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Il Foglio Rassegna Stampa
22.12.2010 Israele-Turchia: gli affari sono affari, la diplomazia no
Gli sforzi dell'Anp per il riconoscimento internazionale

Testata: Il Foglio
Data: 22 dicembre 2010
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Tra Israele e Turchia gli affari sono cresciuti del 30%»

Gli affari sono affari, la regola vale per tutti, i rapporti economici Israele-Turchia non fanno eccezione. Altra cosa i rapporti politici. Ne scrive diffusamente il FOGLIO oggi, 22/12/2010, a pag.3, con il titolo " Tra Israele e Turchia gli affari sono cresciuti del 30%". Nello stesso pezzo una analisi sul riconoscimento dello stato palestinese.

sul problema dei confini, la Cartolina da Eurabia di Ugo Volli di oggi.


il passato e il presente

Gerusalemme. La diplomazia mediorientale ha preso nelle ultime ore direzioni inaspettate, su diversi fronti. Le tensioni tra Turchia e Israele continuano a sgonfiarsi e di nuovo irrobustirsi. Eppure, nonostante l’amicizia tra i due paesi abbia subito forti colpi negli ultimi mesi, i dati economici rivelano che gli uomini d’affari della regione non considerano la politica come un ostacolo ai loro commerci. Secondo dati del ministero israeliano del Commercio, rielaborati dall’Ufficio centrale delle statistiche – l’Istat locale – il volume di scambi tra Israele e Turchia nel 2010 sarebbe cresciuto del 30 per cento rispetto all’anno predecente. L’invio di aiuti da parte di Ankara per spegnere il peggior incendio della storia israeliana, che ha devastato a nord il monte Carmelo due settimane fa, sembrava avere riaperto un diffidente dialogo tra il governo di Benjamin Netanyahu e quello di Recep Tayyip Erdogan. Le relazioni tra Israele e Turchia, soltanto fino a pochi mesi fa salde e cordiali, si sono deteriorate a maggio, quando un raid israeliano contro una nave che si preparava a violare l’embargo marittimo davanti alla Striscia di Gaza ha ucciso nove passeggeri. Il rilassamento delle tensioni dovuto alla collaborazione durante l’incendio non è durato a lungo. Secondo i mass media turchi, il governo non ha apprezzato la firma di un accordo tra Israele e Cipro, con cui Ankara ha un conflitto a bassa intensità aperto da decenni. L’intesa riguarda la demarcazione di una zona economica esclusiva e lo sfruttamento di gas e petrolio a largo delle coste dei due paesi. Così sarebbero ripresi gli screzi tra diplomatici, mentre il presidente americano, Barack Obama, in un’intervista via e-mail al sito internet del quotidiano turco Hurriyet, chiede ai due vicini di ricostruire i rapporti, “oggi più importanti che mai”. Eppure, nonostante l’insistenza delle notizie poco matticonfortanti in arrivo dalle cancellerie, gli scambi commerciali tra i due paesi non sembrano essere toccati dagli alti e bassi della politica.Non si stupisce Menashe Carmon, presidente dell’Israel Turkey Business Council, che spiega al Foglio come il volume di scambi commerciali non sia stato direttamente influenzato dalla situazione politica degli ultimi mesi. “Chi fa affari compra e vende quando i prezzi sono buoni. Si tratta di relazioni tra aziende, non di relazioni tra governi. E la situazione politica non è così critica come la dipinge la stampa internazionale”. Israele esporta verso la Turchia soprattutto prodotti chimici, tecnologia e strumenti medici e importa metallo, automobili, prodotti agricoli e cibo. I numeri più bassi relativi al 2009, racconta Carmon, sono legati anche alla crisi finanziaria globale. “Certo – ammette – il settore del turismo è stato contagiato in negativo dalla politica e anche gli investimenti. Chi stava per aprire un business ha deciso di aspettare”. Controffensiva diplomatica In queste ore si gioca anche un’altra partita regionale, i cui ultimi sviluppi sono inaspettati. Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano Haaretz, il ministero degli Esteri israeliano avrebbe ordinato al suo corpo diplomatico di lanciare un’operazione “di difesa” contro gli sforzi palestinesi in favore del riconoscimento di uno stato. Diverse nazioni del Sudamerica – Brasile, Argentina, Bolivia e secondo i giornali israeliani presto anche Ecuador – hanno annunciato recentemente il riconoscimento dello stato palestinese sui confini del 1967. L’operazione è stata subito condannata dal governo di Netanyahu. Il viceministro degli Esteri Danny Ayalon avrebbe passato le ultime ore al telefono, cercando di convincere i suoi omologhi in Cile e in Messico a non imitare i vicini. Il governo sembra più preoccupato delle notizie che potrebbero arrivare dall’Europa. Alcuni membri dell’Unione hanno accordato alle rappresentanze locali dell’Autorità nazionale palestinese il riconoscimento di “delegazione diplomatica”, come rappresentanti di uno stato. Dopo Francia e Spagna, la Norvegia ha da poco annunciato il salto di livello. Sempre secondo Haaretz, Israele teme che i palestinesi stiano facendo pressioni su una decina di altri governi europei, tra i quali Germania, Finlandia, Lussemburgo, Svezia. In un cablogramma, il ministero avrebbe chiesto al suo corpo diplomatico di tentare di arginare tre iniziative palestinesi che colgono un po’ di sorpresa Israele. In seguito all’ennesimo collasso dei colloqui diretti, mediati da Washington, l’Anp sembra intenzionata a muoversi sul campo della diplomazia: spinge per una risoluzione di condanna delle costruzioni negli insediamenti israeliani presso il Consiglio di sicurezza, che potrebbe essere presentata già questa settimana; fa pressioni affinché nuovi paesi sudamericani riconoscano uno stato palestinese; lavora per l’innalzamento dello status delle proprie rappresentanze in Europa. Eppure, racconta scettica Diane Buttu, ex consigliere dell’Autorità nazionale, la leadership palestinese sembra agire senza un piano, senza una strategia. “Da una parte l’Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina, vuole i negoziati, e siccome non arrivano, pensa a un’alternativa, che però non è chiara. Dall’altra parte ci sono l’Anp e il premier Salam Fayyad che tentano di costruire le istituzioni di uno stato, per poter dire: ‘Ecco, siamo pronti”. Eppure non è facile capire quali siano queste istituzioni. Inoltre, ci sono sforzi per spingere più paesi a riconoscere uno stato. Manca però una strategia globale: si fanno pressioni all’Assemblea generale? Si pensa a una dichiarazione unilaterale? Si lavora sulla costruzione di istituzioni nazionali? Qui sembra che tutti questi sforzi sconnessi abbiano per ora come solo obiettivo quello di riportare Israele al tavolo del negoziato”.

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