Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 28/12/2010, a pa. 1-33, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " I cristiani e il peccato colonialista ".
Vittorio Emanuele Parsi scrive : "La religione cristiana viene cioè strettamente associata all’Occidente e al suo predominio politico, più o meno prolungato e lontano: presentata, per alcuni forse vissuta, come la religione dei conquistatori". E' vero che alla base delle persecuzioni di cristiani da parte dell'islam c'è lo scontro di civiltà, ma è impossibile ricercare in un atto criminale delle motivazioni culturali come l'associazione dei cristiani agli antichi colonialisti europei.
Gli islamici massacrano i cristiani perchè è ciò che dice la loro religione, obbligare alla conversione chi non è islamico o ammazzarlo.
Ecco il pezzo:
Vittorio Emanuele Parsi
Le stragi di cristiani avvenute in Nigeria tra Natale e Santo Stefano hanno evidentemente motivazioni riconducibili anche a dinamiche locali, ma allo stesso tempo si inseriscono in quella lunga scia di violenze anticristiane accoratamente denunciate dal Papa domenica scorsa. Dal Pakistan all’India, dall’Iraq all’Egitto, dal Sudan alla Nigeria, appunto, sembra che la tolleranza verso quelle che pure sono talora corposissime minoranze di antico insediamento sia sempre meno praticata.
Sarebbe evidentemente sbagliato fare di ogni erba un fascio, eppure un elemento comune a queste esplosioni di selvaggia violenza, mi pare possa essere individuato: dovunque sono perseguitati, i cristiani vengono considerati cittadini di second’ordine, la cui piena e leale appartenenza alla comunità politica è continuamente messa in dubbio proprio a causa della loro adesione a una fede presentata come culturalmente aliena alla tradizione autenticamente «autoctona». E questo è vero anche laddove, come in Cina, la persecuzione non ha bisogno di ricorrere allo spargimento di sangue.
La religione cristiana viene cioè strettamente associata all’Occidente e al suo predominio politico, più o meno prolungato e lontano: presentata, per alcuni forse vissuta, come la religione dei conquistatori. Una tale identificazione assoluta tra il cristianesimo e l’Occidente, è resa possibile attaccando il «punto debole» comune a tutte le grandi religioni, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra i loro elementi propriamente teologici universalisti e il loro costrutto culturalmente e geograficamente determinato. Ed ecco allora che il cristianesimo, esattamente come l’islam, è ovviamente una religione universale, ma è stato culturalmente costruito da segni, categorie, concetti e parole occidentali (né più né meno di quanto l’islam sia stato edificato con «mattoni» culturali arabi). L’intreccio tra cristianità e cultura occidentale è quello che per quasi un decennio ha alimentato la polemica sulle «radici cristiane dell’Europa», tanto oggettivamente evidenti, a parere di chi scrive, quanto oggi è altrettanto oggettivamente problematico il rapporto tra l’Europa e le religioni. Se il messaggio teologico contenuto in religioni come il cristianesimo o l’islam è il vettore che rende queste ultime potenzialmente universali, il loro costrutto culturale è quello che ne provoca l’attrito, che ne indebolisce concretamente la capacità di diffusione. Così, a mano a mano che ci si allontana da quell’Occidente dove la «particolarità geografica» dei segni culturali di cui la religione cristiana è intessuta non risalta (perché si «confonde» con altri costrutti culturali), la concreta valenza universale dei suoi contenuti specificamente religiosi si attenua, rendendo più facile la collocazione del cristianesimo all’interno di quella cultura occidentale rifiutata programmaticamente come ultimo prodotto della dominazione coloniale.
Non può sfuggire che, se la rivolta contro il retaggio coloniale occidentale che accomuna l’Asia all’Africa risale alla metà del secolo scorso, essa è rinfocolata e dirottata dall’uso politico della religione, che si traduce sempre e comunque nel piegare un messaggio universale al proprio contesto particolare. È ovvio che chi sceglie questa strada guarda per istinto e per calcolo politico alla dimensione culturale della religione altrui, per classificarla non solo come erronea ma come aliena alle tradizioni culturali autoctone. Se da un punto di vista occidentale può apparire un paradosso che società come le nostre, descritte o percepite come sempre più scristianizzate, si vedano ascrivere la religione cristiana come un proprio elusivo prodotto culturale, dal punto di vista di chi rivendica un’autocollocazione esterna ai valori occidentali, l’operazione ha un suo senso politico, oltre ad avere una utilità non trascurabile per le classi dirigenti di quei Paesi, o per alcune frazioni di esse. Queste ultime infatti, alimentando la contrapposizione al «cristianesimo occidentale», possono più facilmente screditare i valori del rispetto dei diritti umani, della democrazia e della libertà, che vengono artatamente presentati come subdoli strumenti del predominio occidentale e possono invocare in nome di valori proposti come «indigeni, autoctoni o locali» una pretesa maggiore sintonia con i popoli che governano o aspirano a governare. E una simile tentazione si fa sempre più invitante via via che sembra palesarsi un declino della governance euro-americana sul sistema politico internazionale, che lascia intravedere la possibilità (incubo per alcuni, sogno per altri) di una sua progressiva de-occidentalizzazione.
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