Un lungo ed accurato reportage dallo Yemen sul FOGLIO di oggi, 22/01/2011, a pag. 1-3, di Daniele Raineri, con il titolo " Lo Yemen non è la Tunisia".
Sana’a, dal nostro inviato. Chissà come ha fatto a trattenere le risate davanti a Hillary Clinton, il presidente Ali Abdullah Saleh. No, non perché alla fine della visita il segretario di stato americano si è girato in cima alla scaletta dell’aereo per salutare con gesto ampio della mano l’orizzonte di montagne della capitale ed è caduto all’indietro, capitombolando nella carlinga come in un film muto. Quello sarebbe successo soltanto un’ora più tardi. Saleh deve essere soffocato dalle risate quando Clinton ha detto che l’Amministrazione da Washington guarda con attenzione “la transizione in atto nello Yemen”. Le facciate medievali di arenaria degli edifici che hanno osservato il solito corteolampo di macchine nere americane prima arrivare e poi dileguarsi in meno di quattro ore potrebbero testimoniare: il presidente yemenita e la sua corte di dignitari baffuti sono sempre gli stessi da trentadue anni. C’erano loro durante l’ultima visita di un segretario di stato americano: era il 1990, al tempo di James Baker. Sana’a non è Tunisi e il presidente e i suoi non hanno alcuna intenzione di andarsene. La settimana scorsa l’opposizione si è stracciata le vesti perché dopo un trentennio al potere Saleh ha approvato una modifica costituzionale “unilaterale” che gli permetterà di governare oltre le elezioni del 2013 – ma deve essere ancora ratificata. E’ probabile che il dipartimento di stato fosse già troppo in là con l’organizzazione della missione diplomatica a più tappe nei paesi del Golfo altrimenti, alla notizia di questo colpo indecente di dispotismo, avrebbe annullato la visita di Clinton in Yemen. Invece alla fine ha optato per una formula 3 a 1, il segretario ha passato tre ore con il governo impenitente e una con l’opposizione offesa.Il gran stracciamento di vesti in casa del fronte anti Saleh è stato fatto senza esagerare. Perché di che pasta sia fatta l’opposizione yemenita, e quanta temibile irruenza innovatrice possegga per cacciare il “presidente novanta per cento” e ammodernare un paese ancora in sandali, lo si può leggere nell’editoriale a pagina sei sullo Yemen Post di mercoledì scorso: “Alla luce del giorno i capi dell’opposizione si oppongono pubblicamente al presidente e di notte si incontrano amichevolmente con lui a porte chiuse. Basterebbe una sua telefonata per farli camminare scalzi fino al palazzo presidenziale a elemosinare il poco che il presidente gli offre”. Ma’sha’allah – sia resa gloria ad Allah – che risate: in Yemen la transizione non c’è. Il giorno dopo il ruzzolone di Clinton, governo e opposizione si sono messi d’accordo per rinviare di altri due mesi le elezioni, da aprile a giugno: stanno andando avanti un rinvio dopo l’altro dal febbraio 2009. Questo per quanto riguarda il Palazzo. Per quanto riguarda il popolo e le strade, sulle ruote di scorta appese dietro alle automobili si vede ancora la faccia del grande alleato e amico Saddam Hussein, il rais iracheno giustiziato a Baghdad nel 2006, con i baffi, il basco nero e gli occhiali scuri. Come se tutto il resto del medio oriente – che non brilla per riformismo travolgente, Iraq a parte, ma è tutta un’altra storia – si fosse intanto trascinato avanti. E qui invece nulla. Domenica e lunedì trecento studenti dell’università della capitale hanno manifestato la loro solidarietà con i rivoltosi tunisini, ostentando uno striscione contro il governo: “Vattene, prima di essere cacciato”. Alla loro testa c’era una pasionaria femminista, Tawakkol Barman, presidente di Giornaliste senza catene, un’organizzazione yemenita per i diritti umani.La polizia, in una scalcagnata parvenza di assetto antissomossa, li ha lasciati sfilare per i quasi cinque chilometri fino all’ambasciata tunisina e poi li ha dispersi. La protesta è stata una minuscola bollicina libertaria subito ingoiata dal traffico umano, ovino e stradale di Sana’a e il giorno dopo i giornali non ne recavano traccia. C’erano, invece, un pezzo che consigliava alle donne di presentarsi ai colloqui di lavoro con un abbigliamento appropriato (foto: cinque donne interamente velate di nero e identiche. Mistero: come scegliere allora la candidata?); e un altro sull’inabilità delle donne a testimoniare sui casi di omicidio, e sulla loro competenza – secondo un avvocato della consulta ministeriale intervistato – a testimoniare invece su materie femminili “come l’allattamento al seno, il parto, le mestruazioni e la verginità”. Saleh è campione in carica della specialità dei leader mediorientali: “Mantieni inalterato lo status quo, non cambiarlo neanche di una virgola, e camperai cent’anni”. All’interno funziona, e pazienza se all’esterno la credibilità è scarsa. Mark Landler ha scritto sul New York Times che Clinton “ha fatto scalo in tutti i regimi del Golfo, dall’autocratico Yemen al più aperto sultanato dell’Oman”. Il presidente riesce ancora a far apparire la sola Repubblica in tutta la penisola araba persino più chiusa e autoritaria dell’Oman, che è un sultanato. Dove comanda un sultano aggrappato al trono da più tempo di Saleh. E’ il modello arabo di sistema stagnante: è capace di reggere immobile per decenni, ma intanto nutre sotto la superficie le larve che lo distruggeranno. In Tunisia sono state le rivolte dal basso dei ragazzi per la mancanza di pane e di lavoro e contro Zine el Abidine Ben Ali. In Yemen la crisi inevitabile sarà la mancanza di acqua e l’esaurirsi del poco petrolio: le falde sotto gli altipiani rocciosi nel centro del paese si stanno inesorabilmente abbassando, e nel giro di qualche anno cominceranno a lasciare a secco anche la capitale Sana’a e i suoi quasi due milioni di abitanti. E seduta in cima a questa crisi da fine del mondo c’è una nuova generazione di combattenti di al Qaida, di qualità assai migliore rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Soldi americani e soldati inglesi Per ora sono gli yemeniti a osservare con un bagliore di pigrizia famelica negli occhi l’incredibile interesse nei loro confronti da parte degli americani. Da quando uno studente nigeriano istruito dai capi locali di al Qaida ha tentato di farsi esplodere su un volo di Natale per Detroit e da quando i suoi capi ci hanno riprovato con la spedizione di pacchi bomba su aerei di linea, “Yemen is the new black”: è diventato il nome che fa drizzare le antenne a Washington, il nuovo posto dove concentrare l’attenzione e gli interventi. Eccola la transizione, il decollo della curva degli aiuti americani. Nel 2006: 4 milioni di dollari. Nel 2008: 22 milioni di dollari. Nel 2010: 310 milioni di dollari. Nel 2011 appena cominciato, per quanto riguarda gli aiuti militari – che di solito sono metà del totale – la previsione è già di 250 milioni di dollari. Nel sud della penisola araba si pranza con tre dollari e si compra liberamente un fucile d’assalto per 200 dollari. E siccome i soldi non possono essere spediti così soli così lontano, sul campo c’è un flusso continuo di uomini del governo e di agenti americani che è impossibile non notare. Nella piccola sala d’arrivo dell’aeroporto internazionale di Sana’a il transito è quello di due altri scali capitali del medio oriente, Baghdad e Kuwait City. Funzionari del dipartimento di stato con la divisa ufficiosa da americano assegnato a un paese arabo, ovvero camicia a scacchi fuori dai pantaloni e pantaloni beige, accolti da altri americani con i capelli rasati e gli avambracci nodosi. Nessuno finge di essere un turista. Per inciso, i funzionari yemeniti addetti al controllo dei bagagli sono inquisitori e guardinghi anche con l’unico volo diretto che arriva ogni settimana dall’Italia. Il rischio che dall’esterno si contrabbandi una bomba dentro il paese dev’essere altissimo. La corsa americana verso lo Yemen è anche una questione privata. Almeno 36 detenuti che si sono convertiti all’islam in carcere, appena liberi negli Stati Uniti, hanno scelto di venire in Yemen per imparare l’arabo e fare perdere le proprie tracce. Secondo fonti militari, una cinquantina di cittadini con passaporto americano è nel paese assieme agli uomini di al Qaida. Dodici sono stati catturati e sono nelle prigioni di Sana’a. Lo ha riconosciuto anche Hillary durante la sua visita breve: “Sappiamo che purtroppo ci sono americani nello Yemen che hanno scelto di stare con i terroristi”. E anche, ma questo non c’è quasi nemmeno più bisogno di specificarlo, assieme a loro ci sarebbero volontari europei di Francia e Gran Bretagna. Ci sono fascinazioni meno radicali. Le scuole di arabo della capitale sono frequentate da ragazzi e ragazze americani che riempiono quadernoni da destra verso sinistra di interminabili declinazioni di tempi e modi verbali. “Siamo stanche dello stereotipo dell’americano che non capisce nulla dei paesi arabi”, dicono Mandy e Mallory che, quando non sono al riparo del giardino ombroso dove fanno i compiti, girano totalmente velate di nero – soltanto gli occhi scoperti – come tutte le altre donne. iPhone sotto e niqab sopra. Non è il momento economico migliore per sprecare anni di vita e istruzione in Yemen, sicure della scelta? “In realtà qui vorremmo anche trovare lavoro”. Claire è una traduttrice francese, di solito lavora con la lingua urdu in Kashmir. Lei non approva la yemenizzazione mimetica delle colleghe americane, “se fai così la gente finisce per trattarti davvero come una yemenita, ovvero ti ignora, e se sei isolata non impari più nulla”. Ma anche lei, prima di mettere piede fuori, confonde le forme sotto un mantello e copre i capelli con uno scialle. Se al Palazzo di Sana’a hanno scelto l’immobilità, a Washington l’uomo della pioggia di dollari, il presidente che ha centuplicato il denaro americano in arrivo sull’antico regno della regina di Saba, non è ancora certo su quale strategia adottare – è una cosa che gli succede anche in altri campi della politica estera. Da una spalla gli soffia dentro l’orecchio l’opzione cattiva. Droni e forze speciali dappertutto, per incenerire i terroristi. Come su un secondo Pakistan, anzi peggio – perché il conteggio ufficiale assegna al Pakistan trecento operativi di al Qaida, e allo Yemen settecento. Il Times di Londra ha riportato la notizia, subito smentita da una nota melliflua del ministero degli Esteri yemenita, dell’invio di squadre di forze speciali americane e inglesi nelle province più violente (notizia che il Telegraph aveva già a gennaio 2010. Nel prossimo libro di Bob Woodward o alla prossima tornata di Wikileaks, scopriremo di nuovo quello che già si sa: da qualche parte nello Yemen ci sono commando americani e britannici. Per ora, dimenticare). Dall’altro lato soffia l’opzione buona, di cui ha parlato Clinton durante il suo blitz diplomatico: aiutare lo Yemen con un programma di aiuti misto – civile e militare – così massiccio da battere la presenza di al Qaida. “Vi innamorerete di Sana’a” L’opzione violenta (meglio: quella più violenta) è quella che ha meno probabilità di prevalere nella testa del presidente – a meno che non succeda un attentato catastrofico negli Stati Uniti. “Se pensate che l’Afghanistan sia un bel buco di fogna, allora vi innamorerete dello Yemen. E se pensate che Karzai sia un alleato corrotto e inaffidabile, allora vi innamorerete anche di Saleh”, riassume la questione l’analista Marc Lynch su Foreign Policy. Il paese è un combinato degli incubi militari dell’America dopo l’11 settembre. Lanciare un’offensiva con i droni – presenza costante e occhiuta nei cieli yemeniti, ma di solito sono soltanto in osservazione – potrebbe essere controproducente nel migliore dei casi, oppure un disastro. In realtà, il disastro è già avvenuto. Il 24 maggio, un drone americano ha sparato un misdi al Qaida, Muhammad Said Bin Jardane. Lui è riuscito a scappare un secondo prima e se l’è cavata con poche ferite. Ma sotto le macerie di casa sua è rimasto il vicegovernatore della provincia di Marib, con l’intera scorta di cinque uomini, venuto dopo una settimana di trattative a finalizzare l’accordo che avrebbe persuaso Bin Jardane a consegnarsi e a chiedere la clemenza del governo. Offesissimi, i clan locali hanno montato una furiosa rivolta popolare durata una decina di giorni, attaccando i palazzi del governo e dell’esercito – e persino un campo dell’aviazione militare – nel capoluogo Marib. Un alto ufficiale yemenita è stato ucciso per rappresaglia. Da maggio, gli americani sembra che abbiano perso la voglia di colpire. Ora arrivano i turchi L’opzione morbida presenta anch’essa i suoi problemi. I dollari sono difficili da controllare e rischiano di gonfiare il bubbone, piuttosto che di curarlo. Margaret Coker è una reporter del Wall Street Journal di base ad Abu Dhabi che due settimane fa ha scoperto che il governo yemenita affitta le motovedette ricevute in dono dagli americani per la lotta al terrorismo alle compagnie private di navigazione che transitano nel Golfo di Aden, come protezione contro i pirati. E affittano naturalmente anche i marinai, addestrati con programmi costosi da Washington. La marina militare a noleggio sorveglia le portacontainer e non si cura del resto. Gli alti gradi delle Forze armate hanno bofonchiato che gli incassi “non vanno sul conto personale di nessuno”, ma la questione è sospetta ed è stata insabbiata in fretta. Se accade con un programma militare tutto sommato non centrale, chissà che cosa potrebbe succedere con il resto. Washington e Sana’a. Come si dice in questi casi: sarà una relazione appagante e complessa. Senza contare che il denaro e gli aiuti non assicureranno la lealtà di Sana’a. Che intanto riceve armi dalla Russia, stringe accordi con i cinesi e si dichiara sempre disponibile a nuove amicizie. Lo stesso giorno della visita della Clinton, per le strade piene di soldati della capitale garrivano le bandiere turche rosse con la mezzaluna bianca in omaggio alla delegazione in visita del presidente Abdullah Gül, con duecento imprenditori al seguito. Gül è andato al cimitero ottomano ed è scoppiato platealmente in lacrime quando la banda yemenita ha intonato una canzone sui caduti per difendere i confini dell’impero. Il turco ha anche firmato una serie di accordi cruciali, tra cui uno sull’espansione della collaborazione militare e un altro che elimina l’obbligo di visto tra i due paesi. Anche Gül ha detto che Ankara “tiene d’occhio la transizione”. Forse è diventata una frase in codice, o una formula rituale per chi sbarca nello Yemen. Dietro a Gül, c’era anche il suo ministro degli Esteri, Ahmed Davutoglu, gran teorico della rinascita ottomana, che poi ha proseguito su un altro volo per Baghdad. “Finalmente qualcuno rompe l’isolamento a cui siamo condannati dopo i pacchi bomba”, hanno commentato i giornali locali pubblicando foto di Gül più grandi di quelle della Clinton. E’ chiaro che qui si gioca su tanti tavoli, e ora c’è pure quello neo ottomano.
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