lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
12.01.2011 Israele: Inchiesta parlamentare sulle Ong, ecco i capi d'accusa più gravi
cronaca di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 12 gennaio 2011
Pagina: 7
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Processo alle Ong»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/01/2011, a pag. III, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Processo alle Ong".

Sull'argomento, la Cartolina da Eurabia di Ugo Volli in altra pagina.


Giulio Meotti

 Il giornalista canadese Mark Steyn la definì “la lobby delle Grandi Coscienze”. Le organizzazioni non governative (ong) costituiscono uno degli apparati economici, politici e ideologici fra i più potenti nell’attuale scena internazionale, da quando s’affacciò l’età d’oro dell’aiuto umanitario con le collette di Bob Geldof e la beneficenza illuminata dai riflettori delle bande rock. I dossier delle ong sono oggi decisivi nei rapporti più duri contro Israele alle Nazioni Unite (come quello del giudice Goldstone su Gaza) e le loro geremiadi portano spesso il timbro dell’Unione europea.
Alle ong si deve gran parte della battaglia legalista per chiudere il carcere di Guantanamo, che l’ex presidente di Amnesty International Irene Khan ha definito “Gulag del nostro tempo”. Le ong hanno dominato i recenti cables di Wikileaks, con la rivelazione che le “charities” umanitarie restano un canale decisivo per finanziare il terrorismo islamico.
Nomi come Rashid Trust (pachistana), Islamic Heritage Revival Society (Kuwait), Al Haramain (Arabia Saudita), Holy Land e World Islamic Charity. Gli oboli raccolti nelle moschee vengono spesso incanalati dalle ong verso i gruppi jihadisti, dietro al pretesto dell’aiuto agli affamati, ai poveri, ai senzatetto. Una ong turca, Insani Yardim Vakfi (Ihh), ha scatenato poi la peggior crisi nei rapporti fra Gerusalemme e Istanbul, tramite l’incidente della Freedom Flottilla. Di organizzazioni non governative si è ripreso a parlare in questi giorni, dopo che la Knesset, il Parlamento d’Israele, ha dato vita a una commissione di inchiesta per appurare tutte le verità, non sempre luminose, sulle ong. Con reazioni immediate.
“E’ la persecuzione al posto della politica”, ha accusato il giornale liberal Haaretz. Il Jerusalem Post ha sposato invece la linea del premier Netanyahu, titolando così un editoriale: “Il diritto a un maccartismo democratico”. Fondi provenienti da Arabia Saudita, Kuwait, Emirati arabi, Algeria e Qatar sarebbero finiti alle ong. Si sottolinea anche il fatto che le ong siano oggi centrali nel fornire ai tribunali europei e a quello dell’Onu all’Aia capi d’accusa nei confronti dei politici israeliani.
Lo scorso novembre Israele ha cancellato il “dialogo strategico” con Londra – serie di incontri che servono a rafforzare la relazione fra i due paesi – per protestare contro la legge britannica che consente ai giudici di Londra di arrestare per presunti “crimini di guerra” – tutti da provare, e soltanto ad arresto avvenuto – militari e membri del governo israeliano se mettono piede in Gran Bretagna.
Negli stessi giorni, infatti, siti internet pubblicavano foto e dati personali, inclusi i numeri delle carte di identità e gli indirizzi, di duecento ufficiali israeliani che parteciparono all’operazione Piombo Fuso. Ong in Israele avrebbero passato le informazioni, e il governo israeliano adesso vuole vederci chiaro. La lista dei gruppi tacciati di slealtà verso Israele alla Knesset comprende nomi blasonati dalla stampa europea, come B’tselem, Yesh Din, Breaking the Silence, Adalah e Yesh Gvul.
“Gruppi solo in apparenza dediti alla causa dei diritti civili”, accusa la parlamentare Faina Kirschenbaum. “Accettano fondi anche dall’Arabia Saudita”. L’ex refusnik sovietico Nathan Sharansky, che con la sua battaglia dal carcere fu all’origine proprio di una grande ong come Human Rights Watch, ha detto che molte organizzazioni sono oggi “strumento nelle mani di regimi dittatoriali per combattere le democrazie”. L’esercito delle ong è stato paragonato a quelli che erano i missionari dell’era coloniale. C’è chi le ha accusate di perpetuare i conflitti nel Terzo mondo. Come quando i combattenti rifugiati Hutu reduci del genocidio dei Tutsi furono nutriti dalle ong in Congo al confine del Rwanda, e poterono facilmente ritornare per uccidere ancora.
Da Anti-Slavery International a Save the Children, da Oxfam a Amnesty International, le ong hanno scritto la storia recente del pacifismo internazionale. Ma il divario si è ampliato sempre più fra le ong ultraliberal, come la francese Lega internazionale per i diritti dell’uomo nata dal caso Dreyfus, e ong come Freedom House, nata da un’idea di Eleanor Roosevelt e considerate di area repubblicana, e la stessa Médecins sans frontières, che si scisse dalla Croce rossa a proposito della gestione delle emergenze Biafra e Bangladesh per una richiesta di “ingerenza umanitaria” (da parte di Msf) che oggi potremmo definire “neocon” ante litteram.
Le prime ong aderivano innanzitutto all’ideologia antistatalista, per cui la cooperazione statale era considerata inefficiente, burocratica, scialacquatoria. La stessa Human Rights Watch emerse negli anni Settanta con la volontà di propugnare un appoggio alla democrazia più militante rispetto alla linea più realista di Amnesty International.
Le ong italiane più famose sono Emergency e Un-ponte-per, assurte alle cronache per la loro militante opposizione alla guerra dell’Onu contro Saddam Hussein per ripristinare la sovranità kuwaitiana e gli interventi successivi in Afghanistan e Iraq. Ong di altra fattura rispetto a quelle dell’interventismo umanitario che fecero esclamare all’ex segretario di stato Colin Powell il 26 ottobre 2001: “Le ong sono per noi un enorme moltiplicatore di forza, una parte importantissima della nostra squadra di combattimento”.
A gloria delle ong c’è una lunga filiera di martiri umanitari. Si iniziò nel 1982, quando la direzione strategica di Sendero Luminoso ordinò l’uccisione di María Elena Moyano, che nelle aree marginali di Lima aveva organizzato una struttura per fornire ai bambini un bicchiere di latte quotidiano. I maoisti la mitragliarono davanti al marito e ai due figli, facendone poi saltare il cadavere con la dinamite. Si arriva ai morti dello scorso agosto in Afghanistan. Due oculisti, un dentista, una nutrizionista e un infermiere specializzato. Cinque americani morti ammazzati, ognuno con la propria storia e una comune identità, quella cristiana, che li ha esposti al macello dei talebani. La loro ong aveva portato cure e soccorso in valli dell’Afghanistan dimenticate da tutti, dove neppure i guerriglieri islamici si spingono più. Molti erano lì da prima che arrivassero i talebani, che li hanno massacrati senza pietà, accusandoli di voler convertire gli afghani al “Dio dei cristiani”.
Thomas Grams, noto come “Dottor Tom”, in nove anni aveva fornito cure dentistiche a 25 mila persone. La biologa nutrizionista Cheryl Beckett era la figlia idealista di un pastore del Tennessee. L’infermiere Glen Lapp veniva dalla Pennsylvania, terra di quaccheri e mennoniti, i tronconi ultra pacifisti del protestantesimo americano, gente che attende la morte con il sorriso sulle labbra e che vive senza sigarette e cerniere lampo. Oculista era Tom Little da New York. “Volevamo servire Dio: pensavamo di restare due anni, sono diventati trentatré”, dirà la moglie.
Una dedizione per il prossimo che li ha spinti a far crescere le loro figlie “in quello che era semplicemente l’inferno”. Little voleva “eliminare la cecità in Afghanistan entro il 2020”. Queste ong chiamate “spie americane” hanno una prassi e un’ideologia molto diversa da quella di Emergency, la ong del dottor Gino Strada che tanta brava gente di establishment ha scelto come profeta. Nel 2008, in Sudan, il dottor Strada si è messo dalla parte del dittatore genocida Bashir.
“La storia del genocidio è un’invenzione totale – ha ripetuto Strada – In Darfur è in corso una guerra tribale, ma nessun genocidio. Un genocidio non ti può sfuggire fisicamente. Come fai a non vedere 50 mila morti?”. Per questo Strada è stato duramente attaccato da un altro paladino delle ong come l’attuale ministro degli Esteri francesi, Bernard Kouchner, fondatore di Médecins sans frontières: “Talvolta penso che chi critica le azioni di ingerenza umanitaria abbia bisogno di vittime civili per esaltare il proprio ruolo mediatico”, ha detto Kouchner di Strada. Parole durissime che pur non sminuiscono il lavoro che Emergency ha svolto con dedizione in Afghanistan, Perù, Bosnia, Gibuti, Somalia, Etiopia, Kurdistan e Cambogia. Da quando è iniziata la guerra in Afghanistan, Emergency si è radicalmente politicizzata. E ha cominciato a parlare non solo di fratture e di mine antiuomo, ma anche di guerra, di islam, di dialogo, di terrorismo, di globalizzazione.
Diverso è il lavoro schivo e apolitico di un altro italiano padre delle ong, Alberto Cairo, che lavora per la Croce rossa internazionale ed è noto come “l’angelo di Kabul” per aver fatto tornare a camminare migliaia di mutilati. Le ong sono da anni protagoniste nel campo dell’ecologia con Greenpeace, della lotta all’Aids e contro la fame in Africa, ma è su Israele e il terrorismo che stanno politicamente segnando il dibattito.
Tutto ebbe inizio a Durban, nel 2001, quando tremila ong fiancheggiarono i lavori della Conferenza Onu contro il razzismo: Israele ne uscì come uno “stato criminale”, gli ebrei come razzisti inveterati. Decisive le ong furono nell’appoggiare la richiesta del ministro degli Esteri della Tanzania, Jakaya Kikwete, di immediate compensazioni in denaro all’Africa per lo schiavismo di cui sono stati vittime i suoi abitanti. Il senso di colpa coloniale da allora è diventato un combustibile nell’agenda umanitaria. Acclamato dalle ong, il dittatore Mugabe in sessione plenaria disse che “gli ebrei sono all’origine di tutti i mali dell’Africa”.
A Durban alcune ong distribuivano volantini con l’effige di Hitler e la scritta: “Se avessi vinto io? Di positivo c’è che non esisterebbe Israele”. Poi le sfilate lungo la zona della conferenza e lo slogan: “Quel che abbiamo fatto all’apartheid in Sudafrica deve essere fatto al sionismo in Palestina”. Le ong hanno appena ottenuto un altro successo: il voto con cui l’Onu, il 21 settembre 2011, celebrerà Durban III a New York. Lunedì scorso il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha attaccato duramente la ong americana Human Rights Watch, una delle migliori in campo democratico. La credibilità dell’organizzazione, sempre più ricca e influente dopo la donazione plurimilionaria del filantropo George Soros, è molto sbiadita una volta scoperta la “cena di benvenuto” a cui la portavoce della ong, Sarah Leah Whitson, ha preso parte a Riad in compagnia di uomini d’affari sauditi e dei membri dello Shura Council, i guardiani dell’islam wahabita, notoriamente antisemita e antioccidentale. Whitson non era là per protestare contro la mancanza di libertà religiosa e l’impossibilità per un non musulmano di risiedere nel regno. La superpotenza dei diritti umani doveva incassare donazioni saudite perché, come ha detto la stessa Whitson, si devono bilanciare “i gruppi di pressione pro israeliani attivi negli Stati Uniti”.
Lo scandalo ha travolto Human Rights Watch. L’inimicizia antisraeliana è penetrata ai vertici della ong: la stessa Sarah Leah Whitson viene dal Center for social and economic rights che accusa Israele di “colonialismo”; il suo vice, Joe Stork, lavorava per la rivista antisionista Middle East Report; Lucy Mair nasce a Electronic Intifada; Nadia Barhoum viene dagli Students for justice in Palestine, mentre Darryl Li è l’uomo del Palestinian center for human rights, che definisce “atti di resistenza” gli attacchi contro i civili israeliani e che nel suo grossolano elenco delle vittime civili a Gaza ha enumerato anche Nizzar Rayyan, il capo di Hamas che ha mandato uno dei suoi figli a compiere un attentato suicida. Un altro dirigente della ong, Reed Brody, fu quello che nel 2001 tentò di far processare in Belgio il primo ministro israeliano Ariel Sharon. Nel board dei direttori siede Charles Shamas, consulente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, mentre Gary Sick è noto per aver invitato il presidente iraniano Ahmadinejad alla Columbia University. C’è stato anche l’affaire Marc Garlasco, per anni l’unico esperto militare dell’organizzazione inviato sui teatri di guerra.
Di giorno Garlasco imbeccava i giornalisti, di notte era “Flak88”, l’accanito collezionista di memorabilia hitleriane. L’esperto militare scriveva recensioni entusiastiche per libri sul Terzo Reich venduti su Amazon. All’inizio, Human Rights Watch gli ha offerto sostegno incondizionato, evocando perfino una “cospirazione” contro la ong. Il governo Netanyahu ha denunciato la cosa come una nuova caduta di Hrw.
Il settimanale americano The New Republic ci è andato giù duro con il dossier sulla “guerra civile di Human Rights Watch contro Israele”. A denunciare le ong è stato poi lo stesso fondatore di Human Rights Watch, Robert Bernstein, che ha parlato di ong intenzionate a “trasformare Israele in uno stato paria”. Ong che promuovono attivamente campagne per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. Alcune propugnano apertamente “la cancellazione di Israele attraverso la creazione di uno stato unico” di Palestina. Bernstein accusa la sua creatura di aver semplicemente “tradito la Dichiarazione dei diritti umani”. Milioni di euro ogni anno sono elargiti da Bruxelles a ong che boicottano, demonizzano e incitano alla fine dello stato d’Israele. Dal rapporto della Knesset si è scoperto che una delle ong incriminate, “Breaking the silence”, ha ricevuto dall’ambasciata britannica 50mila euro, da quella olandese 20mila e dall’Unione europea altri 43mila. Per questo Israele l’ha messa sotto inchiesta. L’Unione europea finanzia ong come il Gaza Community Mental Health Programme, che equipara i medici israeliani a quelli dei “lager nazisti”. Il principale strumento dell’Unione europea per incanalare il denaro alle ong è il Partnership for Peace.
Ne beneficiano il Laje’oon Center, che ha ricevuto 249mila euro per lottare a favore della “Gerusalemme araba”. Ma anche gli Eco/Peace Friends of the Earth Middle East, con sede a Gaza, un budget di 400mila euro e l’obiettivo di abbattere la barriera di sicurezza israeliana. Centinaia di migliaia di euro finiscono nelle tasche di Machsom Watch, che bolla Israele come “puro razzismo e crudeltà”.
Il Palestinian center for human rights ha ottenuto 300mila euro e ha giustificato il rapimento di Gilad Shalit come un atto di “resistenza”. “Molto di questo denaro europeo è usato per promuovere una guerra legale asimmetrica fatta di boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni: i primi due derivano dalla strategia di Durban del ‘completo isolamento internazionale di Israele’”, dice il professor Gerald Steinberg, direttore di Ngo Monitor. “Queste organizzazioni finanziate dall’Europa lavorano per la delegittimazione di Israele, continuano a diffondere il doppio standard e false etichette di ‘crimini di guerra’. In più, queste azioni mettono in pericolo le norme sui diritti umani e trasformano questi principi morali in armi utili per la politica. Gli statuti legali universali in Europa e organismi quali il Tribunale criminale internazionale, che erano stati previsti per portare in giudizio dittatori responsabili di genocidio, sono stati privati di qualunque significato attraverso l’uso cinico di etichettare i leader israeliani come ‘criminali di guerra’”.
E’ stato proprio un rapporto di Ngo Monitor a far luce sui finanziamenti di due decine di ong (fra cui B’tselem, Peace Now e Ir Amim). I fondi misteriosi, secondo il rapporto, rappresentano anche il 30-40 per cento dei bilanci di quelle organizzazioni. “Dobbiamo limitare la capacità di governi stranieri di manipolare (mediante i fondi alle ong, ndr) la politica interna di Israele e di minarne la legittimità internazionale”, si legge nel rapporto “Cavallo di troia”, che si è avvalso di noti esperti, fra cui l’ex ministro della Difesa Moshe Arens e dell’attuale vice primo ministro Moshe Yaalon. “Non c’è alcun altro paese al mondo che è obiettivo di manipolazione da parte di governi stranieri attraverso un intervento talmente massiccio nelle sue questioni interne”. Yaalon ha definito Peace Now “un virus”.
Il rapporto stabilisce che il bilancio di Peace Now è di un milione di euro, di cui il 40 per cento è giunto da fonti straniere. Sono menzionati anche l’ambasciata norvegese in Israele e i ministeri degli Esteri di Gran Bretagna, Germania e Olanda. Il 27 per cento del bilancio di B’tselem proviene dall’estero. Fra i suoi sostenitori sono citate l’Unione europea, Olanda, Norvegia e Gran Bretagna. I portavoce di B’tselem, organizzazione israeliana che dal 1989 si batte per i diritti umani nei territori palestinesi e al centro dell’inchiesta della Knesset, dicono al Foglio: “E’ molto chiaro oggi che c’è un innalzamento della campagna contro i gruppi dei diritti umani. Non abbiamo paura. Il successo delle ong le ha portate a essere un target”.
Nel rapporto Goldstone, B’Tselem è citata 56 volte. Un’altra organizzazione sotto accusa è Ir Amim: il suo bilancio di 700 mila euro è per due terzi sostenuto dall’Europa. Parliamo con l’ufficio stampa di Iri Amin: “Il voto della Knesset contro le ong è un altro passo contro la società civile in Israele, una minaccia alla democrazia”.
Yariv Oppenheimer, da anni a capo di Peace Now, la ong che nel 1982 allestì la campagna che portò alle dimissioni di Ariel Sharon da ministro della Difesa dopo i massacri di Sabra e Chatila, al Foglio definisce così l’inchiesta della Knesset: “E’ una caccia alle streghe, volta a cambiare il carattere democratico d’Israele. Ci sono differenze fra le ong, ma l’unica linea di confine è se le ong fanno spionaggio”. Non se la passa meglio di Human Rights Watch la ong più nota al pubblico, Amnesty International, che nei suoi cinquant’anni anni di benemerita attività ha raccolto tanti riconoscimenti, oltre a un premio Nobel per la pace (1977).
Qualcosa non va, visto che anche lo scrittore Salman Rushdie, esponente della stessa cultura liberal a cui l’ong appartiene, ha accusato Amnesty di “bancarotta morale”. Interpellato dal Foglio, il capo di Amnesty Italia, Riccardo Noury, spiega che “una delle caratteristiche irrinunciabili delle ong è la trasparenza: della ‘mission’, delle azioni, delle modalità di finanziamento e della destinazione dei fondi ricevuti. Amnesty segue queste regole. Certo, rispetto al 1961, il nostro anno di fondazione, il mondo è più complesso e più impegnative sono le sfide riguardanti i diritti umani, che sempre di più oggi sono diritti economici e sociali violati. Sono aumentati il peso e il senso delle parole ‘diritti umani’, così come l’importanza dell’azione delle ong e, in qualche misura, anche la tentazione di attaccarne la reputazione.
Ma temo siano attacchi vani. Essere non governativi non significa essere antigovernativi: significa indipendenza, imparzialità, assenza di un’agenda politica”.
Parole importanti che però non cancellano la macchia di Guantanamo. La ong ha utilizzato Moazzam Begg come testimonial, un ex prigioniero di Guantanamo e acceso sostenitore dei talebani e di al Qaida. Amnesty ha portato Begg a Downing Street, residenza del premier britannico, e in giro per l’Europa a chiedere la chiusura del campo di detenzione per al Qaida. Perfino il settimanale britannico Economist ha accusato Amnesty di “riservare più pagine agli abusi dei diritti umani in Gran Bretagna e Stati Uniti di quante non ne dedichi a Bielorussia e Arabia Saudita”. E’ poi successo che il segretario generale di Amnesty, Claudio Cordone, è arrivato ad affermare che la “jihad difensiva” non è “antitetica” con la battaglia dei diritti umani. E lo ha detto in risposta a una petizione contro il rapporto stilato da Amnesty con Cageprisoners, la ong di Begg per la quale ha fatto da testimonial l’imam yemenita Anwar Al Awlaki, l’ispiratore di una serie di atti terroristici contro gli Stati Uniti. A chiedere spiegazioni a Cordone sono state tre femministe islamiche come Amrita Chachhi, Sara Hossain e Sunila Abeysekera: “Il jihad difensivo è usato dai talebani per la decapitazione dei dissidenti, gli attacchi alle minoranze, alle scuole e ai siti religiosi e la mutilazione pubblica delle donne”. Recentemente Amnesty è tornata a far parlare di sé quando il suo direttore a Helsinki, Frank Johansson, ha definito Israele “stato schifoso”. Un gruppo di intellettuali ha chiesto l’espulsione del dirigente di Amnesty; fra loro il giurista Alan Dershowitz, la studiosa di yiddish Ruth Wisse, il proprietario di New Republic Marty Peretz e il padre del giornalista Daniel Pearl, Judea. Ma è vero che, a furia di accanirsi sulle democrazie e su Israele, le ong si sono dimenticate dei propri eroi vittime dei terroristi? Hamas ha ucciso Haidar Ghanem, attivista palestinese legato a B’Tselem. Ghanem credeva nella democrazia e nei diritti umani. Per questo Hamas lo ha ucciso. Per molti, Ghanem era il “Sacharov palestinese”. Hamas ha vietato persino di seppellirlo. Avrebbe reso “impuri gli altri corpi”. Il suo corpo, a differenza di quelli delle vittime delle guerre asimmetriche del terrorismo, è finito nel dimenticatoio dell’opinione pubblica. Vittima dei tagliagole, ma pure della visione selettiva delle ong per cui ci sono molti torti, ma alcuni sono meno torti di altri.

Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT