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La Stampa Rassegna Stampa
22.01.2011 Turchia-UE, una analisi pirandelliana
Marta Dassù, chi la capisce è bravo

Testata: La Stampa
Data: 22 gennaio 2011
Pagina: 19
Autore: Marta Dassù
Titolo: «Ankara-Ue, sposi promessi ma sempre più lontani»

Proponiamo ai lettori un gioco: leggere l'analisi di Marta Dassù che segue e poi provare a riassumerne il contenuto. Chi ci riesce è pregato di comunicarcelo.
L'articolo è sulla STAMPA di oggi, a pag.19, con il titolo "Ankara-Ue, sposi promessi ma sempre più lontani", questo sì, chiaro, ma corrisponderà al contenuto ? Una insalata mista, che vorrebbe aiutare a capire. Dovrebbe.
Eccolo:


Marta Dassù, analista ?

Pensi che la Turchia entrerà nell'Unione europea?» È una domanda un po’ stupida da parte mia, me ne rendo conto. Siamo noi europei ad avere dei dubbi: in teoria, abbiamo avviato da anni i negoziati di adesione con Ankara; in realtà, Francia e Germania hanno già lasciato capire che non accetteranno 80 milioni di turchi nel Parlamento europeo. La porta aperta europea si fonda quindi su un bluff: prima o poi, finiti i rinvii, la verità verrà a galla. Ma è già chiara al mio collega dell' Università Sabanci, a Istanbul: «Non credo che Ankara entrerà nell'Ue», mi risponde tranquillo.

Sono molti anni che ci conosciamo; è la prima volta, tuttavia, che lo sento parlare così, con misurato realismo. Un tempo si arrabbiava, ricordandomi che la Turchia guarda all' Europa da più di mezzo secolo, senza esserne ricambiata. Oggi mi dice che neanche ai cittadini turchi l'adesione interessa più di tanto: il sostegno per l'ingresso nell'Ue è caduto negli anni, fino al 30% o poco più del 2010. Il costo di questo matrimonio mancato, aggiunge subito, ricadrà soprattutto su di voi, gli europei: perché perderete la forza vitale di un'economia in espansione rapida ( + 5% nel 2010), di uno snodo energetico essenziale e di un paese che gioca ormai, sotto il cappello delle teorie «neo-ottomane» del Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, una sua partita peculiare fra Europa e Medio Oriente, fino all'Asia centrale turcofona. Il nuovo spirito imprenditoriale dell'Anatolia si inserisce qui.

Insomma, argomenta gentile ma secco il mio collega di Istanbul: quello che potevamo avere dall'Europa noi lo abbiamo avuto ed usato. Il Partito islamico di Recep Erdogan, in otto anni di potere, ha utilizzato le riforme democratiche chieste da Bruxelles per liberarsi dei militari, garanti storici della laicità kemalista. E a parecchi decenni dalla fine della guerra fredda, gli Stati Uniti e l'Europa non sono più l'alfa e l'omega della geopolitica turca. Basta leggere, per capirlo, «Profondità strategica»: il Trattato del Professor Davutoglu, 600 pagine diventate un bestseller, in cui si spiega che la Turchia deve ormai proiettarsi come potenza autonoma in uno spazio che dai Balcani va verso il Golfo, il Caucaso, il Turkestan orientale. Saranno anche ambizioni esagerate: ma il punto è che la Turchia di oggi non si pensa più come la periferia dell'Europa. E se la trattate come tale, finirete per perderla.

Rifletto su queste parole, mentre penso che la Turchia non abbia tutta quella libertà di azione di cui parla il mio collega di Istanbul. Per ragioni economiche, la Turchia ha certamente bisogno di mantenere gli agganci europei, Germania e Italia sono i suoi primi partner commerciali. E in politica estera, le aperture orientali di Davutoglu - il motto è di avere «zero problemi con i vicini», a cominciare dall' Iran - sono bilanciate dai rapporti con la Nato. Ma mi colpisce che un professore dell'Università Sabanci, che non è mai stato vicino all'Akp di Erdogan, cominci a pensarla così. O almeno a parlare così; perché la realtà è che anche la Turchia bluffa un po’. Prima di tutto perché resta un paese psicologicamente spaccato. Il referendum popolare del settembre scorso ha confermato la popolarità di Erdogan, che punta a trasformare la repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale e che sta preparando le elezioni dell'estate prossima con grande fiducia nelle proprie sorti. Ma la geografia del voto ha anche dimostrato quanto la Turchia europea resti lontana dal cuore asiatico dell'Anatolia e del Mar Nero. Fra la vecchia élite di Istanbul, la diffidenza per le intenzioni future della «democrazia islamica» è ancora palpabile. Pochi sono certi che il partito di governo resterà davvero quello che dice: una variante islamica dei partiti cristiano-democratici del secolo scorso.

Uno scetticismo simile prevale, a giudicare dai sondaggi, nelle opinioni pubbliche del Vecchio Continente. Se si aggiunge che i governi europei restano divisi fra chi frena in modo abbastanza esplicito (Parigi e Berlino), chi tiene aperta la porta (Roma) e chi propende comunque per l'allargamento (Londra), lo stallo è assicurato. Anche se non esistesse, ma esiste, c’è il nodo di Cipro.

Abbiamo perso la Turchia? Gli Stati Uniti, la cui relazione con Ankara è stata danneggiata dall'intervento in Iraq, pensano di sì; e ne attribuiscono la responsabilità principale a noi europei. L'Ue, invece di andare verso una crisi annunciata con Ankara, dovrebbe tornare al punto sostanziale: la Turchia, proprio per realizzare il suo potenziale economico e di potenza democratica emergente, deve avere una sponda europea; e l'Europa deve avere una sponda nella Turchia, se vorrà affrontare con qualche successo le sfide economiche e geopolitiche alle sue frontiere sud-orientali. Ipocrisie e bluff, da entrambe le parti, non servono. Serve una Turchia capace di pensarsi come potenza europea, prima che asiatica; e serve un'Europa capace di risolvere uno dei dilemmi che la sta minando: come continuare ad allargarsi senza indebolirsi.

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