Edith Pearlmen, un nome da scoprire. Lo rivela l'intervista di Alessandra Farkas sul CORRIERE della SERA di oggi, 18/01/2011, a pag.41, con il titolo "La scrittrice che sorprende l'America".



Edith Pearlman la copertina Alessandra Farkas
NEW YORK — Nel recensire Binocular Vision: New and Selected Stories di Edith Pearlman la critica dell’influente «Sunday Book Review» del «New York Times» si chiede sbigottita «come sia possibile che né io né voi abbiamo mai sentito parlare di un’autrice di simile talento» . Due giorni più tardi è toccato al «Los Angeles Times» : «Lo confesso, è colpa mia se prima di leggere la sua raccolta di 34 racconti frutto di oltre tre decenni ignoravo chi fosse Edith Pearlman» , le fa eco il critico David L. Ulin; «ma se l’avessi conosciuta prima» , si corregge subito, «sarei stato privato dell’immensa gioia di scoprire una scrittrice tanto straordinaria» . Le due recensioni hanno innescato un’incontenibile reazione a catena, spingendo anche il «Boston Globe» — e poi dozzine di siti Web— a dichiarare Edith Pearlman «la grande scoperta letteraria dell’anno» , «il nuovo genio della prosa» che nelle sue esplorazioni si serve di una gamma enorme di tematiche che abbracciano continenti e nazioni— Europa e Stati Uniti, Sud America e Israele— e 65 anni di storia, dall’Olocausto a oggi. E qualcuno è arrivato a paragonarla addirittura a John Updike e Alice Munro. Ma dalla sua casa di Brookline, in Massachusetts, la diretta interessata getta acqua sul fuoco. «Sono nata a Rhode Island nel 1936 e dal giorno del mio matrimonio, nel 1967, non ho mai smesso di scrivere. Anche se tutta questa eccitazione dei critici dovesse risolversi in una fiammata, continuerò a fare ciò che ho sempre fatto. E che mi ha resa una donna felice» .
Ora si accorgerà di lei anche l’Europa, compresa l’Italia.
«Mario Materassi, docente di Storia della letteratura degli Stati Uniti all’Università di Firenze, ha tradotto uno dei miei racconti durante uno dei suoi corsi. Ovviamente sarei felicissima di portare in Italia un intero libro» .
Si è data una spiegazione di questa improvvisa esplosione di attenzione in America?
«La mia casa editrice è stata brava a mandare in giro il libro. Nella ristretta cerchia della letteratura non commerciale sono peraltro nota da anni e ho anche vinto diversi premi. Però non mi sono certo mantenuta con la scarsa vendita dei miei libri e se non fosse stato per la generosità di mio marito medico non avrei potuto dedicarmi ai figli né fare volontariato» .
Volontariato?
«Ho lavorato per anni, senza retribuzione, nelle mense dei poveri e negli ospedali pediatrici, come del resto i miei genitori e mio marito prima di me. Appartengo a quella generazione di ebrei americani, pre-baby boomer, che credevano nel servizio pubblico e nella responsabilità collettiva perché volevano restituire qualcosa all’America che ci aveva accolti a braccia aperte quando il resto del mondo non ci voleva. L’individualismo e l’arrivismo sfrenati di oggi allora erano impensabili» .
I critici lodano le fini qualità della sua prosa.
«Stanno riscoprendo la scrittura "all’antica"perché stufi dell’avanguardia e della sperimentazione. Della scrittura sciatta e minimalista che si occupa di drammi troppo domestici, che tra cento anni nessuno ricorderà. Anche per questo non leggo molti contemporanei, come Jonathan Franzen e Elizabeth Strout, aspettando che sia la storia a decidere quanto grandi sono davvero» .
Quali sono i suoi modelli letterari?
«I miei genitori, entrambi di origine russa, e le mie zie paterne che insegnavano letteratura inglese nelle scuole pubbliche. All’università mi sono laureata in letteratura e da allora il mio pane quotidiano si chiama Charles Dickens. Amo molto anche A. S. Byatt e Penelope Fitzgerald, che come me ha pubblicato il suo primo libro a 60 anni. La riprova che anch’io— erede di una famiglia longeva di centenari — potrei avere di fronte una lunga carriera letteraria» .
Tra i contemporanei chi le piace?
«Alice Munro, Jhumpa Lahiri e Johanna Kaplan che dopo aver scritto il capolavoro Oh My America! trent’anni fa, è scomparsa. Mi mancano tanto Updike e Salinger e vorrei che il talentuoso Chris Adrian fosse più conosciuto. Tra gli autori cosiddetti ebrei il mio preferito è Malamud, mentre di Philip Roth apprezzo i primi lavori ma meno gli ultimi» .
E Saul Bellow?
«È stato per anni mio vicino di casa. Negli ultimi tempi era molto invecchiato e alla fine non so neppure se mi riconoscesse più. Lo vedevo passeggiare sempre con la sua giovanissima moglie e la loro bambinetta» .
Come mai nei suoi racconti il tema dell’esilio e della perdita sono ricorrenti? «Pur essendo nata in America penso che in fondo siamo tutti esiliati, fisicamente o emotivamente. Il mio nuovo racconto parla di una donna che scappa dall’infelicità esistenziale rifugiandosi nello studio delle farfalle» .
Quali temi le interessa esplorare a questo punto della sua vita?
«Sono affascinata dai cosiddetti "asessuati normali", persone celibi per scelta il cui totale disinteresse per il sesso non è affatto da intendersi come patologia. La letteratura continua a ignorarli o a trattarli come deviati criminali. In realtà la maggior parte di loro sono persone normalissime che vivono esistenze solitarie e felici. Ne ho conosciute tante e voglio raccontare la loro storia»
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