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Il Giornale Rassegna Stampa
17.01.2011 La rivoluzione tunisina rischia di contagiare l'Egitto
Cronaca di Gian Micalessin

Testata: Il Giornale
Data: 17 gennaio 2011
Pagina: 13
Autore: Gian Micalessin
Titolo: «Anche l'Egitto ora rischia una rivolta popolare»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 17/01/2011, a pag. 13, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo "Anche l'Egitto ora rischia una rivolta popolare".


Hosni Mubarak

Sulla situazione in Tunisia, IC pubblicherà domanil'analisi di Zvi Mazel in uscita oggi sul Jerusalem Post.
Ecco il pezzo di Gian Micalessin:

E ora trema anche il Faraone. Trema Washington. Tremano le altre nazioni del Medioriente sunnita. Se Ben Alì è precipitato così in fretta quanto potrà ancora durare, si chiedono in tanti, l’82enne Hosni Mubarak, un autocrate che - ancor più del presidente tunisino - ha gestito la nazione come una riserva personale, dispensando i suoi favori a una ristretta élite ed esercitando un controllo totale sui 5miliardi di dollari in aiuti economici e i 18 miliardi in aiuti militari passatigli dagli Stati Uniti negli ultimi 9 anni. Non molto dicono le previsioni. E a corroborarle contribuisce la storiella più raccontata all’ombra delle piramidi, quella che vuole l’aereo di Ben Ali pronto a ridecollare alla volta del Cairo per dare un passaggio anche all’amico Hosni. Sul piano geopolitico c’è poco da scherzare. La caduta dell’Egitto non provocherebbe solo incertezza come quella di Tunisi. Un tonfo di Mubarak sarebbe un terremoto per l’intero Medioriente. Aprirebbe altri spazi all’Iran, spingerebbe ancor più in trincea Israele, risveglierebbe le ambizioni di un terrore fondamentalista che in Egitto ha svezzato il numero due di Al Qaida Ayman al Zawahiri, ha fatto fuori un presidente come Anwar Sadat e ha seminato morte e sangue per tutti gli anni 80 e 90. Un terrore fondamentalista ridimensionato, schiacciato, ma non cancellato. La vittoria di Mubarak, del vice presidente rialzatosi incolume tra le poltrone insanguinate nel giorno dell’assassinio di Sadat, è stata il frutto d’una repressione spietata condotta calpestando per anni leggi e diritti umani. Una repressione capace di disinnescare la bomba, ma non di disperderne le polveri. Oggi quelle polveri sono ancora lì, attendono solo che qualcuno torni ad accenderlo. Nelle galere di regime languono almeno 80mila prigionieri politici. Fuori la situazione non è certo migliore. Dalla periferia di Alessandria fino al sud l’opposizione integralista si divide tra i fratelli musulmani, gruppo storico del fondamentalismo sunnita, e le formazioni «alqaidiste». Costretti alle elezioni del 2005 a presentarsi come indipendenti e senza simboli di partito, i fratelli musulmani sono riusciti tuttavia a conquistare il 20% dei seggi parlamentari. Quel dato, conseguito in barba alle severe limitazioni, fa intravvedere il rischio di una loro rapida ascesa in caso di caduta del faraone. Ma la Fratellanza Musulmana non è neanche il rischio maggiore. Quel che più preoccupa l’intelligence occidentale è un «effetto Hamas», ovvero il tentativo iraniano d’infiltrare - come a Gaza - il movimento fondamentalista, dividerlo e infine sottrarlo al controllo del potere sunnita alimentando i gruppi alqaidisti già attivi nel Sinai. Quella frattura infiammerebbe il paese trasformandolo, nel dopo Moubarak, in un’incontrollabile Somalia Medio Orientale. Un incubo capace - grazie all’inevitabile chiusura dello stretto di Suez - di paralizzare i commerci e l’economia dell’Europa. E non solo. Tolto di gioco l’Egitto l’unica nazione sunnita capace di contrastare l’egemonia di Teheran sulla regione sarebbe il regno saudita. L’aspetto più preoccupante in questo drammatico scenario è l’apatia del senescente faraone. Nonostante le malattie e gli acciacchi sempre più frequenti Moubarak sembra non aver deciso se passare lo scettro al figlio Gamal o continuare a tener stretto il potere. E la totale mancanza di alternative è altrettanto grave. Il Nobel per pace Mohammed El Baradei, rientrato dopo la fine del mandato all’Aiea con il sogno di metter le mani sulla successione, non sembra per ora disporre di consensi e appoggi sufficienti. Del resto in un paese dove Mukhabarat (servizi segreti) e forze di sicurezza ingoiano ogni anno un miliardo e mezzo di dollari e controllano un apparato quattro volte più vasto dell’esercito è difficile dar vita ad un opposizione capace di contrastare il regime. E neppure un’apparato tanto massiccio e pervasivo potrebbe essere in grado di prevenire il caos del dopo Faraone. Il suo capo indiscusso, quel generale Omar Suleiman depositario e custode da 17 anni di tutti i segreti della regione, ha ormai passato la soglia dei 75 e rischia di non sopravvivere alla caduta del proprio capo.

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