Tunisia: mentre gli uomini di Ben Ali si rifugiano da Gheddafi il rischio islamismo è concreto Commenti di Carlo Panella, Giulio Meotti, Rolla Scolari
Testata: Il Foglio Data: 25 gennaio 2011 Pagina: 4 Autore: Carlo Panella - Giulio Meotti - Rolla Scolari Titolo: «Perché molti uomini del regime tunisino trovano asilo da Gheddafi - Ma sul paese incombono le fatwe dell’islamista Ghannouchi - Tunisi città aperta»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 25/01/2011, a pag. I, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Perché molti uomini del regime tunisino trovano asilo da Gheddafi", l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Ma sul paese incombono le fatwe dell’islamista Ghannouchi ", l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Tunisi città aperta ". Ecco i pezzi:
Carlo Panella : " Perché molti uomini del regime tunisino trovano asilo da Gheddafi "
Carlo Panella
Per capire perché una delle massime preoccupazioni dei leader della rivolta tunisina riguardi le intromissioni di Muammar Gheddafi, di cui ha dato ampio resoconto il Monde, non basta leggere i minacciosi avvertimenti del leader libico, ma bisogna ricordare quanto avvenne nel 1974 a Djerba e nel 1980 a Gafsa. “Le famiglie tunisine vivono nella paura, possono essere attaccate e massacrate nel loro letto, mentre i cittadini nelle strade ammazzano come se fosse una rivoluzione bolscevica o americana – dice ora Gheddafi – Ma a che serve? A rovesciare Ben Ali? Ma vi avevo detto che il suo regime si sarebbe sgretolato in tre anni. Pazientate per tre anni e i vostri figli resteranno vivi!”. Oscure alle orecchie degli europei, queste frasi sono chiarissime per i tunisini. Quando Gheddafi è salito al potere, nel 1969, ha fatto di tutto per inglobare i vicini nella sua sfera di influenza. Tutti, a Tunisi, ricordano questo particolare. Lo sviluppo economico e sociale del Maghreb può basarsi unicamente su un’integrazione orizzontale tra Libia, Tunisia, Algeria e Marocco, ma questi paesi non hanno comunicato per nulla negli ultimi cinquant’anni e hanno commerciato ben poco fra loro. Il fondatore della Repubblica tunisina, Habib Bourguiba, lo sapeva bene e aveva sempre posto l’avvio della Union du Maghreb Arabe (Uma) in cima a tutte le sue strategie. Invano. L’Uma non è mai decollata, anche perché il suo primo passo – l’unificazione statuale tra Libia e Tunisia – fu disastroso. L’8 gennaio del 1974, Gheddafi e Bourguiba annunciarono la fusione dei due stati e la nascita della Repubblica arabo-islamica che univa Libia e Tunisia. Il progetto non germogliò mai. Il contraccolpo al fallimento fu grave e portò a una guerra fredda tra i due paesi, scoppiata nel periodo in cui Gheddafi cercava di destabilizzare militarmente l’Africa e sosteneva il terrorismo in Europa. Il 26 gennaio del 1980, dopo quindici anni di relazioni inesistenti, un commando proveniente dalla Libia si impadronì della città mineraria tunisina di Gafsa. Gli uomini dicevano di appartenere all’Armata di liberazione della Tunisia e di guidare “un movimento che porterà alla liberazione del paese dalla dittatura di Bourguiba e dalla dominazione neocoloniale”. La minaccia fu debellata grazie all’arrivo di un corpo di spedizione aeronavale francese, e dopo una battaglia che fece una cinquantina di morti. Libia e Tunisia non hanno parlato neppure quando Tripoli è stata colpita dall’embargo dell’Onu a causa dell’attentato di Lockerbie. La svolta si è verificata dopo il 2004, nel momento in cui Gheddafi ha rinunciato pubblicamente alle armi di distruzione di massa e ha messo l’accento sull’impiego dei fondi sovrani libici nelle economie confinanti. A quel punto è cominciata l’improvvisa amicizia con Ben Ali (che pure era stato in prima fila nella battaglia di Gafsa) ed è seguita la rapida ascesa di Tripoli nell’elenco dei partner tunisini. Con quasi 3 miliardi di dollari di interscambio, oggi la Libia è al quinto posto negli scambi commerciali dopo Francia, Italia, Germania e Spagna. A fine dicembre, Gheddafi ha dato l’ordine di aprire le frontiere ai disoccupati tunisini nel vano tentativo di alleviare le ragioni economiche della protesta. Oggi, come riporta il Monde, i leader dell’opposizione tunisina sanno che Gheddafi possiede “le leve per intervenire a Tunisi”, e non si tratta soltanto di leve economiche. Ali Seriati, il capo della Guardia nazionale in fuga, è stato arrestato nei pressi della frontiera con la Libia assieme a decine di uomini di Ben Ali. Da una parte, il rais libico teme il contagio tunisino e sa bene che la rivolta di Bengasi del 2006 – quella scoppiata dopo che il ministro italiano Roberto Calderoli indossò la maglietta con le vignette di Maometto – era anche e soprattutto una rivolta contro il suo regime. Dall’altra parte, Gheddafi vuole preservare l’influenza acquisita su un paese indispensabile all’esercizio della sua potenza regionale.
Giulio Meotti : " Ma sul paese incombono le fatwe dell’islamista Ghannouchi "
Giulio Meotti
Roma. Nelle ultime interviste ai giornali europei, dal Financial Times allo Spiegel fino al Corriere della Sera, il vecchio guru dell’islamismo tunisino Rachid Ghannouchi (omonimo del primo ministro Mohamed) ha giocato la carta della moderazione, portando a esempio il premier turco Erdogan anziché Khomeini, al quale Ghannouchi veniva sempre paragonato dal regime di Ben Ali. Dopo vent’anni di esilio londinese, la “rivoluzione dei gelsomini” ha rilanciato anche Ghannouchi sulla scena mondiale, pronto a partecipare alle prossime elezioni politiche. E’ Ghannouchi la grande figura inesplorata di questa rivolta tunisina. Parlando ad al Jazeera, il vecchio leader rassicura: “Siamo un movimento islamico moderato, rispettiamo la democrazia”. Dice anche di essere pronto a fare la propria parte non appena il nuovo governo eliminerà il bando su Ennahda, il suo partito messo fuori legge da Ben Ali e il cui messaggio antioccidentale e antimodernista ha sempre trovato ampio ascolto nelle campagne, tra i giovani disoccupati, nella polizia e nelle forze armate. Ghannouchi ha parlato dell’islam come di “una fede legata alla coesistenza pacifica, al pluralismo, alla tolleranza e all’evoluzione dell’essere umano, una forza che spinge per la civilizzazione e contro la distruzione”. Ma gli osservatori internazionali, specie americani e israeliani, sono inquietati dal passato di Ghannouchi, che Libération ha appena definito “uno fra i più brillanti pensatori dell’islam politico della sua generazione assieme al sudanese Hassan el Turabi”. Su Israele, ad esempio, Ghannouchi ha legittimato l’uccisione dei civili: “Non ci sono civili in Israele – ha affermato – uomini, donne e bambini sono dei soldati della riserva, quindi possono essere uccisi”. Queste e altre dichiarazioni sono state raccolte dalla rivista Middle East Quarterly. Ghannouchi ha parlato anche della liceità di spazzar via i governi arabi “corrotti”: “In passato i giureconsulti sunniti proibirono l’uccisione dei governanti musulmani perché all’epoca i governanti erano dei nostri e operavano per il nostro bene. Mentre oggi i governanti sono i lacchè dell’imperialismo, non hanno nulla a che fare con noi, quindi bisogna ucciderli tutti”. Sempre su Israele ha denunciato “l’impero ebraico mondiale” e invitato la nazione islamica a liberarsi “di questo cancro sionista”. Ghannouchi è membro del Consiglio europeo della fatwa e delle ricerche, presieduto dal celebre sceicco Yusuf al Qaradawi. Una delle vicende meno note è la fatwa che Ghannouchi avrebbe emesso contro l’intellettuale liberale tunisino Lafif Lakhdar, definito da Haaretz “lo Spinoza del mondo arabo”. Ghannouchi gli aveva attribuito la pubblicazione di una caricatura sul Profeta. Sul sito web del movimento di Ghannouchi, Ennahda, è apparso un articolo in cui si invitava a “rapire l’eretico infedele Lafif Lakhdar e impiccarlo in pubblico, assieme all’eretica Raja Ben Salama, per impartire una lezione ai loro seguaci e simpatizzanti”. Ben Salama è una delle voci della cultura tunisina più forti nella richiesta di laicità e modernità. Sempre Ghannouchi ha paragonato Saddam Hussein a Yusuf Ibn Tashfin, il governante che guidò le città islamiche di Spagna. A Khartoum (dove Ghannouchi ha coltivato rapporti con l’islamista sudanese Hassan al Turabi), il leader tunisino ha incitato alla “guerra incessante contro gli americani fino a che non abbiano lasciato le terre islamiche, o bruceremo e distruggeremo tutti i loro interessi nel mondo musulmano”. Per questo gli Stati Uniti hanno rigettato la richiesta di visto di Ghannouchi. E nel timore di un’ondata islamista, nei giorni scorsi tanti ebrei tunisini hanno già preso la strada per Israele.
Rolla Scolari : " Tunisi città aperta "
Rolla Scolari
Nelle strade della Tunisia continuano le proteste contro il governo di transizione e contro il primo ministro, Mohamed Ghannouchi. Anche ieri la polizia ha sparato lacrimogeni per disperdere centinaia di persone radunate di fronte al palazzo del governo, nel centro di Tunisi. I giovani sfidano il coprifuoco, passano la notte nelle piazze e chiedono le dimissioni dei ministri che hanno servito sotto il regime di Zine el Abidine Ben Ali. Questa è una settimana decisiva per il governo, per il paese, e per le sorti di quella che molti hanno definito “la prima rivoluzione araba”. Gran parte della società civile crede che la rivolta non sia completa: il rais è stato cacciato dal paese, ma i suoi uomini siedono ancora nelle stanze del potere. Le università avrebbero dovuto riprendere le lezioni ieri, ma i docenti hanno annunciato uno sciopero “illimitato”. Secondo i vertici del sindacato, più del 90 per cento delle scuole sono chiuse: gli insegnanti hanno fatto sapere che ritorneranno in cattedra soltanto quando il governo di transizione presenterà le dimissioni. Dopo 23 anni di dittatura e di regime poliziesco, i tunisini si appropriano velocemente della politica e lo fanno con entusiasmo. Da giorni, da quando una calma relativa è tornata nel paese, i cittadini si incontrano e discutono, protestano e si organizza. A Tunisi non ci sono soltanto le manifestazioni riprese dai network televisivi più importanti del mondo. Il sindacato, i partiti cancellati dalla scena, le associazioni per i diritti umani e altre organizzazioni bandite dal regime si stanno ricostituendo. Il loro obiettivo è avere un ruolo nella parte più importante della rivoluzione – la transizione democratica – e vigilare sul nuovo governo. Ogni giorno, davanti alla sede del sindacato unico, l’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt), ci sono comizi, proteste e manifestazioni. Dall’edificio bianco con le imposte turchesi sventolano bandiere della Tunisia e della Palestina, assieme alle fotografie sbiadite di Farhat Hached, il fondatore dell’organizzazione. Si litiga, si urla, si discute, è una scena d’altri tempi, una pagina di romanzo d’inizio Novecento. “In Tunisia è sempre esistita una società civile, ma era soffocata e censurata”, dice Ahmed Dfifi, informatico e membro del sindacato. Sotto il braccio stringe giornali tunisini, quotidiani francesi e l’ultimo numero del settimanale Jeune Afrique. La folla attorno scandisce slogan arrabbiati e protesta contro la leadership del sindacato. Nei giorni passati, i lavoratori hanno chiesto le dimissioni di tre ministri vicini all’Ugtt: non vogliono compromessi con il nuovo governo, considerato un’emanazione del regime di Ben Ali. “Ora tutte le organizzazioni della società dovranno fare la loro rivoluzione interna – spiega Dfifi – le persone che ci rappresentano e parleranno per noi non devono più essere imposte dall’alto”. Il giorno prima, davanti al tribunale di Tunisi, a pochi passi dalla kasbah, avevano manifestato i giudici. Con gli avvocati, i magistrati sono una forza viva della rivolta tunisina. Le toghe hanno intonato slogan contro il nuovo governo mentre la polizia sparava in aria nel tentativo di disperdere la folla. Giudici e avvocati vogliono trasferire la rivoluzione dalle piazze alle aule dei tribunali. “Ho chiamato il primo ministro Ghannouchi per dirgli che non possiamo più operare con una procura in cui siedono gli stessi uomini che c’erano sotto il regime”, diceva al Foglio, pochi giorni fa, il presidente del consiglio forense, Abderrazak Kilani. Sotto le sue finestre, la protesta dei giudici proseguiva senza soste. Nelle ore successive alla fuga di Ben Ali, molte figure e associazioni che appartenevano al regno dell’illegalità sono tornate operative, sono riemerse dalla segretezza. La società civile esisteva anche prima ma era stata arginata, “l’avevano allontanata dal popolo”, spiega Sihem Bensedrine. Giornalista di Radio Kalima, un’emittente illegale negli anni del regime, e fondatrice del Consiglio nazionale per le libertà in Tunisia, la donna è tornata dall’esilio pochi giorni fa. Per ricostruire. “Eravamo pronti – dice al Foglio – E tra noi sono sempre esistite le comunicazioni. Ora ci stiamo preparando a canalizzare le richieste della popolazione, mantenendo la legalità”. Il vecchio regime resta presente nelle istituzioni e nell’apparato di sicurezza. Per questo, “la transizione è la sfida più grande – dichiara Bensedrine – Stiamo lavorando per creare un consiglio della rivoluzione che possa raccogliere tutte le forze vive del paese che hanno fatto la rivoluzione, dal sindacato ai partiti alle organizzazioni non governative”. Il nuovo organo dovrebbe avere le prerogative legali per chiedere l’istituzione di una costituente e lavorare assieme al governo a una nuova Carta fondamentale. “Si tratterà di un’associazione di cittadini capace di controllare il governo durante la transizione. Prima, però, vogliamo la dissoluzione di questo esecutivo”. Stanno lavorando al progetto le organizzazioni per i diritti umani, l’ordine degli avvocati tunisini, i partiti scartati dalla vita politica sotto il regime di Ben Ali, come quello di Moncef Marzouki, i comunisti di Hamma Hammami, gli islamisti di Rachid Ghannouchi, i rappresentanti delle regioni e dei giovani, spiega Bensedrine. Si lavora su ogni fronte. I tunisini vogliono avere uno spazio nelle nuove istituzioni purgate dai vecchi volti, ma intendono anche saperne di più su 23 anni di corruzione, non soltanto politica, che hanno segnato il paese. La “Famiglia”, il clan Ben Ali e quello della moglie Leila Trabelsi, controllava gran parte dell’economia nazionale. Alya Cherif Chammari, avvocato della Corte costituzionale di Tunisi, sta lavorando assieme ad altre tredici persone alla costituzione di una rete nazionale che indaghi sulla corruzione. “Presenteremo il nostro progetto la settimana prossima – dice – Siamo un gruppo di avvocati, giornalisti, blogger, manager d’impresa, privati cittadini. Vogliamo avere un ruolo presso le istituzioni per indagare sui casi di corruzione che non siano soltanto legati alla famiglia Trabelsi. Vogliamo dire al governo che siamo vivi e vigili”. L’esecutivo di transizione ha annunciato la nascita di alcune commissioni d’inchiesta. Una si occuperà di fare luce sulle violenze delle forze dell’ordine durante le ultime manifestazioni; un’altra ha come obiettivo la corruzione della Famiglia. Restano, però, molti dubbi sull’indipendenza di queste istituzioni, che lavoreranno per un governo guidato da ministri dell’era Ben Ali. “Non si può fare il nuovo con il vecchio – continua l’avvocato Chammari – Per costruire una democrazia dobbiamo avere garanzie che le persone incaricate di riformare le istituzioni non appartengono al passato. Serve un esecutivo più piccolo, formato da tecnici. Non vogliamo una caccia alle streghe, ma l’allontanamento progressivo di quelle personalità che hanno aiutato l’ex presidente a costruire il regime”. L’alternativa c’è, spiega la signora: ci sono tutte quelle correnti che sono da sempre in Tunisia e quelle che si trovano in esilio e che, ora, non sono più costrette ad agire in segreto. Ci sono associazioni per i diritti umani, movimenti di donne, ci sono i partiti e i professionisti. “Ma occorre formare una costituente reale che raggruppi tutte le forze vive della rivoluzione”. Ora che televisioni e giornali tunisini iniziano a parlare di attivisti, militanti e dissidenti allontanati dal paese o dalla vita politica, la popolazione sta imparando a conoscere i volti nuovi della Tunisia. Se la mattina del 14 gennaio, quando Ben Ali era ancora al potere, le tv e i giornali parlavano delle manifestazioni come di “raggruppamenti violenti”, poche ore dopo la fuga del rais i toni erano completamente cambiati. L’emittente araba al Jazeera ha avuto un ruolo centrale nella rivolta: mentre Tv7, il canale di stato tunisino, trasmetteva cartoni animati, su al Jazeera i tunisini potevano vedere l’estensione del dissenso, scoprire le manifestazioni, ascoltare le voci degli attivisti in esilio. Fra i volti tunisini più noti agli spettatori della tv con sede in Qatar c’è Moncef Marzouki, fondatore del Congresso per la Repubblica, un movimento fuorilegge nell’era Ben Ali. E’ tornato a Tunisi martedì scorso, dopo nove anni di esilio a Parigi, accolto all’aeroporto della capitale da moltissime persone. Senza neppure passare da casa ad appoggiare le valigie, Marzouki ha annunciato la propria candidatura alle presidenziali ed è partito subito per Sidi Bouzid, la città del giovane ambulante che si è dato fuoco in dicembre, innescando le proteste. E’ sorridente e rilassato quando racconta, dietro gli occhiali passati di moda, che la società civile tunisina è sempre rimasta attiva, anche se obbligata ad agire sotto la superficie. “Nel primo anno dopo la fine del regime dello scià, nel 1979, in Iran sono stati pubblicati diecimila libri – ha detto – Impossibile scriverne tanti in così pochi mesi. Questo significa che i libri c’erano già, ma non potevano essere stampati. Lo stesso sta accadendo qui in questi giorni: resteremo tutti meravigliati dalla ricchezza del nuovo territorio politico tunisino”. Il tempo delle idee è finito, annuncia Marzouki, ora comincia il tempo dell’organizzazione. “Tutti in Tunisia si stanno muovendo in queste ore per ricostruire. Fra tre mesi avremo davanti agli occhi un paese completamente diverso. Ma era già tutto pronto”. La piazza ha costretto alle dimissioni Moncer Rouissi, il ministro degli Affari sociali, che ha lasciato ieri. E il capo delle Forze armate, Rachid Ammar, considerato uno degli uomini chiave nel futuro del paese, ha assicurato il proprio sostegno alle nuove istituzioni tunisine. “L’esercito rispetterà la legge e difenderà la rivoluzione”, ha detto. Anche Ammar ha servito sotto il regime di Ben Ali. Per sua fortuna, il dittatore lo ha destituito nei suoi ultimi giorni a Tunisi.
Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante