Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 11/01/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Quei due cappelli da cowboy che hanno fatto il nuovo Sudan".
Salva Kiir Mayardit con George Bush
Roma. Fino alla morte improvvisa del leader carismatico del Sudan meridionale, John Garang, l’uomo che sta per traghettare la regione attraverso il voto per l’indipendenza, Salva Kiir Mayardit, era soltanto l’oscuro comandante militare dei ribelli del sud. La sua gente lo apprezzava per la sua bravura nella strategia bellica e per la fervente fede cristiana, e Garang era particolarmente confortato dal suo disinteresse per la politica. Ma il 20 giugno 2005, un incidente all’elicottero sul quale viaggiava John Garang ha portato Salva Kiir – e il cappello nero da cowboy – sulla scena politica internazionale. Il copricapo dal sapore western, a falde larghe rigorosamente nere, è diventato il segno distintivo di Salva Kiir, che non se ne separa mai. Aveva fatto un’eccezione per il presidente americano George W. Bush, per sottolineare la riconoscenza per avergli dato un’occasione di quelle che valgono un’intera carriera politica: il miliziano cresciuto in un clan della comunità Dinka, nel Sudan del sud, ottimo nell’arte della guerra ma a disagio nel campo della retorica, veniva accolto ufficialmente alla Casa Bianca. Tre anni dopo, nel 2009, Salva Kiir si sarebbe ripresentato a Washington, questa volta con il cappello in testa, per stringere le mani a Bush dicendo che la gente del Sudan del sud “non la dimenticherà mai per quello che ha fatto per noi”. Per ribadire che per lui l’occasione era molto speciale, Salva Kiir si era affidato a un esuberante vestito blu elettrico, un piccolo manifesto del suo stile, che tende a trascurare le finezze della diplomazia e non tollera i discorsi che si prolungano troppo nel tempo. Salva Kiir non è un intellettuale, ma il suo popolo lo ama per la bravura con cui ha comandato le truppe dei ribelli negli ultimi vent’anni, da quando, nel disgraziato 1978 – cinque anni dopo gli accordi di pace di Addis Abeba – si è scoperto che il Sudan meridionale era ricco di petrolio. La diplomazia era il territorio di John Garang, anch’egli di etnia Dinka, ma con alle spalle un dottorato in Economia agraria al Grinnell College dell’Iowa e un periodo di addestramento con l’esercito americano, a Fort Benning, in Georgia. Nel 1983 Garang era l’ufficiale dell’esercito che il governo sudanese aveva spedito nel sud del paese per risolvere un problema con cinquecento soldati che si erano rifiutati di essere trasferiti al nord. Anziché ricondurli all’ordine, si era messo alla testa del dissenso e aveva fondato il Sudan People’s Liberation Movement (Splm), con cui avrebbe combattuto una guerra lunga ventidue anni. Tra i capi ribelli c’era quello che sarebbe diventato il suo vice, Salva Kiir, che si era unito ai ribelli sul finire degli anni Sessanta – e, insieme con i suoi compagni, era stato momentaneamente normalizzato nelle file dell’esercito ufficiale dopo l’accordo di pace del ’72. Da allora le parti, affinate in due decenni di lotta, sono sempre state chiare: John Garang è stato il volto pubblico, ben educato e presentabile nel suo opportunismo politico (per cui è oscillato, in base alle circostanze, dal marxismo al cristianesimo più fervente); Salva Kiir è stato il capo militare, a cui era vietato sconfinare dalla sua area di competenza – il controllo del Splm, a cui ha garantito numerosi successi in una guerra che ha fatto più di due milioni di vittime. Negli anni John Garang si era guadagnato una popolarità che gli ha garantito biografie al limite dell’agiografia, grazie alla cura con cui ha sistematicamente colpito ogni sintomo di dissenso interno, secondo la dottrina che raccomanda di tenersi i nemici più stretti degli amici. Spietati quanto basta per sopravvivere alla guerriglia, i due avevano costretto il governo sudanese alla storica pace del gennaio 2005, firmata però solo da John Garang. Con la morte improvvisa del leader, il presidente sudanese si è visto costretto a ricorrere a Salva Kiir, l’unico in grado di governare la rabbia della sua gente, convinta che l’elicottero su cui viaggiava John Garang fosse stato sabotato. Diventato in tutta fretta vicepresidente sudanese – e presidente del sud del paese – Salva Kiir si è attenuto diligentemente alla dottrina di Garang: dare la massima priorità all’autodeterminazione del sud, obiettivo a cui tutto il resto è sacrificabile. Totalmente disinteressato al tema dell’unità nazionale, il nuovo vicepresidente ha ignorato il governo centrale decidendo di passare il suo tempo al sud, in attesa del referendum di questa settimana, che ha preparato assicurando i paesi vicini riguardo ai rispettivi interessi e garantendo più posti possibili agli uomini fidati del suo clan. A ridosso delle elezioni dello scorso aprile, Salva Kiir non si era fatto problemi a riconoscere le sue priorità: “Il sud è più interessato al referendum di gennaio piuttosto che alle elezioni nazionali”. A scanso di equivoci aveva persino sbagliato a votare, inserendo alcune schede nelle urne sbagliate. Anche la sua linea sul voto di questa settimana è una citazione di uno degli ultimi discorsi di John Garang, con toni più sibillini: “Al referendum sulla secessione dovrete scegliere se essere cittadini di seconda classe nel vostro paese, o persone libere in uno stato indipendente”. Il padrino americano dell’indipendenza Nessun commentatore lo ricorda, ma il referendum che permette agli abitanti del sud del Sudan di scegliere liberamente la secessione da Khartoum segna un trionfo personale dell’ex presidente americano George W. Bush. Questo successo smentisce tutte le banalità sulla aggressività fallimentare della sua strategia internazionale. All’indomani dell’11 settembre 2001, Bush inviò a Khartoum il suo plenipotenziario John Danforth con un mandato forte: ribaltare la strategia nei confronti del Sudan di Bill Clinton (che nel 1998, dopo gli attentati di Dar es Salaam e Nairobi, aveva bombardato alcuni quartieri di Khartoum), obbligare il regime di Omar al Bashir a recidere tutti i legami col terrorismo di al Qaida e soprattutto – dispiegando anche forti incentivi economici – mediare un accordo con lo Splm di John Garang che dal 1983 si opponeva all’esercito sudanese nel sud del paese. Questo accordo doveva porre fine a una guerra civile che aveva fatto quasi due milione di morti. Tutti gli obiettivi furono centrati, tanto che il 9 gennaio 2005 a Nairobi Omar al Bashir e John Garang, divenuto vicepresidente del Sudan, siglarono un trattato, controfirmato dal segretario di stato americano, Colin Powell, e da vari leader africani, che prevedeva dopo cinque anni il referendum per le secessione del sud. Questo referendum sancirà con ogni probabilità la secessione del sud, aprendo così una pagina complessa di storia africana. Sarà ora l’Amministrazione di Barack Obama a dover gestire la potenziale nascita di un nuovo stato – più grande di Burundi, Kenya, Ruanda e Uganda messi insieme – contestualmente alla mai risolta crisi in Darfur, dove la guerra civile è scoppiata quando l’etnia dei Fur ha chiesto lo stesso regime autonomo strappato dal Splm per gli animisti e i cristiani del sud. Nonostante sia evidente che la questione dei confini della regione di Abyei, contesa dai due Sudan e della ripartizione dei proventi del petrolio (in larga parte i pozzi sono nel sud), possa far ripartire la guerra civile, l’Amministrazione Obama ha adottato un atteggiamento cauto nei confronti di un dossier che sarà ripreso soltanto a secessione avvenuta. Il Sudan di Omar al Bashir è il secondo epicentro di irradiazione – con il fronte AfPak e ben prima della Palestina – del fondamentalismo e quindi del terrorismo. La guerra civile nel sud del Sudan iniziò l’8 settembre 1983, quando l’allora dittatore Jaafar al Numeyri emanò un ordine presidenziale che impose la sharia quale “unica forza guida del diritto”, modificò la Costituzione sul modello saudita, abrogò i residui di diritto positivo ereditati dal colonialismo inglese, e quindi proclamò il jihad contro i cristiani e gli animisti del sud nilotico del paese, che ovviamente si rifiutavano di subire la legislazione musulmana. Passati sei anni di guerra civile, nel 1989 un governo militare, deposto Numeyri, siglò una tregua con John Garang che prevedeva la sospensione della vigenza della sharia nel sud. Ma subito, il 30 giugno 1989, il generale Omar al Bashir diede vita al primo golpe per la sharia della storia e, preso il potere, denunciò la tregua. Appoggiato dai Fratelli musulmani e da Hassan al Tourabi, teologo di fama mondiale, al Bashir fece del Sudan il centro del fondamentalismo e del terrorismo islamico: si schierò al fianco di Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo del 1991, ospitò a Khartoum Osama bin Laden (che “regalò” in cambio una tratta autostradale) e campi di al Qaida e fece del paese un santuario sicuro per i terroristi yemeniti, somali e sauditi. La decisa azione di Bush nei confronti di al Bashir mirava dunque a sottrarre il Sudan al terrorismo islamico, previa fine della guerra civile al sud, all’interno di una strategia più ampia contro il terrore i cui fronti militari erano in Afghanistan e in Iraq. L’obiettivo è stato parzialmente conseguito con la pace siglata nel 2005 e con i passi successivi che hanno portato al referendum di questi giorni. Ora al Bashir dice che accetterà il risultato del referendum, ma iniziano gli scontri e i morti sono già una sessantina: toccherà a Obama mettere in campo la pressione diplomatica indispensabile per evitare che le feste per la nascita di un nuovo stato si trasformino in una nuova, pericolosa crisi.
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