Hamas, potere e soldi, altro che crisi umanitaria! L'analisi di Federico Steinhaus
Testata: Informazione Corretta Data: 16 gennaio 2011 Pagina: 1 Autore: Federico Steinhaus Titolo: «Hamas, potere e soldi, altro che crisi umanitaria!»
"Hamas, potere e soldi, altro che crisi umanitaria! "
Lo scorso 8 gennaio Il Foglio ha pubblicato una breve sintesi del turbinoso giro di soldi che ruota attorno a Hamas ed a Gaza che, diceva il redazionale, è tutt’altro che una “fogna a cielo aperto”. Il 13 gennaio Jerusalem Post ha pubblicato a sua volta una lunga ed accurata analisi di questi flussi di denaro realizzata dal Washington Institute for Near East Policy mediante aggregazioni ed estrapolazioni dei dati che affluiscono al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, all’ONU, all’Unione Europea e raffrontandole con dichiarazioni delle varie autorità palestinesi. Vale dunque la pena di addentrarsi in questi dettagliati resoconti, che illustrano come Hamas sia diventato, dal 2005 ad oggi, un agglomerato di potere incontrollabile, che premia i suoi fedeli, punisce gli avversari, e di tutto ciò lascia ogni responsabilità politica ad una inefficiente Autorità Palestinese. I dati che seguono sono dunque delle approssimazioni, la fonte delle quali è peraltro molto affidabile. Il FMI ha stimato la crescita del PIL di Gaza del 2009 al 12%, una cifra che farebbe invidia anche alla Cina ed all’India. Il PIL complessivo di Gaza e della Cisgiordania ammontava nel 2009 a 7 miliardi di dollari, con un gap fra le due regioni del 48%; pertanto, analizzando anche altri dati, il PIL pro capite a Gaza era di 1.400 $, in gran parte derivante da versamenti che provengono dall’Autorità Palestinese. Ma di fatto, aggiungendo le rimesse ed i trasferimenti, il PIL pro capite raggiungeva i 2.100 dollari. Questi dati tuttavia non traggono origine da attività economiche produttive e la disoccupazione è attorno al 30%. Risulta da questa analisi che la maggior parte del commercio di Gaza si svolge attraverso i circa 800 tunnel che collegano Gaza all’Egitto: ogni anno vi transitano merci per 600-850 milioni di dollari, principalmente carburante e cemento. Per converso da Gaza escono (anche mediante trasferimenti bancari) circa 750 milioni di dollari ogni anno, in parte per i pagamenti delle merci contrabbandate ed in parte verso paradisi fiscali nel Golfo Persico ed in Europa. Eppure, malgrado questi ingenti flussi di denaro verso l’estero, le banche di Gaza hanno un tale eccesso di contante da aver dovuto chiedere – nel febbraio 2009 – di poter depositare le loro riserve....nella Banca d’Israele! Questa enorme massa di denaro contante entra a Gaza attraverso i trasferimenti bancari, piuttosto che attraverso i tunnel: dal 2007 una media di 2 miliardi di dollari all’anno. Oltre a ciò ed oltre a quanto arriva dall’Autorità Palestinese (il 54% del bilancio, afferma il primo ministro palestinese), l’ UNRWA trasferisce ogni anno 200 milioni di dollari in contanti e merci per un valore di 250 milioni di dollari; governi, istituti internazionali quali la Banca Mondiale, e 160 ONG provvedono al resto. Ovviamente il mistero più fitto circonda questi flussi di denaro e merci; valga per tutte la stima discordante di quanto paga l’Iran ogni anno, che per l’intelligence militare israeliana è di 100 milioni di dollari all’anno, versati principalmente all’ufficio politico di Hamas a Damasco per l’acquisto di armi, mentre per il presidente palestinese Abbas questa stima oscilla fra 250 e 500 milioni di dollari (il proprio bilancio ufficiale dichiarato da Hamas per il 2010 è di 540 milioni di dollari, ed era di appena 40 milioni di dollari nel 2006). Hamas ha anche entrate per 250 milioni di dollari all’anno attraverso un sistema di tassazione molto esoso ed un controllo accurato di ogni forma, anche minima, di attività economica (incluso il contrabbando attraverso i tunnel). Quest’ultima voce delle entrate doganali si è comunque notevolmente ridotta dal giugno 2010, da quando cioè Israele ha quadruplicato i permessi di entrata a Gaza per le merci trasportate via terra; Hamas è corso ai ripari colmando questo calo con l’imposizione di nuove tasse o l’aumento di quelle esistenti. I fondi per la ricostruzione, ad esempio, affluiscono quasi interamente nelle casse di Hamas, che possiede i macchinari pesanti necessari e li affitta ai costruttori privati a giornata. Non deve meravigliare che Hamas riesca a beffare tutti i sistemi di monitoraggio messi in atto in molte parti del mondo arabo ed in occidente per impedire che gli aiuti internazionali vadano a finire in tasche improprie. Hamas, oltre a pagare almeno 300 milioni di dollari all’anno ai propri dipendenti civili e militari, si è trasformato in una holding privata di proporzioni (per quella regione) gigantesche: la Banca Islamica, la compagnia di assicurazioni al-Multazim, progettazione di case, possesso e gestione di alberghi e di un centro commerciale, luoghi di villeggiatura, fattorie agricole, un’azienda di pesca, le spiagge di Gaza. Tutto ciò ha trasformato Hamas in un impero monopolistico che detta le leggi che regolano il valore dei beni, impone a privati cessioni a condizioni di favore, esclude la concorrenza. Ne possiamo trarre delle conclusioni? No, perché il consolidamento di Hamas non corrisponde ad un eguale radicamento delle sue fondanti visioni politico-ideologiche; no, perché la guida estremista dell’ufficio politico con sede a Damasco punta all’eliminazione di Israele mentre l’Autorità Palestinese è incline (malgrado il suo conclamato radicalismo e l’esaltazione costante del martirologio jihadista) a soluzioni di compromesso politico; no, perché i regimi arabi avversari di Hamas sono in una fase delicata di transizione – la Tunisia insegna – e potrebbero modificare il loro atteggiamento; no, perché Hamas stesso non ha il completo controllo di Gaza e vi agiscono movimenti più bellicosi che bomabrdano Israele coi kassam malgrado i richiami all’ordine di Hamas. No, infine, perché la decisione di Hezbollah di ritirare i suoi 10 ministri (più un altro non appartenente al movimento) dal governo libanese alla vigilia della sentenza del tribunale internazionale sull’assassinio di Hariri rappresenta una pesante incognita anche per quanto Siria ed Iran potranno fare se Hezbollah tentasse di impadronirsi del Libano. Gli analisti internazionali non sanno delineare uno scenario plausibile per l’immediato futuro, e lo stesso governo israeliano sta, per ora, alla finestra ad osservare. Ma sembra comunque evidente che la febbre stia salendo nella regione e che il rischio di conflitti armati di tipo insurrezionale costituisca una minaccia anche per la stabilità internazionale.