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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.01.2011 Shoà: se la memoria è stravolta dall'orrore dei sopravvissuti
Paolo Mieli recensisce 'Lo storico e il testimone' di C. R. Browning

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 gennaio 2011
Pagina: 43
Autore: Paolo Mieli
Titolo: «Se l’orrore della Shoah stravolge la memoria»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/01/2011, a pag. 43, l'articolo di Paolo Mieli dal titolo " Se l’orrore della Shoah stravolge la memoria ".


Christopher R. Browning, Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowice (ed. Laterza)

L’ 8 febbraio del 1972 si concluse in Germania il processo a carico del settantacinquenne agente di polizia in pensione Walther Becker. Il motivo per cui Becker era finito sul banco degli imputati non era riconducibile all’essere lui stato nel secondo dopoguerra un poliziotto, bensì al ruolo ben più importante che aveva ricoperto tra il 1941 e il 1945 alla guida del dipartimento di polizia nel distretto polacco di Radom (tre milioni di abitanti di cui oltre il dieci per cento ebrei). Becker era accusato di aver svolto un ruolo di primo piano nella liquidazione del ghetto di Wierzbnik il 27 ottobre del 1942, allorché tra i sessanta e gli ottanta ebrei erano stati uccisi sul posto, mille e seicento erano stati inviati in tre campi di lavoro a Starachowice e altri quattromila erano stati mandati a morire nelle camere a gas di Treblinka. Nel corso del dibattimento il pubblico ministero poté presentare decine di sopravvissuti, i quali testimoniarono che quel giorno Becker aveva personalmente picchiato e ucciso numerosi ebrei e aveva ordinato l’assassinio di altri. Uno di loro ricordò di aver visto quell’uomo afferrare per i piedi un bambino ancora in fasce e sfondargli il cranio contro un muro accanto all’entrata del cortile presso la piazza del mercato. Ma, a sorpresa, il giudice prosciolse l’imputato e Becker uscì da quell’aula di tribunale da uomo libero. Tutte le testimonianze a suo carico, spiegò poi il giudice, non coincidevano l’una con l’altra. In alcuni casi gli erano stati attribuiti misfatti che non si sa bene se fossero stati realmente compiuti. Misfatti riferibili a «un’immagine archetipica dell’Olocausto» che, a guerra finita, era stata «incorporata nei ricordi» dei superstiti. Alcune testimonianze erano palesemente discutibili e avevano ingenerato nel giudice il sospetto che gli accusatori avessero accusato Becker «di atti specifici commessi da altri uomini che non erano riusciti a identificare» . La corte stabilì che i testi, tutti, erano «consciamente o inconsciamente propensi» a «proiettare» sull’imputato il loro «comprensibile» odio per il regime nazista. Ma di prove inconfutabili non ce n’erano. Quest’episodio ha suscitato l’interesse di Christopher R. Browning spingendolo a scrivere un saggio, Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowice che, nella traduzione di Paolo Falcone, l’editore Laterza si accinge ora a pubblicare in Italia. «Se Becker era sfuggito alla giustizia tedesca» , scrive Browning, «sentivo che almeno meritava di finire nell’inferno degli storici» . Ma lungo il cammino della sua ricerca, l’autore ha scoperchiato un vaso che porta allo scoperto problemi, se è possibile, maggiori di quelli provocati dalla sentenza del ’ 72. Diciamo subito che il suo libro non è né revisionista né tanto meno negazionista. Però analizza le testimonianze di 292 sopravvissuti, rese tra il 1945 e il 2008, mettendone in evidenza anche rimozioni e contraddizioni. Per giungere a una conclusione che inchioda sì le croci uncinate a terribili responsabilità, ma ha il coraggio di soffermarsi anche su alcuni conti che non tornano nel ricordo delle vittime. Questo libro assomiglia per certi versi allo straordinario I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne (Mondadori), in cui Jan Gross rivelava che ad uccidere i mille e seicento israeliti (i sopravvissuti furono solo sette!) di Jedwabne, un villaggio della Polonia nordorientale, non erano stati i tedeschi, ma esclusivamente i loro «vicini di casa» polacchi. «È impossibile costruire un sicuro senso della nostra autonomia nazionale sulla base di menzogne» , aveva spiegato Gross. «Da parte mia», » , aggiunge Browning, «ritengo che non possiamo sorvolare su queste problematiche solo perché abbiamo delle remore a usare le testimonianze oculari dei sopravvissuti» . Quali problematiche? E che genere di remore? I problemi sono quelli derivanti da alcune contraddizioni della memoria. Ad esempio c’è la questione dei ricordi rimossi. «Sono certo che molti sopravvissuti dell’Olocausto» , afferma Browning, «hanno rimosso — hanno dovuto rimuovere— ricordi traumatici e potenzialmente demoralizzanti» , che all’epoca avrebbero reso loro la vita ancor più difficile e in seguito non sono mai stati recuperati. Si sta parlando dei «dolorosi segreti» : il furto di un tozzo di pane a un compagno di prigionia, l’abbandono di un membro della propria famiglia o di un amico, l’euforia che prendeva quando ci si salvava perché «qualcun altro» veniva portato al macello. Cose comprensibili, più che comprensibili, ma che generavano risentimenti, mai del tutto scomparsi. Di qui le remore. C’è una sorta di tacito consenso per cui questi ricordi di eventi e comportamenti, che potrebbero non essere compresi da chi non ha vissuto in quei gironi infernali, non vanno divulgati; anche perché il semplice raccontarli potrebbe risultare imbarazzante e doloroso per alcuni membri della comunità. E in alcuni casi ci costringe a rivedere il reale andamento dei fatti. Ma se addirittura la Corte suprema israeliana, sulla base di una più attenta rivisitazione delle testimonianze dei sopravvissuti di Treblinka, ha avuto il coraggio di rovesciare la sentenza di condanna di John Demjanjuk, presunto «Ivan il terribile» del campo di Sobibor, è giusto che chi si occupa di quel lontano passato, quando è il caso, faccia lo stesso. Senza voler eguagliare il giudice di Amburgo che assolse Becker, conclude Browning, lo storico ha il dovere di «concedere» che l’utilizzo di quelle testimonianze sui campi di lavoro e quelli di sterminio «comporta seri problemi» . I ricordi della vita della comunità ebraica di Wierzbnik-Starachowice prima della guerra sono già contraddittori. Alcuni hanno memoria di un’intensa vita religiosa e associativa, altri no. Alcuni serbano il ricordo di una forte presenza del sionismo, altri no. Alcuni riferiscono che nel settembre del ’ 39, allo scoppio del conflitto, molti avrebbero voluto trasferirsi nella zona occupata dai sovietici, altri lo negano sostenendo che in quell’area era ancora vivo il ricordo della guerra precedente, quando antisemiti erano i russi, mentre i tedeschi erano «amici» . Cosa c’è di interessante in questi contrasti? Che portano in primo piano il tema della sottovalutazione, in una parte consistente delle comunità ebraiche, del pericolo rappresentato dal nazismo. Circostanza ancor oggi difficile da accettare per chi, proprio per aver non correttamente valutato i rischi, in quell’immane tragedia avrebbe poi perso gran parte della propria famiglia. Ma questo non è niente. C’è, prima delle deportazioni, il ruolo degli Judenrat, i consigli composti da ebrei a cui i nazisti affidarono il compito di amministrare le comunità israelitiche. Gran parte di questi consigli «si poneva un duplice obiettivo: accontentare le richieste dei tedeschi per impedire che le comunità subissero gravi rappresaglie ed escogitare strategie di mitigazione e di sopravvivenza» . In alcuni di essi «emersero personalità con un atteggiamento dominante verso gli ebrei e compiacente verso i tedeschi» . Gli esempi più famosi di «ebrei che abbracciarono zelantemente il principio nazista di dominio» furono quelli di Moshe Merin dell’Alta Slesia orientale e di Chaim Rumkowski di Lodz. Ma ci furono anche casi diversi, con qualche episodio di autentico eroismo, ad esempio quello di Froyim Szachter, capo dello Judenrat di Bodzentyn. Quando i tedeschi gli chiesero informazioni su presunti borsaneristi, lui mise in guardia uno dei sospettati, che riuscì a fuggire. Per questo motivo fu arrestato e trasferito prima a Kielce poi ad Auschwitz, dove trovò la morte. I nazisti fecero di tutto per mettere gli abitanti della Polonia contro gli ebrei. Nel ’ 41, in seguito a un agguato della resistenza polacca contro militari tedeschi, Becker dispose, come rappresaglia, un’impiccagione pubblica di cittadini presi a caso. Le vittime, tra cui alcune donne e almeno una bambina, vennero portate al mercato, costrette a salire su degli sgabelli e a infilare la testa nei cappi. A eseguire l’impiccagione furono obbligati alcuni giovani ebrei, a volto coperto, nel ruolo di boia. La polizia ebraica ebbe il compito di sovrintendere alla regolarità delle esecuzioni. In se- guito fu fatta trapelare l’identità dei «macellai ebrei» . Da quel momento persino i parenti ebbero paura di farsi vedere in loro compagnia per timore di ritorsioni. E quella non fu l’unica volta in cui gli israeliti furono trasformati in carnefici. Un ebreo sopravvissuto, Peretz Cymerman, dopo la guerra ha provato a togliersi il peso di quell’atto, che pure non poteva in alcun modo essergli imputato, raccontando che gli impiccati erano membri dell’Armia Krajowa, un movimento nazionalista decisamente antisemita, responsabile dell’uccisione di numerosi ebrei nascosti: «Sapevo di impiccare persone che se lo meritavano» , si giustificò. Ma lo storico ha accertato che gli omicidi di ebrei da parte dell’Armia Krajowa furono in ogni caso successivi al 1941. Il 1941 è un anno cruciale. Il 22 giugno l’esercito tedesco lancia l’offensiva contro l’Unione Sovietica, l’Operazione Barbarossa, e inizia lo sterminio sistematico di tutti gli ebrei delle zone conquistate. Nel marzo del 1942 prenderà il via la politica di uccisione di tutti gli israeliti, la «Soluzione finale» . A questo punto, nota lo storico, «è assai probabile che coloro che giudicarono le intenzioni dei tedeschi in maniera più pessimistica siano sopravvissuti in numero molto maggiore rispetto a coloro che le negarono aggrappandosi a speranze poco realistiche» . Dal che si deduce che la memoria è monopolizzata da quelli che capirono prima degli altri e si comportarono di conseguenza. Il 27 ottobre del ’ 42 fu il giorno dell’Aktion, cioè la liquidazione del ghetto e la distruzione della comunità ebraica di Wierzbnik. Vecchi e disabili furono uccisi sul posto, gli altri finirono nel campo di lavoro. Grazie al corruttibile Leopold Rudolf Schwertner, responsabile del personale non tedesco nelle industrie di Starachowice, molti ebrei riuscirono a comprare la loro «schiavitù» , cioè l’autorizzazione a lavorare — ovviamente senza essere retribuiti — nelle fabbriche fuori dal lager. Questo genere di operai era proprietà delle SS, che li noleggiavano quotidianamente agli imprenditori. Ma per gli ebrei questi «permessi» erano l’unica occasione per salvarsi dai campi di sterminio. Quanto al campo, il responsabile della polizia ebraica era Jeremiah Wilczek. I giudizi su di lui sono tutti negativi, qualcuno definisce la sua polizia «peggiore di quella dei tedeschi» . Suo figlio Abraham è accusato anche di aver segnalato ai nazisti quali suoi correligionari avrebbero dovuto picchiare per ottenere le informazioni che cercavano. Secondo qualche testimone, però, in un secondo tempo Abraham guidò un tentativo di resistenza nel campo e questo lo riscattò. Ma nessuno ha riabilitato suo padre che, quando il campo di Starachowice fu contagiato da un’epidemia di tifo, indicava ai nazisti chi sospettava essere febbricitante, candidandolo così all’esecuzione sommaria. Il tifo produsse nel campo un clima di terrore e provocò un’ecatombe di malati (o di presunti tali che furono uccisi per paura del contagio) decimando la forza lavoro. Il resto lo fece l’odio intestino che si produsse all’interno della comunità. «Il sistema dei campi» , osserva Browning, «era progettato non solo per dividere i prigionieri, ma anche per metterli uno contro l’altro in una lotta darwiniana per la sopravvivenza; numerosi resoconti di sopravvissuti confermano la logica apparentemente inesorabile di gioco a somma zero, in cui un prigioniero otteneva un guadagno solo a discapito di un altro prigioniero» . Poi, nella primavera del ’ 43, la situazione migliorò. Il nuovo responsabile della sicurezza del campo, Kurt Otto Baumgarten, assieme al suo superiore, Walter Kolditz succeduto all’efferato Willi Althoff, capì che «negoziando ed estorcendo denaro agli operai ebrei, piuttosto che ammazzandoli, poteva incrementare la produzione della fabbrica e arricchirsi» . Himmler era contrario alla pratica dei campi di lavoro forzato ebraici, ma, dal momento che il tasso di assenteismo tra gli operai ebrei era nettamente inferiore rispetto a quello degli operai polacchi e quindi la loro percentuale di produzione era di molto superiore, l’autorità nazista in loco concesse la prosecuzione di quell’attività. Gli ebrei temevano più di ogni altra cosa di finire nella lista degli «inadatti al lavoro» , per le conseguenze letali di quel genere di selezione. E quindi facevano l’impossibile per lavorare sempre di più e sempre meglio. Quando le donne ebree sostituirono le operaie polacche nel settore in cui si producevano detonatori per bombe, la quota giornaliera venne immediatamente raddoppiata da 250 a 500. Gli ebrei avevano comprato la loro schiavitù con l’acquisto dei permessi di lavoro e, per salvare la vita, fornirono manodopera indispensabile per lo sforzo bellico, «prolungando in questo modo la dominazione tedesca» . Le guardie ucraine, nonostante tra loro vi fosse un alto tasso di antisemitismo, dietro compenso consentivano ai prigionieri di uscire di nascosto dal campo, per recuperare i loro soldi e gioielli dai polacchi a cui li avevano affidati alla vigilia della deportazione. E i polacchi in quel momento quasi sempre si comportarono correttamente, a differenza di quel che avrebbero fatto nel dopoguerra, allorché rifiutarono di riconsegnare agli ebrei i loro beni. In quel frangente comunque nel campo poté entrare del denaro. E il denaro creò piccoli privilegi, talvolta fu utile per salvare dei bambini. Ma, in conseguenza di ciò, provocò anche risentimento: chi perse qualche congiunto covò rabbia nei confronti di quelli che, corrompendo, si erano salvati. Si creò la categoria dei Prominenten, cioè di quegli ebrei che occupavano posizioni di una qualche influenza, a cui in più di un caso si concedevano le donne in cerca di protezione e di aiuto. Nei primi mesi del ’ 44 Kolditz fu sostituito alla guida del campo da Willi Schroth, che— sempre facendosi pagare — consentì a nascondere i bambini. Ma tutto cominciò a cambiare quando nell’aprile del ’ 44 giunse al campo un nutrito gruppo di ebrei provenienti da Lublino, i quali «rimasero sbalorditi» che esistesse un posto come quello in cui famiglie ebree— uomini, donne e bambini — vivevano ancora insieme. I lublinesi denunciarono quasi subito all’interno della comunità dei reclusi quel clima di corruzione. Contemporaneamente i partigiani iniziarono a sferrare attacchi sempre più audaci alle guardie ucraine che accompagnavano i prigionieri al lavoro, non già per liberarli ma per impossessarsi delle armi. È l’inizio della fine. Nel luglio del 1944 le truppe dell’Armata Rossa oltrepassano il confine polacco. E viene il momento della chiusura del campo di Starachowiche (anche se i sovietici resteranno bloccati sei mesi sulle rive della Vistola e libereranno la zona solo nel gennaio del 1945). Gli oltre mille prigionieri vengono trasferiti, lungo un viaggio di 220 chilometri, ad Auschwitz Birkenau. La disposizione nei vagoni è opera di quel Becker di cui si è detto all’inizio, che mette gli ebrei «importanti» in un carro speciale. Nel corso del viaggio diciotto di quei Prominenten, tra i quali Wilczek, perdono la vita: per la mancanza d’aria, ufficialmente; ma secondo alcune (molte) testimonianze perché uccisi dai lublinesi. Una vendetta terribile. Giunti a Birkenau, anche lì i sopravvissuti trovano reclusi che si informano (per «regolare i conti» ) delle circostanze in cui alcuni dei nuovi arrivati erano stati dei privilegiati. Altre vendette. E qui la memoria si confonde, nel senso che alcuni di loro ricordano cose che non sono accadute, probabilmente per cancellarne altre molto dolorose. «L’incorporazione a posteriori di immagini ampiamente diffuse» , sostiene Browning, «contribuì forse a creare ricordi nitidi di eventi che in realtà non si verificarono» . Sono i capitoli più delicati del libro, quelli in cui l’autore si misura coraggiosamente con alcune questioni sollevate dalla letteratura negazionista. Ad Auschwitz quel che resta di quella comunità sprofonda nel baratro dell’Olocausto. Ma non finisce qui. I pochi evasi devono evitare di imbattersi nei partigiani polacchi dell’Armia Krajowa, che li respingono o, nel caso finiscano a contatto con alcune unità più radicali, li deruba e li uccide su due piedi. E quando la Polonia viene liberata, di ebrei continuano ad esserne uccisi a centinaia (valga per tutti il pogrom di Kielce del luglio 1946). Li si accusa, adesso, di essere complici dei comunisti. «Le sofferenze patite dagli ebrei durante l’Olocausto minacciavano di oscurare la rivendicazione della Polonia di una doppia vittimizzazione per mano sia di Hitler che di Stalin» , osserva Browning. Il ritorno dei sopravvissuti è avvertito come una insidia dai nuovi proprietari: «Il rifiuto di restituire i beni degli ebrei, dettato dalla semplice avidità, viene legittimato come un atto di patriottismo e di resistenza anticomunista» . I processi agli aguzzini dei Lager hanno poi dell’incredibile e le condanne sono per lo più incredibilmente miti. L’autore scopre che il passato del giudice Wolf Dietrich Ehrhardt, che presiede al processo Becker, non è affatto immacolato come questi lascia credere. E spiega altresì che le testimonianze degli ebrei risultano contraddittorie a causa del peso di quel che è stato scritto lungo tutto il libro. Il fatto è che «l’Olocausto nell’Europa dell’Est non può essere inteso semplicemente come un’aggressione dei tedeschi nei confronti degli ebrei, con il resto della popolazione considerata alla stregua di spettatori» . E noi oggi «non abbiamo il diritto di dare giudizi morali superficiali» , dal momento che in quei campi «il normale mondo morale venne completamente stravolto, in quanto l’assioma fondamentale, "non fare del male", spesso perse di senso» . Il potere nazista «costrinse gli ebrei a un gioco a somma zero in cui ogni prigioniero aveva un ruolo attivo o qualche scelta, ma tutte le scelte avevano conseguenze negative per molti e nessuna scelta garantiva la salvezza» . Se aiutavi qualcuno, di solito era a scapito di qualcun altro. Un mondo, come ha detto Lawrence Langer, di «scelte senza scelta» . Browning riferisce la testimonianza di un sopravvissuto di Starachowice che ancora oggi non riesce a perdonare un suo correligionario di non aver impedito che fosse mandata a morte la sua sorellina. L’uomo a cui non concedeva il perdono era un agente della polizia ebraica, che era cresciuto nella sua stessa strada a Wierzbnik ed era stato da bambino suo compagno di giochi. Secondo lui l’agente di polizia del campo avrebbe potuto salvare la sua giovanissima sorella, dal momento che «c’era un mucchio di gente di fuori che avrebbe potuto mandare al suo posto» . L’agente ebreo è ai suoi occhi ancora oggi quasi più «responsabile» dei nazisti che gli uccisero la sorella. Ecco per quali vie il peso della memoria si è ritorto contro le vittime. Vanificando i processi del dopoguerra contro i carnefici. E giungendo perfino a confondere le carte attraverso le quali si fa la storia. Solo adesso si comincia a dipanare quei nodi e sono benvenuti libri come quello di Browning, che avviano questa fondamentale operazione.

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