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La Stampa Rassegna Stampa
23.01.2011 Primo Levi, anche questo fu Auschwitz
Colloquio con Anna Bravo

Testata: La Stampa
Data: 23 gennaio 2011
Pagina: 31
Autore: Anna Bravo-Primo Levi
Titolo: «Il galateo del Lager»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/01/2011, a pag.31, con il titolo " Il galateo del Lager", una parte della conversazione tra Primo Levi e la storica Anna Bravo del 1983, ripubblicata da Einaudi per la Giornata della Memoria.


Anna Bravo                   Primo Levi

ANNA BRAVO. «Una delle cose che erano venute fuori nella sua lezione a Magistero era la serie di rituali, comportamenti suggeriti, imposti, decisi in comune che riguardavano... l’avevamo chiamato il “galateo” del campo, grosso modo».
PRIMO LEVI. «Sì, sì. Chiaro, lo dico fin da adesso, può avvenire che mi ripeta, che ripeta cose che compaiono nei miei libri, ma...».
BRAVO. «Ma è una cosa che non... non c’era».
LEVI. «È un guaio non evitabile. Ma oltre alle regole, come dappertutto, c’era un codice ufficiale, cioè un complesso di precetti e di divieti, imposto dall’autorità tedesca. Ma, frammisto a questo, e sovrapposto a questo, c’era anche un codice di comportamento spontaneo, che ho chiamato galateo, e alcuni precetti e divieti potevano essere elusi, bisognava saperlo, si imparava con l’esperienza, chi sopravviveva alla crisi dell’iniziazione, che era la più grave. Chi sopravviveva ai primi giorni finiva con l’imparare che le vie traverse, le scorciatoie e il modo più giusto per arrivare a farsi riconoscere malato, per esempio, e il fatto che la... la corruzione era dominante in Lager, cosa che aveva molto stupito tutti, perché, noi per lo meno, noi ebrei italiani che avevamo avuto contatto molto tardi con i tedeschi, ci eravamo fatti l’immagine ufficiale dei tedeschi, cioè crudeli ma incorruttibili; invece erano estremamente corruttibili. Lo si imparava più o meno in fretta, con l’esperienza; non solo i tedeschi che erano abbastanza esterni, ed erano delle divinità inaccessibili, ma tutta la gerarchia del campo che discendeva dai tedeschi era corruttibile, anzi, questa parola polacca “proteczia” si imparava subito.

«A parte questo, c’era un complesso di comportamenti che non avevano direttamente a che fare con la sopravvivenza, ma che erano considerati di buona o di cattiva educazione, e uno che ho citato era quello del... quando ti chiedevano in prestito il cucchiaio: in generale era un prestito che si concedeva soltanto a una persona di fiducia, perché era un capitale, valeva una razione di pane, e quindi lo si dava soltanto a una persona di fiducia, oppure che si sorvegliava. Il cucchiaio non veniva dato, non era di dotazione, bisognava conquistarselo, cioè comprarlo all’inizio con pane, era una crudeltà supplementare questa... tra parentesi, alla liberazione del campo abbiamo trovato un magazzino pieno di cucchiai, non c’era ragione di non darli, il nuovo venuto era costretto a lappare la zuppa come un cane, perché il cucchiaio non ce l’aveva e nessuno glielo dava; comunque quando veniva chiesto il cucchiaio in prestito era buona norma leccarlo prima, uno mangiava la sua zuppa, poi lo leccava bene perché fosse pulito [sorride] e solo allora lo dava in prestito al... al postulante, ... e un’altra cosa ancora, che mi viene in mente, era, come dire, la proprietà nel vestirsi, e sembrerà strano dal momento che era quasi impossibile essere vestiti propriamente, ma... come nella vita comune, aveva importanza avere gli abiti, il cappello e le scarpe decenti, dico decenti tra virgolette, perché decenti non erano mai, o per lo meno ci arrivava soltanto chi aveva fatto una straordinaria carriera, ma... in qualche modo questo era, faceva parte della disciplina del campo.

«Ma io tendevo inizialmente a trascurarla, mi sembrava una cosa superflua quella di... questa giacca piena d’unto, piena di macchie di ruggine, doverla spolverare mi sembrava inutile, e invece i compagni più anziani mi han detto: “No, devi farlo, qui si deve avere le scarpe pulite, la giacca pulita, e così via, la faccia pulita, non bisogna sottrarsi al barbiere”. La barba la si faceva soltanto una volta alla settimana, però quella volta lì doveva essere fatta, non soltanto in omaggio alla disciplina del campo, alla regola del campo, ma anche come armatura esterna di vita morale, doveva comparire in qualche modo, un istinto collettivo spingeva a questo, chi si lasciava andare era in pericolo, veniva sempre ultimo».
BRAVO. «Lei ha notato rispetto a questa esigenza di dignità, anche verso l’esterno, che ci fosse una possibile differenziazione in relazione alla estrazione di classe, cioè che certi modelli culturali di proprietà, decenza...».
LEVI. «Direi proprio di no».
BRAVO. «Influissero... no?».
LEVI. «Direi di no; direi che del resto la provenienza di classe spariva molto rapidamente, e prevalevano altri fattori. Io ricordo degli intellettuali decadere con estrema rapidità, mentre invece scaricatori di porto o gente abituata al lavoro manuale resisteva meglio. Non è un criterio assoluto, c’erano altri criteri. Uno era quello del peso corporeo: è chiaro che un uomo come me che all’ingresso nel Lager pesava 49 chili perché era costituzionalmente esile, aveva bisogno di meno calorie di un uomo di 80 o 90 chili; e quindi nel mio caso questo è stato un fattore... di sopravvivenza, un fattore... un vantaggio. Molti intellettuali naufragavano, perché si trovavano davanti a un lavoro mai fatto prima, a una necessità di lavorare fisicamente, di provvedere a cose che un uomo dalla vita agiata non fa, a lustrarsi le scarpe, a spazzolarsi il vestito senza spazzola, con le mani, con le unghie, e...».
BRAVO. «La manutenzione di se stessi».
LEVI. «La manutenzione di se stessi, che spesso viene delegata».
BRAVO. «E sì, nelle famiglie, c’era la donna, la moglie, la domestica».
LEVI. «Appunto, viene delegata. Qui invece bisognava provvedere. Io stesso mi sono trovato molto in pericolo nei primi giorni, e qui mi ricollego al fattore dell’amicizia; io credo di essere stato salvato da alcune amicizie, anche per un fatto importante per noi italiani, ebrei italiani: la mancata comunicazione. Io l’ho percepita come un ferro rovente, come una tortura, il fatto di trovarsi in un ambiente in cui non si capiva il verbo, la parola e non si riusciva a farsi capire. Trovare un italiano con cui comunicare era una grande fortuna. E eravamo pochi italiani, eravamo un centinaio nel mio Lager su diecimila, l’uno per cento, e degli stranieri pochi parlavano italiano, e di noi italiani quasi nessuno parlava tedesco o polacco e pochi parlavano francese, in sostanza c’era un grave isolamento linguistico. E trovare un buco, un foro, un passaggio che permettesse di valicare questo isolamento linguistico, era un fattore di sopravvivenza. E trovare l’altro capo del filo, una persona amica era... era un salvataggio.

«Ora questo ragazzo, Alberto, di cui io ho spesso parlato nei miei libri, era l’uomo adatto, aveva coraggio da vendere per sé e per gli altri, ed era in grado di somministrare coraggio e mi sono trovato con lui, abbastanza casualmente, senza mai capir bene... io trovavo in lui un salvatore; cosa trovasse lui in me, che lui mi diceva: “Tu sei un uomo fortunato”, non so bene su quale base, ma infatti il destino l’ha poi dimostrato, io sono stato fortunato».

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