Sul SOLE24ORE di oggi, 22/01/2011, a pag. 13, due servizi sulla Tunisia. Il primo, di Alberto Negri, riconferma come l'Occidente non debba preoccuparsi se la Tunisia di domani seguirà l'esempio turco, il secondo, di Karima Moual, riporta le opinioni di Tariq Ramadan, un furbo fondamentalista che piace agli allocchi occidentali. E non è che ricorra ad eufemismi, dice chiaro come la pensa, ma sa offrire le sue tesi in modo colto ed elegante. Le teorie dei Fratelli musulmani, che lui rappresenta e diffonde in Europa, sono la base sulla quale l'islam instaurerà il suo potere nei prossimi decenni (pochi). E l'esperienza turca è lì a dimostrarlo.
Ecco i due servizi
Alberto Negri: " L'islam tunisino guarda ad Ankara "
Erdogan & Co.
TUNISI. Dal nostro inviato L'allievo tunisino di Habermas è un fondamentalista un po' sorprendente che intende apparire rassicurante: «Non vogliamo un ritorno di Rashid Ghannouchi nello stile di Khomeini a Teheran», dice Ajmi Lourimi riferendosi al rientro dall'esilio del leader integralista, lo spettro che dall'inizio aleggia su questa rivoluzione. Nel 1979, quando lo Shah aveva già lasciato l'Iran, Khomeini atterrò accolto da quattro milioni di persone e la sua Chevrolet fu sollevata in aria da una folla in delirio che quella notte fatale giurò di avere visto il profilo dell'imam riflesso nella luna. Una vicenda lontana dalla Tunisia di oggi ma forse di sempre. Con il suo corteo di turbanti e mullah, la repubblica islamica - come pure l'emirato talebano o al-Qaeda - rappresenta l'incubo che da trent'anni accompagna ogni moto di rivolta nel mondo arabo e musulmano. Pure qui, dove il laicismo è stato saldamente radicato da Habib Bourghiba, una sorta di Ataturk del Maghreb, che in una società già moderata e predisposta alla modernità abolì la poligamia, tolse il velo alle donne, diede parità di diritti ai sessi e provò persino a cancellare il Ramadan, il mese del digiuno. Per smorzare i timori dei secolaristi, Lourimi aggiunge: «Non ci sono ragioni per avere paura degli islamici, la Tunisia non è l'Afghanistan, la Somalia e neppure l'Algeria: è un paese sviluppato, colto, contrario alle derive violente. Poi noi non abbiamo intenzione di partecipare al governo, resteremo all'opposizione: il nostro obiettivo immediato è contribuire alla ricostruzione delle basi democratiche». Per lui, 47 anni, fondamentalista della prima ora, questa è già una rivoluzione: prima del crollo di Ben Alì non si sarebbe mai sognato di rilasciare un'intervista nel cuore di Avenue Bourghiba, a un passo dal ministero degli Interni, simbolo della repressione di un regime che annichilì gli islamisti mentre la vicina Algeria scivolava nel caos. Il tradizionale kabbous di lana in testa, la barba da militante ben curata, Ajmi Lourimi, avvolto da un cappotto scuro oversize, è uno dei dirigenti storici di Ennhada, Rinascita, la formazione islamica appena uscita dalla clandestinità. Fu il capo del movimento universitario nei primi anni Ottanta quando lo slogan era: «Il Corano è la nostra Costituzione», arrestato nel '92 e condannato all'ergastolo. È uscito dopo 16 anni, la metà passati in isolamento. Ora si presenta come una sorta di nouveau philosophe islamico, un pragmatico che si definisce "riformista". Lourimi, per un paio d'anni brillante assistente all'Università di Rabat, è il primo traduttore in lingua araba dell'opera del filosofo tedesco Jurgen Habermas che gli ha anche dedicato un libro mentre si trovava dietro le sbarre: «Sono stato in quattro prigioni diverse e intanto ho continuato ad approfondire gli studi: da Platone ad Habermas, da Paul Ricoeur a Jacques Derrida a John Rawls. Tra gli italiani mi hanno colpito le “Le lettere dal carcere” di Gramsci. Il tempo per leggere non mi è mancato», dice con un filo di ironia, senza mai accennare alle torture documentate da Amnesty International. Quanto contano gli islamici in un paese dove c'è un ritorno popolare alla religione che però non significa militanza? «Abbiamo partecipato come gli altri alla caduta di Ben Alì e siamo attivi nella transizione ma non capeggiamo nessuna manifestazione: Ennhada è un partito moderato e pacifico. Non ci metteremo subito nella corsa ai seggi come gli altri, per noi non è questione di maggioranza o di minoranza ma di ristabilire prima di tutto la legalità». C'è un modello politico al quale si ispirano gli islamici? «Forse quello turco, tenendo conto però della specificità del nostro Paese». I toni sono distaccati ma questo era il partito che con robusti e decisivi finanziamenti arabi aveva ereditato l'esperienza battagliera del Movimento di Tendenza islamica. Rashid Ghannouchi, dopo gli anni ruggenti dell'ascesa ma anche degli scontri con la polizia, venne arrestato con altri tremila militanti per tornare sulla scena nell'89 in elezioni clamorosamente truccate, dove l'Rcd e Ben Alì presero l'80% dei voti e i fondamentalisti il 14%. Fu una stagione breve, due anni dopo Ennhada venne messo fuorilegge, arrestati tutti i capi e 25mila militanti mentre Ghannouchi finì in esilio. Vent'anni dopo, la rivoluzione dei gelsomini li rilancia sulla scena. «Ci sono stati degli incontri con il primo ministro per discutere la legge di amnistia sui reati politici» ammette senza difficoltà Lourimi. «Questa - aggiunge Hasna la moglie di Lourimi - non è stata una rivolta del pane ma un'intifada per la dignità e i diritti civili». Hasna, insegnante con due figli, è vestita all'occidentale e quando ci salutiamo in Avenue Bourghiba mi allunga la mano istintivamente, sorridente, senza imbarazzo, come non farebbe mai da qualunque altra parte la moglie di un'integralista.
Karima Moual: " Tariq Ramadan: vittoria a metà "
Una caricatura di Tariq Ramadan
«L'alternativa deve avvenire in modo sereno e plurale, naturalmente, ma deve essere radicalmente nuova. La rivolta in Tunisia non può ancora considerarsi una vittoria piena: non basta solo la caduta di un dittatore, il sistema autarchico fondato sul clientelismo e la corruzione deve essere smontato alla radice». Radicale, un totale cambiamento. Nessun compromesso dunque. A commentare gli eventi della rivoluzione del gelsomino che ha sorpreso tutti è Tariq Ramadan, docente della Oxford University, islamista e intellettuale musulmano di fama mondiale. Una voce importante perché seguita e amata ma anche odiata da chi lo vede troppo riformatore di un Islam nuovo e più europeo e da chi, da questa parte del mondo, invece lo dipinge come "il dissimulatore musulmano". In realtà, a sentirlo, appare più che altro un musulmano pensante e parlante, un vero interlocutore alla pari. Una vera creatura e produzione dell'occidente. Un musulmano che parla lo stesso linguaggio di questa parte del mondo, con la stessa buona retorica e diplomazia, che se non si vedesse il suo volto tipicamente mediorientale lo si scambierebbe per un distinto intellettuale di Oxford. Una prova di integrazione ben riuscita. Islam e democrazia in Europa, è questo il tema sullo sfondo affrontato da Tariq Ramadan, nel dibattito tenuto dalla School of Goverment, Luiss Guido Carli. «L'Islam è una religione europea immersa nelle democrazie europee – afferma subito Ramadan per far capire come la pensa –, questo va riconosciuto altrimenti si dà spazio a teorie di scontro di civiltà. Il concetto della cittadinanza dei musulmani in Europa è dunque una realtà – ribadisce Ramadan – l'Islam è parte integrante con i suoi cittadini di prima seconda o addirittura terza generazione in Occidente. È una realtà che deve essere riconosciuta perché non è soltanto la realtà del presente ma anche del nostro futuro. Ecco perché è davvero necessaria un'etica della cittadinanza». Ma che vuol dire essere cittadini? «È paradossale che in Europa, per essere un buon musulmano europeo, è meglio che tu però sia invisibile. Che la tua diversità non venga percepita, che tu per esempio non chieda qualcosa che in qualche modo ti renda diverso. Esempio un luogo di culto». La globalizazzione dunque ci spinge in modo irrimediabilmente incontrollabile alla condivisione, ma la globalizzazione sta avendo anche paradossalmente un blocco rappresentato soprattutto dalle differenti visioni della fede, con al primo posto il "fattore islam" all'interno delle società occidentali. Il fattore Islam mette senz'altro in discussione cosa davvero vogliamo intendere per democrazia, laicità, pluralismo. Perché questi valori si misurano su quanto riusciamo davvero a convivere con il diverso. Ma la globalizzazione è anche quello che è successo in Tunisia: «Un momento storico - dice Ramadan - e sarebbe davvero bello che i movimenti di popolazione, determinati e non violenti, prendessero corpo in tutti quei paesi arabi dove c'è la dittatura e che diventassero un esempio è un percorso per un futuro migliore». E chissà allora se il cambiamento non arriverà proprio dai giovani, dai musulmani europei. Senza interferenze, senza congiunzioni. Solo in questo modo la rivoluzione potrà essere vera. Potrà diventare memoria di un popolo che vive ancora nel vittimismo perché qualcun'altro ha disegnato per lui abiti e nazioni.
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