Dalla padella alla brace La soluzione per la Tunisia, secondo Romano, è l'ascesa di un partito islamico
Testata: Corriere della Sera Data: 13 gennaio 2011 Pagina: 17 Autore: Sergio Romano Titolo: «Le 'repubbliche dei Patriarchi'. I clan che reggono il Nord Africa»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/01/2011, a pag. 17, l'articolo di Sergio Romano dal titolo " Le 'repubbliche dei Patriarchi'. I clan che reggono il Nord Africa ".
Sergio Romano, Recep Erdogan
Sergio Romano non perde l'occasione di pubblicizzare positivamente la Turchia di Erdogan e scrive : " il potere algerino è stato, sin dalla fondazione dello Stato, nelle mani di una oligarchia militare, brutta copia per molti aspetti di quella che ha retto le sorti della Turchia sino all’arrivo sulla scena politica del partito demo-musulmano di Recep Tayyip Erdogan ". Secondo Romano la situazione della Turchia è migliorata grazie all'ascesa di Erdogan. Il suo partito è musulmano, non ci sono dubbi, ma democratico...in base a quali elementi Romano lo ritiene meritevole di una descrizione simile? Forse per le sue limitazioni alla libertà di stampa? Oppure per la crescente islamizzazione dello Stato? O magari perchè ha limitato il potere dei militari (unici garanti della democrazia in Turchia)? O per il costante deterioramento dei suoi rapporti con l'unica democrazia mediorientale? O perchè Erdogan sta spingendo la Turchia verso l'Iran? O è il rifiuto di ammettere di aver commesso il genocidio degli armeni? Tutti elementi che denotano una forte democrazia, come no... Ecco l'articolo:
O gni discorso sulle condizioni politiche ed economiche dei Paesi nordafricani di cui si è molto parlato nelle scorse settimane dovrebbe partire da alcuni dati anagrafici. Il presidente egiziano Hosni Mubarak ha 82 anni, è capo dello Stato dal 1981 e si accinge a completare il suo quarto mandato. Muammar Gheddafi, guida della rivoluzione libica, ha 69 anni ed è al potere dal 1969. Il presidente della Tunisia Zine el-Abidine Ben Ali ha 75 anni ed è capo dello Stato dal 1987. Il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika ha 74 anni, è stato eletto per la prima volta nel 1999 e ha iniziato il suo terzo mandato nel 2009. Il primo di questi patriarchi è un generale dell’aeronautica, il secondo un colonnello, il terzo un poliziotto (per alcuni anni direttore della Pubblica sicurezza) e il quarto proviene dai ranghi della guerra di liberazione contro la Francia. Il primo ha conquistato la presidenza dopo l’assassinio del suo predecessore. Il secondo si è impadronito del potere con un colpo di Stato. Il terzo ha estromesso con la forza Habib Bourguiba, fondatore della Tunisia moderna. Il quarto è stato eletto dopo una guerra civile che ha provocato non meno di duecentomila morti. Per restare al potere tutti hanno «aggiustato» la costituzione o eliminato la clausola che limitava il numero dei mandati. Tutti sono sfuggiti a un numero imprecisato di attentati, generalmente organizzati dalle fazioni islamiste del loro Paese. Con una eccezione — il Marocco — non vi è quindi Paese dell’Africa settentrionale che sia riuscito a risolvere il fondamentale problema di ogni Stato moderno: la successione. Mubarak spera probabilmente di trasmettere il potere al figlio Gamal. Gheddafi si accinge a scegliere fra due figli, di cui uno è quello arrestato in Svizzera per una bega domestica. Ben Alì ha collocato qualche familiare nelle posizioni più ambite del regime. Bouteflika non ha eredi apparenti, ma il potere algerino è stato, sin dalla fondazione dello Stato, nelle mani di una oligarchia militare, brutta copia per molti aspetti di quella che ha retto le sorti della Turchia sino all’arrivo sulla scena politica del partito demo-musulmano di Recep Tayyip Erdogan. Le strutture oligarchiche e familistiche sono una delle cause di una corruzione che ha pervaso tutto l’apparato statale e che ne ha screditato l’autorità agli occhi dei cittadini. Resta da capire sino a che punto la precarietà costituzionale di questi Stati sia la maggiore causa delle difficoltà politiche ed economiche che ciascuno di essi sta sperimentando sulla strada della modernità. E qui beninteso occorre passare dalla constatazione delle analogie all’analisi delle differenze. L’Egitto, insieme al Marocco, è il più vecchio Stato arabo della regione. E’ nato nei primi decenni dell’Ottocento grazie all’energia e alle intuizioni di un geniale albanese al servizio dell’Impero ottomano, Mohammed Ali. E’ diventato vassallo dell’impero britannico nel 1882, ma ha conservato anche negli anni del protettorato il suo sovrano, una decorosa funzione pubblica, una élite mercantile e intellettuale, una intelligente apertura all’influenza dell’Occidente, una forte identità nazionale, un buon grado di tolleranza religiosa. Ed è stato, fino alle rivoluzioni islamiste degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, l’unico Paese arabo capace di elaborare modelli politici secolari come il nazionalismo e il panarabismo di Nasser. Ma il nazionalismo è stato sconfitto sui campi di battaglia delle guerre arabo israeliane e il panarabismo non ha mai superato lo stadio sperimentale delle effimere unioni con la Siria e con la Libia. L’Egitto non è uno Stato fallito, ma non riesce a sfamare i suoi troppi cittadini (77 milioni) e a intaccare sensibilmente la percentuale dell’analfabetismo (il 35%della popolazione). E’ accaduto così che in questo Stato laico e culturalmente filo occidentale le masse deluse cadessero nelle braccia dei Fratelli musulmani, nati nel 1929, ma divenuti molto più influenti dopo il fallimento dei processi di modernizzazione nei Paesi della regione. Mubarak tiene a bada i Fratelli con qualche concessione e con qualche compromesso, ma si serve del pericolo islamico per giustificare il suo regime, le leggi d’emergenza e la permanenza al potere. L’Egitto, di conseguenza è meno laico, meno tollerante e meno esemplare di quanto fosse nei momenti migliori della sua storia. Non è dal Cairo, purtroppo, che i Paesi del Maghreb possono importare modelli di sviluppo economico e civile. La situazione è meno grave in Libia dove gli abitanti sono poco numerosi (sei milioni) e le ricchezze naturali riempiono le casse dello Stato. Ma la Jamairiya non è né una monarchia né una Repubblica. E’ soltanto un ricco emirato, retto da un leader stravagante, non privo di una certa bizzarra genialità politica, che ha oggi, per chi deve trattare con lui, soltanto due meriti: ha protetto il suo Paese e se stesso dalle insidie del fanatismo islamico e soprattutto ha smesso di recitare la parte del Don Chisciotte arabo contro i molini dell’Occidente. La Tunisia è per molti aspetti una copia, in piccolo, dell’Egitto. Il suo leader non viene dall’esercito ma dalla polizia e governa il suo Paese con modi apparentemente tolleranti, ma sostanzialmente autoritari. Il Paese non ha grandi ricchezze naturali, ma ha fatto un buon uso delle sue risorse turistiche, ha aperto il suo mercato alle imprese straniere (di cui circa settecento sono italiane), ha una borghesia formata nelle scuole francesi e ha promosso l’istruzione superiore delle ultime generazioni. Ma ha creato attese che la sua economia, spesso corrotta, familistica e clientelare, non è in grado di soddisfare. In ultima analisi anche in Tunisia, come in Egitto e in Algeria, la curva della demografia e quella dell’economia avanzano a un passo diverso. Vi sono stati anni in cui il surplus demografico veniva in parte assorbito dal mercati del lavoro europei. Oggi, dopo la crisi del credito e le leggi restrittive adottate dai maggiori Paesi dell’Ue, la valvola dell’emigrazione si sta chiudendo. I giovani di Tunisi chiedono libertà, ma la chiederebbero con minore passione, probabilmente, se potessero trovare un lavoro corrispondente alla loro preparazione e alle loro ambizioni. Il Paese che corre maggiori rischi è forse l’Algeria. La sua modernizzazione di tipo sovietico è clamorosamente fallita alla fine degli anni Ottanta e ha avuto per effetto l’irresistibile ascesa di un partito religioso (il Fronte islamico della salvezza) che ha vinto il primo turno delle elezioni del dicembre 1991. I militari sono tornati in campo brutalmente, hanno annullato il risultato delle urne e hanno provocato una guerra civile che ha messo in ginocchio per buona parte del decennio una delle più educate e intelligenti società civili della regione. Bouteflika ha avuto il merito di mettere fine all’era del terrore e di restaurare l’ordine costituzionale. Ma ha concluso una specie di compromesso storico con gli islamisti, ha manipolato la costituzione e ha continuato a difendere, nell’interesse dell’oligarchia militare, una economia tendenzialmente chiusa, sospettosa e ostile all’intervento straniero. Il Paese è cresciuto (3,7%, mediamente, fra il 2001 e il 2009) ma non quanto era necessario per dare lavoro a una società in cui i giovani al di sotto dei trent’anni rappresentano il 70%della popolazione. Il Paese ha una grande ricchezza naturale, ma il gas e il petrolio possono essere al tempo stesso una manna e una maledizione: una manna quando la rendita gonfia le entrate dello Stato, una maledizione quando il denaro viene male impiegato in progetti sbagliati o il reddito le brusche oscillazioni di un mercato imprevedibile. Non ho parlato del Marocco. Il Paese ha risolto con un istituto vecchio ma funzionale (la monarchia) il problema della successione. E’ musulmano, ma il suo re e il suo governo amministrano gli ulema e gli imam come un corpo di pubblici dipendenti. Non ha grandi risorse naturali, ma è cresciuto mediamente, durante l’ultimo decennio, di una percentuale superiore al 5%. Ha una alfabetizzazione inferiore a quella dell’Egitto e dell’Algeria, ma una disoccupazioni pari a quella media dell’Unione europea. Ed è il Paese che ha maggiormente approfittato, sul piano culturale, delle sua antica dipendenza dalla Francia. Beati i Paesi della regione che hanno più rare occasioni di finire sulle prime pagine dei giornali.
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