Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/01/2011, a pag. 17, l'articolo di Glauco Maggi dal titolo " Le donne afghane in tv si confessano mascherate ".
Vita quotidiana delle donne in Afghanistan
Niqab, «maschera» in afghano, è il titolo di un reality show della tv di Kabul, con un potenziale rivoluzionario impensabile solo qualche anno fa. «Facile» è stabilire, come è stato fatto nella Costituzione approvata dopo la cacciata dei talebani, che il 25% dei seggi in Parlamento spetti alle donne. E anche riaprire le porte delle scuole alle ragazze, riportandone oltre un milione sui banchi, è stata una decisione politico-istituzionale «ovvia». Ma ben altro coraggio ci vuole per scalfire l’incultura oscurantista secolare, cementata dal fondamentalismo ultrareligioso islamico, nella vita di tutti i giorni delle famiglie. Ed è ciò a cui può assistere il pubblico da qualche giorno, se il telecomando non è sequestrato dai maschi: mogli e figlie abusate e stuprate, comprate e vendute come bestie, sfilano sul palco dello studio disadorno e raccontano le loro orribili storie.
Se il burqa ne costringe tantissime all’umiliazione della esclusione dagli occhi del mondo, la maschera che portano le donne durante lo show è invece insieme difesa e denuncia. Mezza bianca, segno dell’innocenza, e mezza azzurra, il colore dell’oppressione, la «Niqab» protegge la loro identità mentre liberano l’animo dal peso delle vergogne subite. Lo spettacolo, di cui la Cnn ha riferito da Kabul offrendo un video dalla carica emotiva choccante (http://afghanistan. blogs.cnn.com/2011/01/03/battling-abuse-from-behind-a-mask/) è un atto di coraggio che fa onore al giovanissimo ideatore della trasmissione, il ventottenne regista Sami Mahdi, ma soprattutto alle ospiti-vittime.
«Avevo tanti sogni per la mia vita, ma quando ho visto lui tutto è sparito», è la testimonianza di Saraya. Seduta di fronte alla conduttrice parla con voce calma: nelle due piccole fessure della maschera si indovinano occhi senza più speranza per sé. Ma c’è la forza di voler far bene ad altre donne, a chi i propri sogni può ancora realizzarli. «Dissi a mio padre che non volevo sposarlo: perché mi fai questo? E lui: tu hai l’età per essere maritata e questa decisione spetta a me, non a te». Saraya aveva 15 anni al tempo, e le bastarono tre giorni per capire che il babbo l’aveva fatta sposare a un notorio stupratore di 58 anni, già condannato per violenze.
«Quando mia figlia aveva quattro anni, mio marito portò delle donne in casa e le violentò. Chi sono quelle, mi chiese lei? Non potevo risponderle, mio marito mi avrebbe coperto di botte».
A Mahdi l’ispirazione allo show è venuta da sua madre. «Per la gente il suo lavoro non vale nulla, ma lei fa molto di più di quanto non faccia io. E non parlo solo di mia madre, ma di tutte la mamme afghane. Ce ne sono migliaia nella stessa condizione: non hanno lingua, non hanno voce per parlare di ciò che sopportano». Aggiunge il regista: «Non sono sicuro di riuscire a fare qualcosa per le vittime, per quelle che vengono in tv e discutono della loro vita: penso che costoro siano destinate a subire in eterno. Ma possiamo usare le esperienze di queste persone come esempi da mostrare alla gente, e credo che ciò possa produrre qualche cambiamento nella vita delle donne. Sono anche convinto che ciò possa modificare la mentalità degli uomini».
Al programma partecipano esperti legali e personalità islamiche. Per esempio, un esperto ha detto a Saraya che il suo «matrimonio ad una età tanto giovane con un uomo più vecchio è contro l’Islam, e che il comportamento dell’uomo è illegale e contro la religione». Ma essere dalla parte della legge e dover vestire una maschera per parlare dei propri diritti e dei soprusi subiti è la realtà delle donne afghane di oggi, in marcia verso un futuro ancora lontanissimo.
Almeno il 59% dei matrimoni nel sondaggio più recente della organizzazione non governativa «Women and Children Legal Research Foundation» sono forzati, e di questi il 30% appartengono alla specie delle nozze «di scambio» o «badal». Sono i casi in cui un maschio dà una figlia, una sorella o una donna su cui ha il «controllo familiare» ad un maschio di un’altra famiglia, per avere in baratto una figlia o parente di quel clan. Al 17% ammontano i matrimoni cosiddetti di «riparazione»: sono quelli in cui chi ha commesso un crimine contro una famiglia, per esempio ammazzandone un membro, può «risarcire» la parte offesa dando una giovane della propria famiglia ad un parente della vittima. «Durante la registrazione della seconda puntata», ha detto Mahdi, è stata documentata proprio una situazione di questo genere. «L’ospite era una signora che aveva 12 anni quando è stata data come sposa in un matrimonio «badal». Suo fratello aveva ucciso un uomo, e la ragazzina era stata ceduta alla famiglia della vittima». Quando la poveretta ha parlato degli abusi e delle torture che era stata costretta a subire nella sua nuova «famiglia», tutti gli operatori di sala e il pubblico si sono messi a piangere. «Ci sono un sacco di brutte cose che capitano in Afghanistan, ma quando parli di queste realtà in pubblico la gente rimane scioccata. Io sono stato scioccato», ha raccontato Mahdi.
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