Il vero dramma del popolo palestinese: cosa possiamo imparare dai Palestinian Papers 28/01/2011
Il vero dramma del popolo palestinese: cosa possiamo imparare dai Palestinian Papers di David Braha
David Braha
In un periodo nel quale la fuga di documenti pseudo-classificati sembra essere diventata l’ultima avanguardia nel mondo dell’informazione, ogni giorno diventiamo sempre più consapevoli di come i media stessi siano in grado di distorcere la realtà che ci circonda. Basta prendere il caso Wikileaks appunto: presentato al pubblico come l’11 Settembre della diplomazia, si è rivelato in verità un incidente imbarazzante ma pur sempre rimediabile. In altre parole, i documenti di Julian Assange non hanno cambiato il corso della storia quanto i terroristi di Osama Bin-Laden: ed il motivo di ciò è che non abbiamo assistito alla rivelazione di informazioni particolarmente nuove o sconvolgenti, ma molto più semplicemente alla conferma di fatti, idee, ed opinioni dei quali tutti – o quasi – perlomeno sospettavamo l’esistenza. È in questa stessa ottica che si inserisce, appunto, l’ultimo “leak” in ordine di tempo: quello dei cosiddetti Palestinian Papers. Questi documenti, misteriosamente sottratti all’ANP e resi pubblici da Al-Jazeera e dal britannico The Guardian (e stavolta non da Wikileaks), rivelano numerosi dettagli sui negoziati di pace tra israeliani e palestinesi tenutisi nel corso dell’ultimo decennio. Tra essi compaiono elementi particolarmente scomodi ad Abu Mazen e all’entourage di Fatah, in quanto dimostrerebbero la disponibilità da parte della leadership palestinese a trattare su alcuni dei temi più caldi dell’intero conflitto: il destino dei profughi, ed il futuro di Gerusalemme. Un approccio che Hamas, con la sua dottrina di estremismo intransigente, non ha tardato ad etichettare come debole ed accondiscendente, e quindi non mirato al reale benessere del popolo palestinese. È una questione di punti di vista alla quale, purtroppo, siamo fin troppo abituati; una frattura ideologica che è sintomo di quello che, molto probabilmente, è l’unico vero motivo per cui il conflitto israelo-palestinese resta ancora irrisolto dopo oltre sessant’anni. La vera tragedia dei palestinesi infatti non è stata – come spesso i media vogliono farci credere – la Naqba, come la chiamano loro, “il disastro”, ovvero la vittoria da parte di Israele nella guerra all’indomani dell’indipendenza dello stato ebraico. Tantomeno lo sono state la questione dei profughi, la nuova vittoria israeliana nel ’67, o le due Intifade. Tutti questi eventi fanno solo da corollario al problema reale: quello di un popolo orfano, in balìa di un susseguirsi di leadership egoiste, inadeguate e corrotte. Questo non è un modo per sollevare Israele dalle proprie responsabilità o dai presunti propri errori passati e presenti; ma allo stesso tempo i fatti dimostrano anche che ad ogni concreta occasione di pace Israele non si è tirato indietro, in certi casi anche con ottimi risultati. È successo con l’Egitto di Sadat (1979), e con la Giordania di re Hussein (1994). Tuttavia con i palestinesi, per più di una volta, questo non è avvenuto: perché un trattato di pace giusto e credibile ha bisogno di una leadership solida e coraggiosa da entrambi i lati. Ci sono due conclusioni, quindi, che possiamo trarre dal caso dei Palestinian Papers. La prima è che, come al solito, i media non ce la raccontano giusta. Giornali e telegiornali hanno tutti enfatizzato le critiche mosse da Hamas alla leadership dell’ANP – come se fosse quella la vera notizia – ignorando il fatto che, stavolta, il problema non è il movimento estremista ma lo stesso Fatah. In altre parole si continua a considerare Fatah un serio partner di pace quando in realtà non lo è: e non per via delle sue intenzioni (decisamente più inclini al dialogo rispetto ad Hamas), bensì a causa della mancanza di legittimità dello stesso partito all’interno della popolazione palestinese. E questo ci conduce alla seconda conclusione. Ovvero che se Abu Mazen ed i suoi collaboratori – a partire dal negoziatore Saeb Erkat – non hanno il coraggio di dichiarare apertamente le stesse cose affermate nelle carte dei Palestinian Papers, allora questa non può essere considerata una leadership credibile. Dal momento della pubblicazione di questi documenti infatti, sembrerebbe che la preoccupazione principale dell’ANP sia stata quella di smentire interamente il loro contenuto. E da qui la domanda sorge spontanea: si può fare affidamento su una leadership che non ha il coraggio di assumersi le responsabilità delle proprie azioni? Il problema, quindi, è che per sostenere delle determinate politiche, bisogna prima di tutto essere pronti a difendere le idee sulle quali esse si basano. Quando Rabin firmò gli accordi di Oslo, o quando Sharon implementò il ritiro da Gaza, vi furono ondate di proteste – talvolta anche violente – che scossero l’intero Israele. Ma entrambi i leader israeliani non si fecero intimidire e proseguirono per la propria strada. Ma questo non sembra avvenire mai con le leadership palestinesi: non è successo con Yasser Arafat in passato, e non sta succedendo con Abu Mazen ora. È proprio questo il motivo per cui Hamas continua a riscuotere tanto successo all’interno della popolazione palestinese: esso appare infatti come l’unica alternativa credibile ad una leadership notoriamente debole e corrotta. Peccato solo che si tratti di un gruppo estremista votato al terrore. Fintanto che queste resteranno le uniche due alternative possibili quindi, gli spiragli per una pace credibile e sicura con Israele saranno veramente pochi. Povero popolo palestinese: vittima di due leadership spaccate, litigiose e fratricide; usato come una pedina sullo scacchiere di due contendenti che se ne infischiano del suo destino. magicdwd@hotmail.com