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Il Giornale Rassegna Stampa
05.01.2011 Parigi, al Mémorial de la Shoah fino al 20 marzo una mostra su Irène Némirovsky
Consigliamo anche la lettura del libro-intervista 'Sopravvivere e vivere' della figlia, Denise Epstein

Testata: Il Giornale
Data: 05 gennaio 2011
Pagina: 20
Autore: Stenio Solinas
Titolo: «Nella valigia dei sogni di una straniera in patria»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 05/01/2011, a pag. 20, l'articolo di Stenio Solinas dal titolo " Nella valigia dei sogni di una straniera in patria ".


Denise Epstein, Sopravvivere e vivere,  Irène Némirovsky

Insieme alla mostra, consigliamo la lettura del libro Sopravvivere e vivere, di Denise Epstein, figlia di Irène Némirovsky.
Ecco il pezzo di Solinas:

La valigia è questa qui, cinquanta centimetri di larghezza, profon­da quaranta, alta me­no di trenta. È di cuo­io, così come il rivesti­mento del grosso quaderno che in essa era custodito, fitto di una scrittura minuta a doppia pagi­n­a in un bell’inchiostro color ac­qua marina. Mai nella sua disar­mante normalità un semplice oggetto familiare ha saputo con­densare una storia, una memo­­ria, una scomparsa e una resur­rezione. Se il nome di Irène Né­mirovsky è tornato a brillare è grazie al suo ruolo di custode del manoscritto di Suite francese , ri­masto per mezzo secolo in que­sto spazio scelto a caso eppure come su misura. Le vie della let­teratura sono infinite, misterio­se e bellissime per quanto atro­ci.
Al Mémorial de la Shoah, la mostra «Irène Némirovsky: “Il me semble parfois que je suis étrangère”»(fino al 20 marzo)al­linea documenti, fotografie, arti­coli, lettere, prime edizioni, ma­nifesti cinematografici che rico­struiscono una vita all’insegna della differenza, se non della estraneità. Bambina, odia la sua infanzia, una madre che non la ama e che lei detesta, un padre perennemente in viaggio d’affa­ri. Nata in Ucraina, è ancora ado­lescente e già la deve lasciare, la rivoluzione bolscevica che fa fuori l’odiata borghesia: ma lei, di origine ebrea, si sente comun­que russa per caso, la sua prima lingua è il francese e la Francia la patria dell’anima. È a Parigi, do­ve i genitori si stabiliscono, che infatti studia e si laurea, pubbli­ca i suoi primi racconti, fa il suo
debutto in società, va a ballare e si innamora, si fidanza e si spo­sa, mette al mondo i suoi figli. Si sente francese, ma non lo è, non si sente ebrea, ma per gli altri lo è, ed è su questa duplice contrad­dizione che si dipana il filo tragi­co di una vita. Da David Golder a Il ballo , a I cani e i lupi il suo uni­v­erso letterario è fatto di stranie­ri indesiderati e indesiderabili, raccontati senza pietà, ma con tenerezza, di una Francia in crisi economica e morale in cui lo specchio della xenofobia è quel­l­o dove ogni giorno i suoi cittadi­ni si riconoscono.
Alle accuse di antisemitismo risponde indignata e insieme or­gogliosa: chi critica la borghesia terriera della Francia profonda è per questo antifrancese? si chie­de. Il compito di un romanziere è raccontare, creare dei perso­naggi, non preoccuparsi di una ideologia o di una politica. Una giornalista di
L’univers israelite venuta a intervistarla dopo il fol­gorante quanto dibattuto suc­cesso del suo romanzo d’esor­dio, quel David Golder dove l’os­sessione per il denaro del suo protagonista la fa da padrone, conclude a malincuore: «Certo, non è antisemita. Così come non è ebrea».
Nella Francia fra le due guer­re, dove il meticciato ideologico regna sovrano e spesso si parte
da destra e si finisce a sinistra, co­me Paul Nizan, da maurrassia­no a comunista, o viceversa co­me Drieu La Rochelle, da sociali­sta a fascista, la giovane Irène è naturaliter più vicina a chi dal co­munismo è comunque più lon­tano: lo è in quanto esule da una nazione dove quel comunismo ha trionfato nel sangue, lo è per gusti, letture e frequentazioni, per stile di vita si potrebbe dire. La lotta di classe non le appartie­ne, la palingenesi sociale nem­meno. Allo stesso tempo è una narratrice pura e una narratrice di professione, la scrittura come mestiere quando le difficoltà economiche, la malattia del ma­­rito, cominciano a intaccare le ri­sorse familiari. In mostra c’è la lettera, inge­nua e dolorosa, che Irène Némi­rovsky scrive al maresciallo Pe­tain. È il 1940, Petain è da tre me­si il nuovo presidente del consi­gli­o di una Francia sconfitta e oc­cupata dai tedeschi, c’è stato l’ar­mistizio e nel «nuovo ordine» che l’anziano ufficiale promette ai suoi connazionali si sa già che per gli ebrei non ci sarà posto. «Non posso credere, signor Ma­resciallo, che non si faccia alcu­na distinzione fra gli indesidera­bili e gli stranieri degni d’onore che, se hanno ricevuto dalla Francia un’ospitalità regale so­no anche coscienti di aver fatto ogni sforzo per meritarla. Quan­to a me, ho fatto del mio meglio per farla conoscere e amare». La Francia è il suo Paese, «perché Dio mio mi fa questo?» si chiede­rà due anni dopo, mentre lavora a Suite francese , il romanzo che scrive come se fosse «su una lava ardente» e che in cuor suo già sa non riuscirà a finire. «Poiché mi rifiuta, consideriamola fredda­mente, vediamola perdere il suo onore e la sua vita».
Via via che la rete della depor­tazione forzata si stringe intorno a lei e alla sua famiglia, Irène al­terna delusioni e speranze.
Con­tinua a pubblicare, sia pure sot­to pseudonimo, e quindi in qual­che modo continua a esistere e forse la lasceranno vivere... Il suo nome non figura né nella pri­ma né nella seconda «Lista Ot­to », dove c’è l’elenco degli scrit­tori ebrei messi all’indice, e que­sto vorrà pur dire qualcosa... Il suo editore, Albin Michel, nella persona di André Sabatier, che sovrintende alla narrativa, conti­nua a darsi da fare, anche econo­micamente, amici come Hélène e Paul Morand, ben visti da Vi­chy e dai tedeschi, non l’hanno abbandonata... Il giorno in cui l’arrestano e la trasferiscono al campo d’internamento di Pithi­viers, sul settimanale petainista Prèsent esce il suo ultimo raccon­to, Le vergini , firmato Dénise Mérande. «Guardatemi. Ora so­no sola come voi, ma non per una solitudine scelta, ricercata, ma per la solitudine peggiore, fatta di amarezza e di umiliazio­ne, la solitudine dell’abbando­no e del tradimento». Di lì a po­chi giorni sarà ad Auschwitz, tempo un mese morirà: di tifo, di­ce il certificato medico.
E la valigia? Quando dopo Irè­ne verranno a prendere anche il marito, al momento di staccarsi dalla figlia maggiore, allora tredi­cenne, le sue ultime parole di pa­dre saranno: «C’è la valigia che contiene il quaderno della mam­ma, non te ne devi mai separa­re ». La scrittura come primo e unico rifugio, l’unica cosa che non l’avesse mai tradita, la sola cosa per cui valesse ancora la pe­na di lottare.

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