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Il Foglio Rassegna Stampa
21.12.2010 Amburgo, la città preferita dai terroristi islamici per ritrovarsi
Già frequentata da Mohammed Atta, terrorista dell'11 settembre

Testata: Il Foglio
Data: 21 dicembre 2010
Pagina: 5
Autore: Andrea Affaticati
Titolo: «Chiamatela Amburghistan»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/12/2010, a pag. I, l'articolo di Andrea Affaticati dal titolo "Chiamatela Amburghistan".


Mohammed Atta, terrorista dell'11 settembre, Amburgo

Tre settimane dopo l’allarme terrorismo lanciato dal ministro dell’Interno tedesco Thomas de Maizière, all’aeroporto di Amburgo – uno dei possibili obiettivi che venivano indicati, oltre al Reichstag di Berlino – si respira un’aria di sostanziale normalità. Niente più esercito di poliziotti dotati di mitraglietta e anche il centro città non appare in eccessivo stato di allerta. A dire il vero, già qualche giorno dopo l’appello del ministro, Jörg Ziercke, capo della polizia federale, dichiarava in una conferenza stampa tenutasi proprio ad Amburgo, in conclusione di un vertice dei ministri dell’Interno regionale, che non c’era motivo di isterismo. Lui certo non avrebbe rinunciato ad andare come ogni anno ai mercatini di Natale. Come sempre in questi casi, concludeva Ziercke, le forze di sicurezza si trovano a un bivio: dare credito alle ipotetiche minacce, oppure leggerle come una manovra per diffondere il panico. Un rovello che sembra attanagliare da sempre proprio la città di Amburgo. Qui, nel 1998, si costituì la cellula di Mohammed Atta, mente e uno dei dirottatori dell’11 settembre. Da qui, negli ultimi nove anni, sono partiti diversi gruppi di aspiranti martiri della guerra santa. E proprio le confessioni di due membri dell’ultimo gruppo, partiti nella primavera del 2009 e catturati quest’anno, sembrano essere all’origine dell’allarme di metà novembre. Tutti loro, da quelli del primo commando di morte guidato da Atta fino ai componenti dell’ultimo viaggio, hanno poi un comune denominatore, e cioè una moschea di Amburgo: la al Qud (che in arabo significa Gerusalemme) ribattezzata poi Taiba. Eppure, per chiuderla ci sono voluti nove anni. Solo all’inizio di agosto di quest’anno le sono stati messi i sigilli. Manfred Murck, vice capo del Verfassungsschutz, i serivizi di sicurezza della regione, in una recente intervista alla Cnn aveva detto che per i giovani islamisti di tutta Europa, ma anche americani, era diventato praticamente un sogno potersi inginocchiare sul tappeto sul quale aveva pregato Atta. Murck lo incontriamo nel suo ufficio situato a pochi minuti dal centro. La prima domanda è obbligata, anche alla luce di quella fascinazione di cui lui stesso parla. Perché c’è voluto tutto questo tempo per chiudere la moschea? Perché hanno potuto continuare a organizzarsi indisturbati, qui, gruppi di jihadisti, senza che le forze dell’ordine e i servizi di sicurezza li fermassero? Com’è che l’imam tedesco-siriano Mamoun Darkazanli, nel mirino dei servizi segreti americani e tedeschi da prima del 2001, vive tuttora indisturbato in città? Murck è un signore di mezza età, molto disponibile, ma che non ama conclusioni affrettate. Lo irritano domande del tipo: “Perché Atta e i suoi, e a seguire tutti gli altri, hanno scelto proprio Amburgo? Cos’ha questa città rispetto ad altre per attirarli tutti?”. La risposta è secca: il problema è mal posto. “Il fatto che qui si siano venute a formare cellule terroristiche non ha nulla a che vedere con la città in sé, nulla con il porto, nulla con la sua economia”, spiega. Quartieri, moschee e problematiche simili ci sono anche a Colonia o a Berlino, basta pensare a Neukölln. Già, ma negli ultimi anni sono sempre stati quelli partiti da Amburgo ad aver conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. “E’ il mutamento nella politica estera che ha portato alla formazione di questi gruppi. La moschea al Qud ha avuto un effetto catalizzatore. Amburgo è diventata uno dei palcoscenici del cultural clash che si è però cristallizzato e manifestato anche in altre metropoli”, ribatte di nuovo Murck. La casualità è dimostrata anche dal fatto che Amburgo, pur essendo la seconda città più grande del paese, conta giusto 250 mila persone con passaporto straniero. Se si vogliono veramente capire alcuni perché, allora bisogna concentrarsi sulla tipologia dell’ultima ondata di immigrati. Spesso provenienti dal Maghreb o comunque da paesi in cui ci sono state guerre civili: Algeria, ex Jugoslavia, molte delle repubbliche ex sovietiche. Le statistiche parlano di 1.200 musulmani residenti qui, duemila appartengono a gruppi islamisti, 200 sostengono l’islamismo armato, mentre 45 sono inseriti nella lista dei jihadisti. Se il quadro sembra chiaro, meno chiaro risulta perché le forze dell’ordine e di sicurezza della città sono raramente riuscite a mettere le mani su questi soggetti. Che per giunta si sono sempre conosciuti e poi aggregati nella Taiba, anche se attorno a quella moschea ce ne sono almeno altre venti. In questo caso Murck ammette che il quadro normativo tedesco, il suo garantismo, non ha reso il compito facile. Emblematico da questo punto di vista è il caso di Darkazanli, figura storica della scena più radicale dell’islam ad Amburgo. Fino a poco tempo fa Darkazanli figurava sulla lista dei terroristi del Consiglio di sicurezza dell’Onu; già prima degli attentati dell’11 settembre veniva tenuto d’occhio. Si dice che abbia, a suo tempo, acquistato per conto di Osama bin Laden l’imbarcazione Jennifer; che sia stato coinvolto negli attentati del 1998 in Kenya e in Tanzania. L’Fbi trovò il suo nome nell’agenda di Wadi Hage, il segretario personale di Bin Laden. Nel 1999, sempre gli americani rintracciarono contatti tra lui e uno studente di nome Marwan, cioè Marwan al Shehhi, uno dei dirottatori dell’11 settembre. Contatti stretti Darkazanli pare averli avuti anche con il siriano- tedesco Mohammed Zammar, sospettato di essere uno dei reclutatori per conto di al Qaida. Zammar, già indagato dalla magistratura di Amburgo, fu però arrestato nel dicembre del 2001 a Casablanca e portato dagli americani in una prigione siriana dove tuttora si trova. C’è chi sostiene che Darkazanli non sia mai stato sottoposto a un vero interrogatorio. Recentemente c’è stata poi quella strana vicenda di un ladruncolo introdottosi in un orto di periferia, dove pare abbia trovato documenti compromettenti riguardanti Darkazanli. Preso dalla paura li ha portati alla polizia. Della vicenda non si è più saputo nulla. E anche alle richieste della Spagna di estradarlo, la magistratura non ha dato seguito. Sospetti molti, moltissimi, hanno sempre replicato da Amburgo, ma né Blackwater, né la Cia hanno fornito prove che potessero inchiodarlo. Così nel 2005 la procura generale della città archivia il suo fascicolo. In compenso quella di Karlsruhe ne ha aperto da poco uno riguardante l’ipotesi di un complotto ordito da Blackwater e Cia per uccidere Darkazanli. E cosa fa, ora che anche la Taiba, dove da tempo guidava la preghiera del venerdì, è stata chiusa? Dicono che sia sempre più isolato. Può darsi, certo non vive in povertà, come qualcun altro pensa. La strada così come la facciata della casa in cui abita, lasciano pensare al ceto medio. Ci vive con la moglie, che forse lavora, forse no, lui, di sicuro, essendogli interdetta qualsiasi attività professionale, si mantiene grazie al sussidio statale. Fino al 2001 l’articolo 129/a, vietava la costituzione, il finanziamento e il sostegno militante ad associazioni tedesche di stampo terroristico. Solo nel 2002 l’articolo viene integrato dal paragrafo b che estende il divieto anche a gruppi all’estero. Non punibile resta, per quanto aumentino le voci che lo chiedono, anche la sola intenzione, provata, di andare in un campo di addestramento militare. Proprio il garantismo del vigente quadro normativo aveva suggerito di tenere aperta la moschea Taiba: “L’intenzione era quella di riuscire a perseguire i più radicali attraverso azioni penali mirate” spiega Murck. E in parallelo, rendere più veloci ed efficaci i decreti di espulsione. Solo che poi espellere quelli con passaporto straniero non risolve del tutto il problema. “Restano sempre quelli naturalizzati, oppure con passaporto comunitario che dunque non possono essere rimandati a casa”. Dalla stazione centrale al numero 163 di Steindamm sono poco più di dieci minuti a piedi. Aveva ragione il poliziotto, non c’è assolutamente più nulla da vedere. Uno si immaginava non proprio minareti e interni con mosaici e tappeti preziosi. Ma, vista la fama alla quale la Taiba è assurta, nemmeno un edificio grigio, anonimo, chiuso tra una tavola calda e una farmacia. Il portone scrostato è ora serrato da un catenaccio. La moschea si sviluppava su due piani, racconta Christoph Scheuermann, uno dei due giornalisti dello Spiegel che da tempo seguono la scena jihadista d’Amburgo e che per sei mesi ha anche frequentato la Taiba. Al primo c’era lo spazio per la preghiera, con una parte per le donne; al secondo una sorta di bar dove si poteva anche mangiare e bere qualcosa”. Per un po’ c’erano stati dei computer, tolti però velocemente, forse per i siti cliccati. Un tempo marocchina, la moschea aveva nel frattempo fedeli di tutte le provenienze. “Era il benvenuto chiunque volesse leggere il Corano per quel che è: cioè la parola di Allah” racconta Scheuermann. “C’erano soprattutto molti africani che con i jihadisti non avevano nulla a che vedere. I radicali veri non erano più del 10 per cento”. Scheuermann stesso aveva però un interesse specifico. Sperava di avvicinare, prima o poi, Darkazanli, ma Darkazanli sapeva di essere controllato, immaginava che vi fossero anche infiltrati dei servizi di sicurezza. Così si faceva vedere giusto il venerdì e poi se ne andava, casa sua non è poi lontana, giusto sei stazioni d’autobus. La moschea era punto di ritrovo, ma vista la stretta sorveglianza, non certo il luogo dove mettere a punto piani più o meno funambolici. Quelli venivano discussi e messi a punto altrove. Al Verfassungsschutz hanno ancora una foto, scattata di nascosto, di alcuni componenti del gruppo partito nel marzo del 2009. Si vedono tre ragazzi poco più che ventenni dall’aria spensierata e sorridente, in mano una palla da basket: da qui il soprannome il gruppo della pallacanestro. Dal 2001 al 2009 sono stati tre i gruppi che sono partiti da qui alla volta della guerra santa. Diversamente dai dirottatori dell’11 settembre che volevano colpire al cuore l’America, i loro successori avevano come meta i teatri di battaglia del momento. In una sorta di impeto romantico alla Sturm und Drang, volevano correre in aiuto prima degli iracheni, poi dei fratelli del Pkk e infine dei talebani. Tra tutti questi nessuno ha però mai avuto né la testa, né tanto meno i mezzi del loro mito, Mohammed Atta. Basta ripercorrere le sorti dell’ultimo battaglione di aspiranti al martirio partito alla volta di Mir Ali, città del Waziristan settentrionale, luogo che per la stragrande maggioranza dei jihadisti in erba è l’anticamera del paradiso promesso. E quanto fossero sprovveduti lo dimostra già il fatto che di undici partiti solo sette arrivarono alla meta. Il tramite con i talebani, il più anziano di loro, si era dileguato strada facendo; altri due, uno d’origine russa, l’altro kazacha, erano stati fermati all’aeroporto di Vienna perché tra il bagaglio avevano un vademecum per il giovane jihadista; requisite le istruzioni, gli austriaci li avevano poi lasciati proseguire alla volta di Islamabad dove erano stati presi in custodia e rispediti ad Amburgo. Poi c’era la coppia “il fanatico e il grasso”. Il primo, nato a Parigi, si dice sia stato ucciso durante un attacco missilistico su Mir Ali; il grasso è stato invece arrestato a due passi dall’ambasciata tedesca di Kabul: voleva tornare a casa, quella vita si era rivelata troppo faticosa, e così aveva pensato bene di travestirsi da donna con un burqa. Lui ora si trova rinchiuso in una prigione dell’Assia. L’altro arrestato in luglio e ora detenuto in quella di Bagram è Ahmad Sidiqi. Forse tra tutti il più sveglio. Solo che si era portato dietro la moglie, e soprattutto il fratello minore, che già qualche settimana dopo l’arrivo aveva fatto armi e bagagli per tornarsene alla casa paterna di Amburgo. Così, tra arresti, defezioni e morti, sono solo più due donne, per giunta incinte, a essere ancora a Mir Ali di quel gruppo. Anche secondo Andreas Ulrich, l’altro giornalista dello Spiegel, quelli del marzo 2009 erano poco più che una banda di disperati. “Composto prevalentemente da junkies e da convertiti”. Da quell’umanità sbandata che popola la stazione. Soggetti non proprio attesi a braccia aperte dai talebani, tanto che le armi se le dovevano comperare da sé, con quei mille e poco più euro che ognuno di loro era riuscito a racimolare legalmente e illegalmente prima della partenza. Falliti in cerca di riscatto. Come nel caso di Ahmad Sidiqi che aveva lavorato prima come inserviente all’aeroporto, poi aveva provato con una panetteria e infine con un’agenzia viaggi. Anche al Verfassungsschutz parlano di un ambiente di emigrati che si è andato sempre più deteriorando e radicalizzando. Niente più a che vedere con quelle comunità di afghani, oggi la più grande della Germania (20 mila persone) e iraniani che cominciarono ad arrivare all’inizio degli anni Settanta e che riuscirono a mettere in piedi un florido commercio, soprattutto di tappeti. Sono ancora tutti lì, nella vecchia Speicherstadt, la parte dei magazzini del porto, uno di fianco all’altro. Ditte che vengono passate di padre in figlio come racconta Shahin Nobari in un tedesco impeccabile. Suo nonno è stato tra i primi ad arrivare dalla Persia. Oggi a guidare la ditta sono la madre e lo zio, ma tra poco, quando si saranno laureati, passerà in mano sua e del cugino. Non ci sono né figli né nipoti di quella prima ondata di immigrati tra i jihadisti. I fanatici della guerra santa arrivano, come spiegava Murck, spesso loro stessi da scenari di guerra. E lo confermano anche le statistiche: iracheni, ex jugoslavi, marocchini, algerini. Sempre sullo Steindamm, ma più vicino alla stazione, si trova la più grande moschea della Germania del nord. La al Nour conta 1.500 fedeli. Anche questa non è facile trovarla, incassata com’è rispetto alla strada, relegata in un seminterrato un tempo adibito a garage. E’ venerdì sera, i fedeli si accingono all’ultima preghiera. L’imam El Rajab chiede di attenderlo, e poi vuole un interprete. E’ arrivato qui da Beirut una decina d’anni fa, ha seguito un corso al Goethe Institut, il suo tedesco è accettabile, ma lui non vuole fraintendimenti. Ci dice che alla al Nour ci tengono all’integrazione, organizzano più volte all’anno giornate “delle porte aperte”. Vorrebbero però finalmente uno spazio più consono. “Non chiediamo una moschea con minareti, come quella degli iraniani sull’Alster, però vorremmo non essere più così nascosti” dice l’imam. Ed è proprio sulla al Nour che hanno ripiegato molti fedeli da quando i primi d’agosto la Taiba è stata chiusa. “Ma da noi i jihadisti non sono i benvenuti” sottolinea l’imam ed è lui stesso a controllare che non ve ne siano. Anche i rapporti con le forze dell’ordine sono buoni, di collaborazione, ma tuttora non condivide né la scelta della chiusura della Taiba (“erano giusto un pugno di radicali) né il momento. “L’hanno tenuta sotto osservazione per anni” sottolinea “e la dovevano chiudere proprio nel mese di Ramadan? La scelta è stata ovviamente tutta politica”. A parte il fatto che, a suo avviso, non sarebbe stato nemmeno più necessario farlo. “Non avevano più finanziamenti, sarebbero durati al massimo fino alla fine di quest’anno”. Ma forse per le forze dell’ordine d’Amburgo essere finalmente citati da tutti i giornali nazionali e stranieri per aver fatto finalmente qualcosa era altrettanto importante.

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