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Il Foglio Rassegna Stampa
27.01.2011 Giulio Meotti - Non smetteremo di danzare
Un successo anche all'estero

Testata: Il Foglio
Data: 27 gennaio 2011
Pagina: 7
Autore: Edoardo Camurri
Titolo: «Il fogliante giusto»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/01/2011, a pag. III, l'articolo di Edoardo Camurri dal titolo " Il fogliante giusto ".


Giulio Meotti, Non smetteremo di danzare (ed. Lindau)

Per leggere la scheda di Libri Raccomandati su 'Non smetteremo di danzare' di Giulio Meotti, cliccare sul link sottostante

http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=300&cat=rubrica&b=31326&ord=author

Riprendendo l’inquietante stratagemma utilizzato prima da Robert Conquest nel suo volume sulle collettivizzazioni sovietiche e poi da Martin Amis nel libro dedicato a Stalin (“Koba il terribile”, Einaudi), potremmo calcolare che se dal 1993, con l’inizio del processo di pace, a oggi sono stati 1.723 i civili uccisi in Israele in attentati terroristici, ogni singola lettera di quanto scritto fino a qui equivale a circa cinque morti. Cinque morti. Punteggiatura compresa. Impressiona anche sapere che di quelle 1.723 vittime, qui in Europa e in occidente, non sappiamo quasi nulla visto che nessuno ha mai deciso di tradurre questa contabilità in memoria vivente. Nessuno tranne Giulio Meotti. Chi in questi anni è entrato nella redazione del Foglio lo ha sempre visto chino sul suo computer o al telefono a fare interviste. Meotti ha compilato con acribia medievale un vero e proprio martirologio: l’elenco delle vittime israeliane del terrorismo, un elenco di storie e di nomi con i ricordi degli amici e dei parenti sopravissuti. Dopo circa quattro anni di lavoro, nel 2009, Meotti ne ha fatto anche un libro pubblicato poi da un piccolo e battagliero editore piemontese, Lindau: “Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele”. (Prima che uscisse altri pochi ma blasonatissimi editor giudicarono il libro incompleto perché privo del martirologio palestinese). Solo alcuni spiriti affini hanno subito colto l’importanza del lavoro. Guido Ceronetti sulla Stampa: “Caro Giulio Meotti, si fanno libri di attualità politica in quantità insensata, e per fortuna, dopo l’immancabile Dibattito, il Buco Nero li risucchia e amen. Ma il tuo libro-inchiesta su ‘Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele’, i morti e i sopravvissuti del terrorismo islamo- palestinese, merita lunga vita e ritorni di attenzione”. Oppure il Corriere della Sera: “L’impresa di Meotti, il suo ricercare l’umanità al posto dell’astrazione numerica, il dramma reale al posto delle considerazioni geopolitiche, rende ancora più atroce e assurdo, non giustificabile in nessuna logica bellica, l’assassinio sistematico degli inermi. Uccidere quanti più ebrei possibile non ha nessuna relazione con la possibilità di risarcire i palestinesi dalle loro privazioni. E’ un orrore in sé, a prescindere dalle motivazioni di cui si ammanta”. Ma quelle di Ceronetti e del Corriere della Sera, insieme a poche altre, furono voci isolate. Per il resto imbarazzo e il solito riflesso di scherno contro chi si occupa con amore di Israele. Per rimarcare la stranezza di tutto questo, ed è una stranezza eloquente, bisogna continuare a raccontare la storia del libro, perché da pochissimo il volume di Meotti è stato tradotto e pubblicato negli Stati Uniti (con il titolo forte di “A New Shoah”, edito da Encounter Books) dove sta già riscuotendo un successo enorme (e non capita spesso a un autore italiano di suscitare un dibattito così importante). Il libro è uscito con le review di nomi eccellenti quali il presidente del Parlamento israeliano Reuven Rivlin, l’ex ambasciatore americano all’Onu John Bolton, il giornalista canadese Mark Steyn, Norman Podhoretz e il classicista Victor Davis Hanson. Iniziamo con un parzialissimo e veloce elenco. Wall Street Journal: “Giulio Meotti ha scritto un monumentale volume sul dolore e sulla sofferenza, sul lutto e sulla memoria, sull’odio e sull’amore”. Commentary: “‘A New Shoah’ è un libro pieno d’amore”. National Review: “Dobbiamo essere grati a Giulio Meotti per il suo lavoro magistrale, per aver salvato dall’oblio i nomi di uomini e donne ordinari ma anche eroici; un autentico atto di hazkara, di memoria”. New York Journal of Books: “E’ un libro da leggere per il suo significato storico e la sua rilevanza attuale. E’ un lavoro importante, non solo per gli israeliani, ma per il mondo intero”. Il Jerusalem Post: “Peccato che ci siano pochi come Meotti”. Il Toronto Sun: “Deve essere letto ovunque”. Frontpage: “Uno dei libri più importanti del nostro tempo”. Il Jewish Ideas Daily poi lo ha messo nell’elenco dei libri ebraici più importanti dell’anno, insieme alla corrispondenza di Saul Bellow. La televisione israeliana vorrebbe farne un documentario. Ma le cose, viste da vicino, sono ancora più interessanti. Nella recensione uscita sul Wall Street Journal, Leon de Winter racconta: “La mia casa editrice olandese, l’esimia De Bezige Bij, una casa editrice nata dalla resistenza olandese contro i nazisti, ha rifiutato di pubblicare questo libro meraviglioso. Nello stesso tempo però non si è fatta nessuno scrupolo nel dare alle stampe un delirante volume antisionista di Dries van Agt, ex primo ministro olandese e apologeta di Hamas”. E qua e là, tra i commenti dei lettori a questi articoli pubblicati su Internet, troviamo alcune espressioni poco edificanti: “A Hardcore Zionist Dumbass”, “A Man Dispicable”, “Shut Up for a Couple of Hundreds Years”, “Rubbish Meotti”, “Shame on this Book”, “A Bunch of right-wing garbage”, “Shylock”, eccetera. Sono in molti a odiare Israele e chi lo ama. Come ricorda Daniel Gordis nel già citato articolo uscito su Commentary: “La decisione del Gay Pride Parade di Madrid del 2010 di ritirare l’invito alla delegazione israeliana a partecipare alla marcia è un esempio di tutto questo. Tel Aviv è un’oasi di libertà per i gay e per le lesbiche; e non c’è paragone col mondo arabo o nella West Bank o a Gaza (dove i gay sono abitualmente uccisi). Ma questo non conta nulla per gli organizzatori della marcia di Madrid. Per loro è più importante marginalizzare Israele che indurre il mondo arabo a imitarlo”. E’ una storia che conosciamo, quella dell’antisemitismo mascherato nell’antisionismo; vi ricordate di José Saramago? Nel marzo del 2002 dichiarò: “Quello che è avvenuto ad Auschwitz è paragonabile a quanto è successo a Ramallah”. Ma i casi sono numerosi. Alcuni sono elencati dallo stesso Meotti in una recente conversazione sul suo libro con il noto blogger Michael J. Totten (la si può leggere su pajamasmedia.com): “L’Europa è un continente antisemita. (…) Qualche settimana fa centinaia di intellettuali e di personalità norvegesi hanno promosso un enorme boicottaggio di Israele. (…) I politici israeliani hanno paura di atterrare a Londra dove potrebbero essere arrestati per crimini di guerra. Un popolare quotidiano svedese, l’Aftonbladet, ha scritto che i soldati israeliani strappano via gli organi dai corpi dei palestinesi per venderli. Nei Paesi Bassi, l’ex commissario europeo Frits Bolkestein ha invitato gli ebrei olandesi a emigrare in Israele o negli Stati Uniti. (…) Sempre in Svezia, uno scrittore di successo come Jostein Gaardner, l’autore del “Mondo di Sofia”, ha pubblicato un articolo sull’Aftenposten, dove ha scritto: ‘Non riconosciamo più lo stato d’Israele… non preoccupatevi, Israele tornerà in esilio’. (…) Per la commemorazione della Notte dei Cristalli, la città di Francoforte ha scelto come oratore uno studioso ebreo, Alfred Grosser, autore però di un violento pamphlet anti israeliano intitolato ‘Von Auschwitz nach Jerusalem’; Grosser paragona ciò che i nazisti hanno fatto agli ebrei a ciò che gli israeliani starebbero facendo ai palestinesi”. Tempo fa, vidi su Internet un pezzo della televisione egiziana che mi sconvolse. Il servizio era sottotitolato e presi subito nota di quanto stava avvenendo. Un conduttore mingherlino con addosso una pessima cravatta intervistava tale Adel Sadeq, sedicente primario di Psichiatria e docente all’Università Ain Shams del Cairo. Lo studio televisivo era molto semplice. L’argomento della conversazione: la struttura psicologica dell’uomo bomba. Ecco il brano dell’intervista che mi ero appuntato. “Intervistatore: qual è la struttura psicologica dell’uomo bomba? Psichiatra: La struttura psicologica è quella di chi ama la vita. I: Ma sta cercando la morte! P: Questo può sembrare strano a chi vede nell’anima umana la cosa suprema. Ma gli occidentali non sono in grado di comprenderlo, non hanno concetti come auto sacrificio e onore. (…). I: Crede quindi che il martire sia una persona che ama la vita? P: Sicuramente. Raggiunge il massimo della felicità. Raggiunge un livello di estasi che né io né lei conosciamo. (…) Il massimo dell’estasi e della felicità, e parlo da professionista, da psichiatra, arriva nel momento in cui, esattamente come quando l’assistente di studio le fa: dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre due, l’uomo bomba preme il pulsante per farsi saltare in aria. E’ il momento più bello, è il momento dell’uno e via! Ci si fa saltare in aria e si sente che si sta volando perché si è completamente convinti che non si morirà, questa è la differenza tra noi e gli occidentali. Questo è un atto di passaggio in un mondo bellissimo che il martire conosce assai bene; sa che in pochi secondi vedrà la luce del suo Creatore, che si troverà nel punto più vicino possibile ad Allah. Strategicamente deve quindi esistere un piano comune di tutti i paesi arabi per raggiungere il nostro comune obiettivo: liberare la Palestina dagli oppressori israeliani. Per dirla con parole diverse: getteremo Israele in mare. Perché o saranno loro o saremo noi a gettarli in mare. Non c’è compromesso, la coesistenza è impossibile. I: E’ vero, o loro o noi, o loro o noi!”. Quanto sta avvenendo è dunque una nuova Shoah, come il titolo dell’edizione americana del volume di Meotti suggerisce? Non tutti, e le argomentazioni sono interessanti, sembrano essere d’accordo. Michael Ledeen, recensendo il libro (“Un elegante e importante lavoro”), ha scritto su pajamasmedia.com: “Certamente, gli assassini antisemiti di oggi – la maggioranza dei quali appartengono all’islam radicale – sono ben determinati a uccidere quanti più ebrei possibile (e insieme a loro molti dei loro amici e sostenitori). Ma al contrario di quanto successe durante l’Olocausto, l’attuale carneficina di ebrei non avviene nelle antisettiche camere a gas, ma nelle strade, nei mercati, nei ristoranti, negli aeroporti e nei grattacieli del mondo moderno. Questi assassini non operano con la confortante distanza che la tecnologia nazista metteva invece tra gli assassini e i martiri. Gli jihadisti vedono se stessi come assassini individuali, non come manager di un’industria folle, come molti uomini di Hitler credevano di essere. Certo, i jihadisti vorrebbero creare dei campi di sterminio (…) ma questo non cambia il fatto che abbiamo a che fare con un fenomeno diverso”. Argomentazioni simili sono state avanzate anche da Daniel Gordis su Commentary: “L’intifada fu brutale, ma non fu un genocidio. L’Israele che Meotti descrive non è una comunità distrutta, in qualche modo è infatti riuscito a emergere dall’inferno del 2000-2004 più forte e determinato. Gli israeliani sono stati vittime, certo, ma non vittime inermi. Israele ha risposto agli attacchi palestinesi (…). Le vittime della Shoah non avevano queste opzioni, e questo fa la differenza. L’unicità del genocidio nazista non deve essere compromessa, anche inintenzionalmente, paragonandola ad altre aggressioni, per quanto feroci, contro gli ebrei. (…) La santità della memoria di coloro che sono morti durante la Shoah pretende che noi preserviamo questa distinzione e che incoraggiamo anche gli altri a farlo”. Sono obiezioni sensate e condivisibili, senz’altro necessarie. Ma sono obiezioni che in qualche modo stanno dentro la stessa traccia avanzata da Meotti; continua infatti Gordis: “La rivendicazione di Meotti secondo la quale ‘la minaccia di un nuovo sterminio degli ebrei è oggi una realtà e una promessa’ è appropriata, ed è appropriata non perché c’è qualcuno che sta rastrellando gli ebrei per infilarli nuovamente nelle camere a gas, ma perché la sua asserzione per cui ‘l’estinzione del giudaismo europeo avvenne nel completo e tragico fallimento della cultura europea’ è assolutamente corretta. E la cultura europea sta fallendo ancora”. Ecco, dinanzi all’innominabile e grottesca e feroce idiozia della propaganda e dell’azione antisemita (o antisionista, come si è visto non c’è differenza), stanno invece tutti i nomi e tutte le storie delle vittime israeliane del terrorismo. Millesettecentoventitré morti, in neanche vent’anni. Nomi che il mondo non vuole ascoltare e che Meotti, al contrario, obbliga i suoi lettori a pronunciare per la prima volta. Ibn Warraq lo ha messo in rilievo sulla National Review del 5 novembre quando, discutendo di “A New Shoah”, evoca storie come quelle di Rachel Teller, una ragazzina ebrea con i capelli corti e il sorriso malinconico, vittima di una bomba umana (di Rachel Teller la madre ha deciso di donare cuori e reni: “E’ la mia risposta – confida a Meotti – a quella iena che ha preso la vita di mia figlia. Con la sua morte donerà la vita ad altre due persone”). Nomi, nomi, nomi. Quello del dottor Picard che lasciò “la Francia dove i suoi nonni sfuggirono ai carri piombati di Vichy per perdere un figlio in un seminario ebraico”. Il figlio si chiamava Eran Picard e morì recitando la Torah. Come gli otto giovani seminaristi massacrati nella strage della yeshivah di Merkaz Harav, la scuola dei talmudisti: Avraham David Moses, Ro’i Roth, Neria Cohen, Yonatan Eldar, Yochai Lifshitz, Segev Peniel Avichail, Yonadav Hirschfeld, Doron Meherete. Nomi che vanno ripetuti e ricordati. Per non farli morire due volte. Perché, come una volta dichiarò il capo di stato maggiore israeliano Gabi Ashkenazi, anche lui figlio di sopravvissuti alla Shoah: “In Israele non ci saranno più numeri al posto dei nomi, non ci saranno più ceneri e fumo al posto di un corpo e un’anima”.

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