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Il Manifesto Rassegna Stampa
02.01.2011 Parla il nipote di Arafat, menagramo quanto lo zio
Gli applausi di Michele Giorgio

Testata: Il Manifesto
Data: 02 gennaio 2011
Pagina: 9
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Abu Mazen sveglia, è l'ora delle scelte»

Poteva il MANIFESTO dare la notizia della strage di cristiani ad Alessandria d'Egitto senza tirare in ballo Israele ? certo che no, infatti le pagine 8 e 9 ospitano un pezzo di Michele Giorgio a pag.8, nel quale più che riconoscere le responsabilità del terrorismo islamico se ne cercano le giustificazioni, mentre tra 8 e 9 ci sono ben cinque pezzi su Israele, di lunghezza differente, con il pezzo forte che qui riprendiamo, dovuto sempre alla tastiera di Michele Giorgio, dal titolo " Abu Mazen sveglia, è l'ora delle scelte ", un lungo panegirico che intende dettare la 'linea' all'Anp, attraverso le opinioni del nipote di Arafat, tale Nasser Kudwa. Confuse come come la politica palestinese.
Ecco il pezzo:


Arafat nella fase del rimbambimento. Michele Giorgio intervista il nipote

 

«Il governo dell’Anp deve essere di Fatah non diministri indipendenti. Hamas ha il suo governo a Gaza, perché Fatah non può far parte dell’esecutivo in Cisgiordania?».Nasser Kudwa pone interrogativi misurando le parole, prova a non polemizzare con i vertici di Fatah. Ma non riesce a darsi una spiegazione della decisione del presidente dell’Anp AbuMazen di rinviare ancora una volta il rimpasto del governo di Salam Fayyad (non di Fatah), formalmente tecnico e nato nel clima torrido del giugno 2007, quando Hamas prese il potere nella Striscia di Gaza. Ex ministro degli esteri, ex rappresentante dell’Olp alle Nazioni Unite, nipote del presidente scomparso Yasser Arafat, capo delle delegazione palestinese che nel 2004 ottenne dall’Alta Corte diGiustizia dell’Aja la condanna delMuro israeliano, Nasser Kudwa oggi è responsabile della «Fondazione Arafat » a Ramallah. Una sorta di rifugio dal disfacimento di Fatah, un tempo principalemovimento politico palestinesema che oggi è solo un pallido ricordo di un passato in fondo non troppo lontano. Non bastano a nascondere l’amara realtà le immagini delle celebrazioni dell’anniversario di Fatah che si stanno svolgendo in queste ore nei Territori occupati e nei campi profughi palestinesi. Il movimento legato alla figura di Yasser Arafat è dilaniato da lotte intestine da sfide tra leader che nella maggior parte dei casi sono anche dirigenti dell’Anp, da ambizioni sfrenate di esponenti vecchi e giovani. Resta un miraggio la riconquista del potere quando si svolgeranno nei Territori occupati le nuove elezioni legislative (quelle del 2006 furono largamente vinte da Hamas). Nasser Kudwa scuote la testa. La convocazione, dopo quasi venti anni, del Congresso di Fatah dell’agosto 2009 aveva alimentato speranze di rinnovamento, aveva illuso la base sulla fine dell’appiattimento del movimento sulla linea del governo dell’Anp fedele esecutore, oltre ogni logica politica, delle imposizioni statunitensi, a cominciare dal ruolo in Cisgiordania delle forze di sicurezza palestinesi in crescente coordinamento con quelle israeliane. «È cambiato poco» - ammette il direttore della «Fondazione Arafat» - «trovo incomprensibile la mancanza di elaborazione politica e diplomatica da parte di un movimento che per vocazione dovrebbe lavorare per realizzare le aspirazioni palestinesi ». Kudwa riconosce al governo Fayyad di aver fatto «cose buone », ma vorrebbe che Fatah lanciasse al più presto una propria proposta togliendo l’iniziativa al premier che nel 2009 ha varato un piano biennale per la costruzione dello Stato di Palestina. Un piano che giudica «non realistico». «Sotto occupazione israeliana è arduo se non impossibile realizzare il sogno dei palestinesi – dice Kudwa - lo stesso vale per la ricostruzione della nostra economia. Ogni sforzo rischia di essere vanificato dalle politiche di Israele, il nostro impegno deve perciò essere rivolto a mettere fine, in modo totale, ad ogni aspetto dell’occupazione». L’ex ministro degli esteri non guarda con favore anche ad una possibile dichiarazione unilaterale di indipendenza palestinese alle Nazioni Unite, più volte minacciata dall’Anp ma mai arrivata al Palazzo di Vetro, di fronte ai riconoscimenti giunti di recente da diversi paesi sudamericani. «Non abbiamo bisogno di atti simbolici- spiega Kudwa- piuttosto dobbiamo lavorare assieme a tutte le forze che credono nella legalità internazionale per realizzare ogni aspetto del diritto (in Palestina), a partire dalla lotta contro le colonie israeliane fino al Muro, dalla confisca delle nostre terre alla difesa delle risorse naturali palestinesi. Solo all’interno di un’ampia campagna per l’applicazione del diritto internazionale in questa terra può trovare attuazione concreta la nostra dichiarazione di indipendenza». Dal suo piccolo ufficio nella «Fondazione Arafat» Nasser Qudwa lancia un invito ai leader di Fatah (e dell’Anp) a invertire la rotta, a cambiare passo, a recuperare la credibilità perduta. Ma la nave di Fatah naviga in acque sempre più agitate e rischia il naufragio. L’ultimo Consiglio rivoluzionario del movimento ha imposto, con una risoluzione, ad Abu Mazen di tenersi lontano dai tavoli della diplomazia sino a quando il premier israeliano Netanyahu non cesserà di far costruire case ai coloni nei Territori occupati palestinesi. E ha anche chiesto con forza l’ingresso di esponenti di primo piano di Fatah all’interno del governo Fayyad. Ma l’atteggiamento del presidente dell’Anp (e di Fatah) è ambiguo. Le pressioni americane ed europee gli impongono di non toccare in alcunmodo Fayyad (punto di riferimento dei governi occidentali) mentre la condizione posta dai palestinesi di uno stop completo dell’edilizia israeliana nei Territori occupati prima del negoziato diretto si scontra con il consueto atteggiamento morbido e compiacente di Washington nei confronti di Tel Aviv. Un quadro desolante al quale si aggiunge la lotta in corso tra Abu Mazen e il 50enne Mohammed Dahlan, ex «uomo forte» di Fatah aGaza, che dopo un periodo di appannamento seguito alla fuga dalla Striscia è riuscito a formare una sua corrente in Cisgiordania, grazie all’aiuto di sponsor economici arabi. Uno scontro - tra un presidente uscente (da due anni oltre il suomandato) senza carisma e debole e un rampante esponente politico che da un lato inneggia al rinnovamento e dall’altro usametodi da capoclan ombre sul futuro dei palestinesi - che getta ombre sul futuro dei palestinesi.

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