La Bibbia ha detto il vero: i resti di un uomo di 400 mila anni fa ritrovati in Israele Commento di Alessandro Schwed
Testata: Il Foglio Data: 14 gennaio 2011 Pagina: 6 Autore: Alessandro Schwed Titolo: «Il sapiens di nome Adamo»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/01/2011, a pag. I, l'articolo di Alessandro Schwed dal titolo "Il sapiens di nome Adamo".
Alessandro Schwed Michelangelo, creazione
Se le cose stanno così, Genesi deve essere riconsiderato. Non è più il testo allegorico dell’inizio del mondo e della presenza umana, ma un diario storico-geografico. Di questo ci parlerebbe, se sapessimo che c’è stata, la grandiosa scoperta dell’archeologia israeliana negli ultimi giorni del 2010: il rinvenimento dei resti di un Homo Sapiens vissuto quattrocentomila anni fa. Gli ancestrali molari di un tale che magari era Adamo. I denti del nostro potenziale progenitore si trovavano in una cava presso Rosh Haayin, nella parte centrale di Israele. Però la ragguardevole notizia è sparita e non ne discutiamo. Non è sparita per cattiva volontà, è che i media non hanno la sensibilità antropologica per assorbire la notizia dell’improvvisa veridicità delle storie di Genesi, e accade come con le allergie alimentari che respingono un cibo a prescindere dal fatto che sia un manicaretto. Il nodo decisivo del ritrovamento deriva dal fatto che i quattrocentomila anni del Sapiens israeliano sono il doppio dei duecentomila del Sapiens africano, finora archiviato come il più antico. Se le analisi in corso lo confermeranno, il racconto dell’Eden, che Genesi colloca fra il Tigri, l’Eufrate e due fiumi sconosciuti, combacerebbe con la realtà antropologica e geografica chiamata Israele e più in generale con la regione mesopotamica. Oppure, detto alla Cormac McCarthy, la Bibbia, quel volume che galleggia nei comodini degli alberghi americani, a un tratto racconta in diretta la prima vicenda umana. Non ci interessa tanto che facesse l’Homo Sapiens nelle sue ore; e se come racconta Kubrik in “2001, Odissea nello spazio” raccattasse un osso da terra e spaccasse la testa ai simili che gli contendevano la pozza d’acqua; né che ciò avvenisse proprio sotto la grotta dove la notte giaceva ammucchiato coi suoi: vecchi, coetanei, madri, dei bambini figli di tutti quanti. E neanche sapere che un Sapiens, o il succedaneo, il Sapiens Sapiens, stesse meditativo a fissare la luna imprendibile, falce un giorno e tonda qualche tempo dopo. Il fatto è che la Bibbia a un tratto esce dalla nebbia dell’allegoria ed entra nella luce solare, e noi esseri umani, i destinatari comuni di una storia di cui il Libro sarebbe bussola e orologio, dobbiamo cogliere l’occasione. Raziocinare. Riferendosi alla recente scoperta, il rabbino Disegni fa notare come la definizione stessa di Homo Sapiens potrebbe ispirarsi alla traduzione latina della Bibbia dove compare una volta in Proverbi, 20.5, per tradurre l’espressione ebraica “ish tevunà”, uomo di sapienza. Se ci fossimo per davvero orientati, Proverbi, 20.5 è il passo in cui è scritto che l’uomo saggio non si lascia ubriacare – il che, riferito all’esistenza reale dei luoghi di Adamo ed Eva, ha il sapore di una sbornia di quattrocentomila anni, a causa della quale abbiamo dimenticato l’indirizzo di casa. Mentre l’indirizzo c’è. Per ritrovarlo, dovremmo riprendere in mano il Genesi e interrogare i suoi punti oscuri che dunque non sono parole esoteriche, ma incrostazioni e magari cadute del testo che offuscano la lettura: sul racconto dell’Inizio è finita la polvere di quattrocentomila anni – è questa la data esatta dell’oblio. L’oblio della cacciata dal Giardino, dal sogno di una preesistente felicità. Tempo indimenticabile ma dimenticato, per quanto sia stato dipinto e raccontato infinite volte. Se il Genesi è storia e geografia, non è un fatto religioso chiedersi che avvenne ai giorni di Adamo ed Eva. Quei due che ci furono davvero. Pare che tutto fosse meravigliosamente a portata: l’acqua di quel gran fiume da cui originano i fiumi; la frutta su alberi verso i quali bastava alzare la mano; il clima, grazie al quale non c’era esigenza di coprirsi – da nudi si stava bene. Finché non sopraggiunse una specie di risveglio violento, la mente dell’uomo cessò di trasognare. Si accese. Scoprì il piacere e che il piacere porta al concepimento di figli, e che dunque il gioco non è solo gioco ma molto di più; e che allora le creature che volano, nuotano, galoppano, e noi altri, non nasciamo perché c’è la pioggia o passa un airone, ma in seguito alla congiunzione tra la donna e l’uomo, avendo la donna notato e raccontato che tutte le volte che lei e lui giacciono insieme e il suo ciclo si interrompe, c’è una gravidanza. E sempre di un risveglio violento deve aver fatto parte la scoperta che la vita passa come le foglie verdi che brillano e poi, rapide, si seccano. Sola consolazione, la vita prosegue in altri come noi, nuove brillantissime foglie verdi, simili alle foglie che eravamo: i figli. In quel tempo così remoto da non poter ricordare, le due persone consapevoli dopo generazioni di primati, non sapevano quanto dura vivere e che esiste la morte. Scoprirono che i giorni non sono gioco, ma esistenza che scorre e poi sparisce. Può darsi che Adamo ed Eva, rimessi a viva forza sotto i nostri occhi con il ritrovamento di un Sapiens “biblico”, siano stati il primo frutto evoluto di una catena di frutti evoluti; la provenienza finalmente umana di una rozza specie precedente, destinata ad approfondirsi in Adamo ed Eva, a divenire noi, e dopo chissà chi nel futuro. Nel primo punto della Storia, questo maschio e questa femmina umani, frutti di inconsapevoli Sapiens, o chissà chi del passato, magari pesci gettati sulla spiaggia, avevano due caratteristiche: ignoravano e finalmente apprendevano. Ignoravano che la sessualità, la gravidanza e il dolore connesso al parto; che la potenza della felicità, dato che la felicità è rara, che la libertà di sbagliare; che tutto questo facesse parte della vita quando si smette di essere bambini instradati dai genitori e bisogna fare da soli. Ed è quando cessa la pura illusione e ci si sveglia bruscamente: “I loro occhi si aprirono, e si resero conto di essere nudi”. Il che avviene a ogni generazione. Forse scherziamo con il mito della fanciullezza perduta. Non sappiamo davvero che svegliarsi è libertà e dolore tremendo. In mezzo al primordiale corrispettivo di sentimenti come i nostri, dolore, paura, curiosità, gioco – adesso vediamo in modo nitido quei due, Adamo ed Eva, perché li vediamo come persone di tutti i giorni, che girano con quelle foglie sul pube da qualche parte della Mesopotamia o di Israele – erano la nuovissima umanità. Bambini. Loro e quelli dopo di loro trovarono davanti a sé la responsabilità di essere i primi a imparare e i primi a insegnare l’esperienza ai figli. Dire a chi viene dopo che fosse successo dal giorno in cui Padre Adamo e Madre Eva, numero Uno e numero Due della specie consapevole e non puramente istintiva, dunque non una specie animale, avevano scoperto la libertà; spiegare che erano nati Caino e Abele e con la famiglia e con i figli la solitudine si era allontanata, e che tutto il vivere, si era chiarito, fosse bello e tremendo. Permanendo nel racconto dell’Inizio, in questo luogo che avrebbe una geografia e un racconto che coincide con la geografia, viene da interrogarsi su come sia avvenuta la comparsa di Eva – spuntata dal desiderio di Adamo che la solitudine finisse; venuta fuori da chissà dove, quando poco prima non c’erano che la propria voce e la Voce creatrice. Anche se poi, fatalmente, le prime parole umane che risuonano in Genesi sono di Eva che risponde al serpente – il quale chiede se Dio abbia vietato di mangiare il frutto della vita. Le prime parole umane rese note perché generano la prima scelta: un errore immane. L’inizio delle ebbrezze e delle consapevolezze. Il nostro irrinunciabile destino. Del resto, nelle generazioni si vede che si verifica in modo biologico di imparare molto disobbedendo e poco obbedendo; di apprendere dalla libertà usata male più che da una disposizione applicata in modo mite ma cieco. Siamo nati da un atto immaturo; una scelta ormonale, compiuta nell’adolescenza del genere umano, nell’Età delle Pulsioni. Torniamo ad Eva e alla sua comparsa. Il testo, che a tratti ora ci appare come un thrilling, dice che mentre Adamo dorme, Dio gli prende una costola dal petto e ci fa Eva. Insomma prende da Adamo e fa qualcuno che prima era una non utilizzata parte interna, e interiore, di Adamo – come il maschile è parte non utilizzata del femminile. Guardo dentro di me, e a un tratto sono qui, a credere che nel petto mi manca una parte che ci dovrebbe essere. Mi tocco le costole: è qui che manca, qui: no, qui. Da qualche parte dovrebbe esserci un avvallamento, la parte sottratta che è diventata Eva – e il femminile manca al maschile e il maschile manca al femminile. Ciò significa che prima della comparsa di Eva, nella porzione di terra tra Israele, Tigri ed Eufrate, che noi potremmo chiamare Mondo, girava un uomo solitario, impazzito di tristezza. Uno tutto solo che dava il nome a quanto incontrava di creature e piante. Onomatopee con cui si faceva compagnia, in modo che quando lui pensava a qualcuno o qualcosa, potesse evocarne il suono, e allora il qualcuno e la qualcosa erano lì con lui – potenza della memoria. E’ dunque probabile che Adamo, nel Giardino, senza Eva con cui parlare, vagasse come un rabdomante in cerca invece che di pozzi, dei nomi da dare. Vedesse un albero e lo chiamasse albero, i pesci guizzare e li chiamasse pesci. Che lui desse nomi alle parti della realtà in relazione appunto al suono che le genera: la miglior compagnia che la grande e molteplice realtà possa farci – mio figlio chiamò l’acqua brum brum forse perché l’acqua scese dal cielo dopo un tuono, brum brum. Diceva brum brum e invece di avere paura, rideva. La notte, quando era buio e Adamo era solo al mondo, e i pesci e gli alberi non si vedevano, Adamo diceva i nomi della realtà, si rasserenava e dormiva in compagnia di confidenti parole. E tante volte si sarà chiesto: ma perché sono nato solo? E poi che senso avesse di essere unico assieme a tanti altri che invece erano coppie, due esseri del tipo maschio e femmina che vivono insieme; animali cresciuti con lui e divenuti amici che a un certo punto si univano e dopo partorivano. Le pecore, i cervi, i volatili, non condividevano le sue scoperte, le emozioni che lui ricordava stagioni intere. E gli animali amici non agivano in parità con lui. Erano sottomessi, anche amichevoli; giungevano facendo un fischio, però non modulavano la voce per fare parole con cui definire lago il lago e pietra la pietra. Gli animali non saziavano la sete spirituale: la smorzavano. Non gli davano futuro. Erano una sua pallidissima imitazione. Un cerchio di abitudini. Adamo non poteva continuare così da solo, ma continuava. Penso a questo con una nuova convinzione, come a fatti ora visibili – so che qualcuno fu davvero solo in un posto esistito per davvero e chiamato Eden, prima del Negev o del Giordano, e magari era quel tale con quei molari vecchi quattrocentomila anni – Adamo. E non penso più ad un allegoria, ma alla vita umana ordinaria nel primo momento della Storia, trasformata nel racconto dei racconti, in modo da insegnare e tramandare. E mentre gli animali giravano in coppie, quell’Adamo malinconico e ancora senza Eva girava da solo; e mentre fra gli animali c’erano due tipi per specie ed erano in compagnia, e una parte della coppia era la dolcezza e la forza – il femminile – e l’altra era la forza e una certa solitudine, perché il maschile è solo, incongruo e pensoso, Adamo non aveva l’altra parte di sé. E questa era una cosa sempre più curiosa: che i viventi fossero sempre presenti nel numero di due, e lui sempre uno, mai con accanto qualcuno di simile: ma solo. Non era arrabbiato: era abituato ad essere solo con tutto intorno, forse a imitazione della solitudine- non solitudine divina – “lo creò a immagine divina, maschio e femmina li creò”, Gen. 1.28. Ma Adamo non era contento. Cominciò ad essere meno schiamazzante; non saltellante come una lepre quando era di fronte a una lepre; o trillante come un uccello quando era di fronte a un uccello. Si depresse. Zittì. Era senza desideri – conobbe l’essere triste e deve essere stata la prima tristezza della Storia: l’idea che i giorni non fossero che quelli. E chissà cosa deve avere pensato le notti, supino, mentre guardava l’immenso cielo lontano. Non era una cosa buona. “Non è bene che l’uomo sia solo”. (Gen. 2.18), dice nel testo la Voce che Adamo sente sempre, Pensiero che fa le cose. Ed ecco che vedo Adamo, forse dove ora c’è la stazione degli autobus di Tel Aviv, o a Damasco, allora non c’erano confini. Lo vedo al risveglio mattutino. Si tira su e accanto a sé c’è questo corpo. Una persona, spuntata da chissà dove. E’ lì, quasi come lui – ma femmina. Poi, dopo lo sconcerto, l’entusiasmo: Adamo prende per mano Eva e corre. C’è una come lui con cui dare nome a nuovi animali e posti. E lì deve essere iniziata una lunga età del gioco: Adamo corre con Eva, con lei vanno a scoprire tutto. Eva è un qualcuno di così uguale: nel corso del sonno notturno deve essergli stata presa dal petto. Adolescente, contenta nel gioco, ad un passo dall’accensione dei sensi. Femmina. Chi è quest’Eva, chi è questo Adamo, devono essersi chiesti uno dell’altra ma non uno all’altra. Prima devono imparare a parlare insieme. Se avessero conosciuto le parole, si sarebbero raccontati o no di avere avuto lo stesso destino, di essere stati soli fino a quel momento, che Eva era arrivata da un bosco, aveva visto Adamo dormire nella radura e si era sdraiata accanto a lui perché finalmente c’era uno come lei? Certo, se avessero potuto ricordarlo, si sarebbero rivisti mentre venivano abbandonati o smarriti nella natura da dei goffi primati; una tribù di non consapevoli che camminavano a quattro zampe. Se chi li aveva abbandonati, avesse saputo parlare e avesse parlato ad Adamo ed Eva, avremmo saputo che erano stati dimenticati a terra fra gli alberi di un bosco, come quando cade un sasso di mano e non ci mettiamo a cercarlo, perché è solo un sasso. Magari fu proprio questa la causa del salto evolutivo: la loro lunga, precedente solitudine durante la quale iniziare a interrogarsi e sviluppare il pensiero e la curiosità, strappandosi al sonno della ragione. E in questo pezzo centrale di Israele, più a sud, più a nord, dopo il Giordano, prima, che importa: fu da queste parti la prima patria umana di cui parla il racconto che ora va indagato come un diario. In seguito, le generazioni dei vecchi si misero a ricordare, a onorare la differenza fra i propri progenitori, primi esseri pensanti, e il mondo semi-animale da cui i progenitori erano giunti per poi liberarsene. I vecchi che erano stati giovani cominciarono a sapere più di quelli che erano nati da poco, dunque ad essere sapienti; e i vecchi colsero la differenza tra le cose ordinarie e il disegno che doveva pur essere all’origine di tutto: il frutto di una volontà superiore, che vede molto più lontano, e infatti è collocata alla stessa altezza del cielo, figura di un’altezza spirituale a malapena afferrabile. I vecchi dicevano che la volontà superiore aveva una voce e non un corpo. Una voce non comune che parlava dentro Adamo come se fosse a un passo; non voce di uomo, ma sopra l’umano: voce di un mondo sovrumano. E questa voce non dimostrabile, sentita in modo nitido nel sonno come nei giorni, era del Creatore del Giardino, della luna e delle stelle, degli animali. Di tutto. Finché ci fu la capacità di sentire la Voce, devono aver detto i vecchi, finché uomo e donna seppero vedere e sentire chi non si vedeva però si sentiva, vissero una continua giovinezza. Ma parlare al serpente parlante, spirito d’inganno perché il serpente di solito non parla, parlare all’inganno dei mutevoli sensi, alla voce del piacere invece che alla Voce della creazione, spiegarono i vecchi, coincise con l’essere espulsi dal Giardino e dall’infanzia: e i frutti sugli alberi che erano sempre stati sufficienti e con i figli da sfamare non bastarono; fu necessario andare in un posto con più frutta, lasciare il luogo della perfetta divagazione spirituale. Imparare che se si seminavano i figli, si poteva seminare la frutta; che si potevano pascolare le pecore perché dove c’era abbondanza d’erba, c’erano più latte, più forza e più figli. Ma c’era fatica, e c’era anche omicidio. A vedere il mito del racconto biblico calato in un’effettiva terra, si vedono bene partenze e abbandoni, sangue sparso, le cose comuni però ai tempi dell’Eden. E dopo l’infanzia umana, scorre familiare davanti a noi l’apprendimento umano. A quanto pare, recidendo la gola alle pecore, dando loro la morte, con tutto che belavano e avevano una voce simile a un canto, si vedeva che tagliandone il corpo in quarti, si poteva metterne le carni sul fuoco nato da un fulmine e vegliato per essere tenuto acceso, e cucinare le carni. Ardendo, mandavano odore gradevole. Il cibo era caldo, saporito e dava forza. Veniva l’allegria alla figliolanza ed era cosa buona – frase che diceva sempre la Voce quando aveva creato una cosa nuova. E se questa cosa era buona per gli uomini, doveva essere offerta alla Voce che crea la vita. Capite, spiegarono i vecchi, dopo la cacciata, vivere poteva essere bello. Quasi bello: bastava ricordarsi come fosse la purezza dell’infanzia, quando la Voce giungeva in noi. Ma il più delle volte era impossibile ricordare il modo di sentire la Voce, di farsi raggiungere. C’era sempre da combattere: avere freddo, stancarsi, dover dormire e alzarsi per tempo; usare la luce del giorno prima che cadessero di nuovo le tenebre, approfittare della vecchiaia per raccontare. I vecchi dicevano tra le lacrime che Adamo ed Eva si accorsero che il loro corpo diventava secco come i rami secchi, da ultimo il sangue non correva e i corpi umani erano come quelli degli animali ormai vecchi trovati senza vita nel bosco: fermi forse per dormire e con lo spirito da un’altra parte. Allora nasceva la domanda: noi altri che non siamo gli animali, abbiamo pensieri e non siamo ripetizione come brucare e pascolare, dove andiamo quando si muore, e chi ce lo dice dove andremo? A questa domanda, i vecchi rispondevano: Padre Adamo e Madre Eva dissero che dove andremo questo lo poteva sapere solo la Voce, che loro avevano conosciuto. Ecco, se tutto ciò è il residuo di fatti remoti e non un’allegoria, non potrebbero davvero esserci stati la Voce e il suo primo magistero? Perché non dovrebbe essere autentico il racconto della Voce che crea dalla materia dentro di te? Non è forse questo un figlio, un crearsi di materia nella tua carne? E la più grande speranza non potrebbe essere quella Voce che si fa sentire nel nostro quotidiano buio, insegna, protegge, ed è Dio? Se non è Dio, si usa dire, è la coscienza che si interroga con le nostre parole. Su questo punto, il racconto dell’Inizio si fa imprendibile. Aderirvi non è un fatto di ragione, di ipotesi, ma pura libertà: se sentire con Adamo ed Eva la voce che non si sa da dove origini; se non volerla sentire; o sentirla, provare a ingannarla e non riuscirci. “Dov’è tuo fratello?”. “Non lo so”, rispose Caino. Allora tutto si svolgeva in una grandiosa paura dell’ignoto, tutto era ignoto. Al sopraggiungere della sera, il sentimento del timore doveva essere quello dei bambini, perché col buio tutto sparisce. Ma questo non basta a spiegare una fantasia così dialettica come i dialoghi tra l’uomo e la Voce. L’aver definito insegnamento quanto viene, o sembra venire dall’alto, il primo distillato di sapienza su come si vive, viene dall’esperienza delle generazioni o dalla Voce che dice partorirai con dolore, conoscerai la fatica? Adamo ed Eva furono spinti a viva forza nel mondo. Nel mondo, il suono della Voce andava e veniva, e adesso che a parlare erano in tanti, la Voce poteva essere frutto d’immaginazione, persino di una pazzia. E si dovette scegliere quale delle due fosse la cosa vera: se l’immaginazione o quella realtà come senza fine. E da allora è stato così: chiedersi se Dio sia un’immaginazione, oppure il Libro scriva di un’effettiva realtà iniziale in cui Adamo visse dalle parti di Rosh Haayin, aveva ottimi molari e il Creatore dell’universo gli insegnò a parlare.
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