Ogni promessa è debito (ma non per tutti)
di Federico Steinhaus
Federico Steinhaus
Vale la pena di riprendere l’argomento del flusso di denaro che vari donatori – principalmente gli Stati Uniti, l’Unione Europea, le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, paesi arabi, ma anche innumerevoli ONG – fanno affluire nelle casse dell’Autorità Palestinese per fare una riflessione sulla divaricazione esistente fra le aspettative dei finanziatori e la realtà locale.
Dal 1994, si legge nel più recente rapporto dell’ex ambasciatore Yoram Ettinger (theettingerreport.com), l’Autorità Palestinese ha ricevuto il più elevato aiuto pro capite del mondo, raggiungendo il 60% del PIL; ciò malgrado le donazioni sono aumentate del 20% nel 2009 e 2010 (l’aumento delle donazioni è stato graduale dal 2007, l’anno in cui Hamas si è impadronito di Gaza, in cui coprivano il 10,47% del PIL) con quasi 4 miliardi di dollari all’anno. Per ogni cittadino l’Autorità Palestinese riceve 1000 dollari all’anno in media, che corrispondono a circa 560 dollari al mese per ogni famiglia.
Senza queste donazioni, si evince dai dati, l’economia palestinese collasserebbe; infatti, questi miliardi di dollari non vengono utilizzati per sostenere una crescita economica, una cultura imprenditoriale, una propensione al rischio d’impresa, in altri termini un processo di utilizzo programmato delle risorse disponibili e di creazione di infrastrutture che incidano sul tasso di disoccupazione, ma vengono dirottati verso la copertura dei costi della politica e della burocrazia. Una classe politica e burocratica corrotta ed inefficiente si autosostiene, delegando persino la raccolta delle tasse (per il 77%) al ministero delle Finanze d’Israele.
Elusa in tal modo una delle finalità essenziali sulle quali si poggia il concetto degli aiuti internazionali, vediamo cosa succede della seconda, che punta al processo di democratizzazione dell’Autorità Palestinese in vista della convivenza pacifica di uno stato palestinese a fianco di quello israeliano.
Tra gli esempi più recenti di distorsione e manipolazione della verità ne citiamo alcuni, ricordando che essi fanno parte di una strategia oramai vecchia di almeno 10 anni.
Da un quiz della televisione palestinese per studenti universitari, finanziato dall’Unione Europea: le risposte dichiarate giuste a domande poste sulla lunghezza delle coste palestinesi (235 KM, da Gaza al Libano), su una città costiera palestinese (Haifa), sulla dimensione della Palestina (27.000 Kmq) in realtà contemplavano che Israele non esistesse (maggio-giugno 2010).
Il canale televisivo Al Aqsa TV, gestito da Hamas,ha chiesto a nome di Allah di uccidere ebrei, cristiani e comunisti “fino all’ultimo”, esattamente come faceva anche Fatah dal 2000 in poi (3 dicembre 2010).
Tiberiade è una città nel nord della Palestina, vicina al confine della Palestina con Libano e Siria: lo ha affermato la televisione palestinese il 23 novembre 2010.
Alla televisione palestinese lo scrittore Samih Ghanadreh ha ricordato che “il martire” Arafat afermava sempre che Gesù era stato il primo martire palestinese ed il conduttore ha replicato che nessuno lo nega (3 dicembre 2010); nel suo sito un comunicato ufficiale dell’Autorità per la Comunicazione e l’Educazione di Fatah ha anche affermato che “La Vergine Maria fa parte della nazione palestinese “ (palvoice.com/index.php?id=23043) ed il Muftì Muhammad Hussein ha proclamato che “Gesù è nato in questa terra; Lui e sua madre...erano i palestinesi per eccellenza” (TV dell’Autorità Palestinese, 12 maggio 2009).
Il direttore generale dell’ufficio del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, Abd Al-Rahim, ha affermato che Israele aveva orchestrato la guerra civile in Libano, la divisione del Sudan, i disordini nello Yemen, il massacro di cristiani in Iraq (Al-Hayat Al-Jadida, quotidiano ufficiale dell’Autorità Palestinese, 4 gennaio 2011).
Ciò che desta meraviglia, in questo desolante panorama di menzogne e di odio, è che alla fine dello scorso anno una squadra giovanile di calcio palestinese di una località vicina a Hebron abbia ospitato una squadra giovanile israeliana, per una partita amichevole di calcio finanziata dall’Unione Europea e dalla squadra Hapoel di Tel Aviv. Se è vero che non c’è limite agli abissi dell’odio, a quanto pare, non vi è neppure limite alla speranza.