorre ancora lento, ma gli egiziani da qualche anno ribollono. L’incertezza sul futuro del regime ha peggiorato la situazione. Nessuno sa che cosa potrebbe succedere alle elezioni presidenziali del prossimo settembre. Hosni Mubarak cercherà di farsi rieleggere per la sesta volta? Com’è il suo stato di salute? Gli succederà il figlio Gamal? Mubarak non ne parla: potrebbe non aver ancora deciso. Forse pensava di decidere all’ultimo momento, fiutando il vento all’ultimo. Ma ora la situazione è cambiata. E c’è anche un nuovo giocatore. Mohamed El Baradei, già direttore generale dell’Agenzia Atomica Internazionale, che ha rianimato l’opposizione a Mubarak e portato voglia di cambiamento. Le elezioni parlamentari di novembre hanno dimostrato che il regime non era pronto alla minima concessione, e quasi tutti i rappresentanti dell’opposizione sono stati cacciati dal parlamento con l’inganno o con l’intimidazione. La rivoluzione dei gelsomini ha dato nuovo impulso all’opposizione. Una manciata di giovani egiziani si sono dati fuoco, emulando il gesto disperato del giovane tunisino che ha dato l’avvio agli eventi che hanno portato alla caduta di Ben Ali. Poi c’è stata una massiccia dimostrazione, orchestrata dai cosiddetti ‘bloggers del 6 aprile’, un gruppetto di giovani che da due anni guidano un piccolo movimento di protesta in Egitto. A loro si sono aggiunti piccoli partiti d’opposizione e il Movimento per il Cambiamento creato da El Baradei. Il quale è rimasto in Austria, dove ha casa, fino a giovedì, quando è tornato in aereo. I principali partiti di opposizione egiziani non si sono ancora associati alle dimostrazioni, sono ancora incerti. La Fratellanza Musulmana ha permesso soltanto a pochi suoi leader di partecipare ma ha detto ai propri aderenti che potevano partecipare se lo volevano. Si sa che i servizi di sicurezza egiziani hanno esplicitamente ammonito i Fratelli Musulmani in ogni parte del paese a non scatenare i propri seguaci, ma queste ammonizioni non hanno mai fermato i Fratelli, che mirano ad alimentare il caos per far cadere il regime e rimpiazzarlo. Probabilmente i Fratelli, che hanno un loro proprio programma, son giunti alla conclusione che questo non è il momento opportuno per un confronto diretto. Lo stesso è successo nel maggior partito laico di opposizione, il Wafd. I suoi capi non si sono visti alle dimostrazioni, ma i membri sono stati autorizzati a partecipare. Il partito Tagammu di sinistra e il partito Nasserita hanno anche evitato di chiamare a raccolta i propri attivisti. Anche questi partiti evidentemente non erano convinti che le proteste potessero aver successo, e hanno preferito non affrontare direttamente il regime. Più sorprendente il fatto che la Chiesa Copta ha chiesto ai fedeli di non prender parte alle manifestazioni, ma di radunarsi in chiesa a pregare per l’Egitto, evitando così il confronto con il regime. Ma molte associazioni di giovani Copti hanno incitato i propri membri a partecipare alle dimostrazioni. Gli eventi successivi hanno dimostrato che i partiti di opposizione avevano sbagliato: negli ultimi giorni decine – forse centinaia di migliaia di giovani hanno dimostrato, in 15 città, senza nessun leader a guidarli. Hanno tenuto testa anche alla polizia e alle forze di sicurezza. Sapevano che cosa volevano: non soltanto pane e lavoro. Volevano l’uscita di scena del presidente e della sua famiglia. ‘Mubarak va via’ dicevano i loro cartelli improvvisati. E per la prima volta nella storia i ritratti del leader esposti per le strade sono stati stracciati. C’erano anche slogan che chiedevano che Gamal non avesse la successione, richieste di elezioni democratiche, l’abolizione delle tristemente famose leggi d’emergenza. Non c’erano mai state prima tante aspre critiche al presidente e alla sua famiglia. Sino ad ora nessuno poteva criticare Mubarak. Se questo è cambiato, allora tutto può cambiare. L’apparato di sicurezza egiziano è apparso ben preparato. Ingenti forze sono state dispiegate dove si prevedevano disordini. Dapprima hanno tentato di non usare la forza, cambiando però atteggiamento quando la polizia si è resa conto che i dimostranti non sarebbero più stati controllabili, se non fossero stati subito dispersi. Cinque persone sono morte sino ad ora, centinaia ferite e migliaia arrestate. Ma le dimostrazioni di protesta continuano e non è chiaro quando finiranno, anche se il governo le ha esplicitamente proibite. E’ un fenomeno del tutto nuovo e inesplorato, guidato da giocatori sconosciuti sino ad ora: studenti e adulti diplomati che non trovano lavoro, persone della piccola borghesia impoverita che si aspettano una vita migliore. Vogliono democrazia, libertà di parola, lavoro, internet, Facebook, Twitter. Vogliono un altro mondo, non un regime chiuso totalitario o religioso. Non sono i barbuti Fratelli Mussulmani che gridano ‘Allah Akbar’. Anche questo li collega alla rivoluzione dei gelsomini. El Baradei galvanizzerà queste forze? Sarà lui il leader capace di rimpiazzare i vecchi partiti da cui si sentono tradite? Il regime di Mubarak poggia su di un enorme partito presente in ogni villaggio e in ogni città, su di un esercito disciplinato e forze di sicurezza sulla cui lealtà non ci sono dubbi. Faranno tutto il possibile - cioè molto – per fermare le proteste. Ma dovranno agire con grande prudenza, evitare un bagno di sangue pur essendo abbastanza determinate da convincere i dimostranti che gli conviene andare a casa. Mubarak dovrà pagare: forse dovrà prendere iniziative economiche per alleviare la povertà, porre termine alle leggi di emergenza e organizzare credibili elezioni presidenziali democratiche e libere. Anche se ce la farà a superare la crisi, lui ed il suo regime ne usciranno molto indeboliti. E’ troppo presto per dire che cosa questo può comportare per gli USA e per Israele: due paesi che sono stati citati spesso nelle dimostrazioni. Gli egiziani vogliono democrazia, rispetto dei diritti umani e migliori condizioni di vita, perciò hanno più che mai bisogno dell’aiuto americano. L’amministrazione Obama è stata lenta nell’esprimere sostegno alla rivoluzione dei gelsomini. Ha aspettato che avesse successo prima di dar segni di approvazione. Ma aveva chiesto prudentemente al governo egiziano di rispettare la libertà di parola e di dimostrazione legittima. In quanto ad Israele, non c’è motivo di temere mosse che portino a una marcia indietro sul trattato di pace, che condurrebbe a un conflitto disastroso per l’economia e per l’alleanza con gli USA. A Tunisi gli avvenimenti hanno rapidamente portato alla cacciata del presidente, e acceso fermenti in tutta la regione. In Egitto si spera che gli avvenimenti spingano il governo sulla via del progresso e della riconciliazione.
(Zvi Mazel, già Ambasciatore israeliano in Romania, Svezia ed Egitto, è membro del Jerusalem Centre for Pubblic Affairs and State)