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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Il Foglio Rassegna Stampa
16.12.2010 Israele è pronto a difendersi dall'Iran
Obama, invece, continua a nicchiare. Cronache di redazione del Foglio, Tatiana Boutourline

Testata: Il Foglio
Data: 16 dicembre 2010
Pagina: 6
Autore: La redazione del Foglio - Tatiana Boutourline
Titolo: «L’Unità 8200 protegge Israele dall’atomica di Ahmadinejad - Chi crede al change di Teheran ?»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/12/2010, a pag. III, l'articolo dal titolo " L’Unità 8200 protegge Israele dall’atomica di Ahmadinejad ", l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo "  Chi crede al change di Teheran ? ", in prima pagina, l'articolo dal titolo " Tre stragisti mostrano all’Iran che non si gioca con i terroristi sunniti ".

Ecco i pezzi:

" L’Unità 8200 protegge Israele dall’atomica di Ahmadinejad "


Unità 8200

Roma. Il più devastante attacco al sistema nucleare iraniano potrebbe arrivare dal deserto israeliano del Negev, dal kibbutz Urim a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza. Il virus “Stuxnet” era programmato specificamente per mettere fuori uso le centrifughe iraniane. Secondo il settimanale Newsweek, che alla guerra segreta all’Iran dedica ora un lungo servizio, sarebbe israeliano il micidiale congegno informatico, “costato milioni di dollari”, e che ha ritardato di ben due anni il programma atomico iraniano. Non viaggia via Internet, ma tramite una banale chiavetta Usb. Stuxnet abbatte i programmi dalla Siemens, che guarda caso è stata decisiva nell’infrastruttura informatica di Teheran. Già nel 2006 il reporter del New York Times, James Risen, nel libro “State of war” rivelò un piano israeloamericano per mettere fuori uso le centrali iraniane tramite un congegno elettromagnetico. All’interno del virus Stuxnet si è scoperto che è contenuta una chiave di registro impostata in maniera tale da funzionare come marcatore di infezione. Con un valore finale pari a “19790509” si verifica il contagio. E guarda caso è la data del 9 maggio 1979, il giorno in cui venne giustiziato Habib Elghanian, un importante uomo d’affari iraniano presidente della comunità ebraica di Teheran e grande promotore dell’acquisizione di tecnologia occidentale negli anni 60 e 70 sotto il regime dei Pahlavi. Fu l’inizio della guerra degli ayatollah contro Israele. Oltre a questo vi è un altro indizio che porterebbe a Tel Aviv. All’interno dello Stuxnet è contenuta la parola ebraica “mirto”. Si pronuncia “Hadassah”, cioè Esther, la regina biblica ebraica sposata all’imperatore persiano Serse. Esperti informatici di mezzo mondo dicono che c’è soltanto un possibile autore di questo virus: la celeberrima Unità 8200, che gli israeliani chiamano semplicemente “otto duecento”. Si sa pochissimo di questa leggendaria squadra di esperti informatici. Ne ha scritto in parte Ronen Bergman nel libro “The Secret War with Iran”. L’unità impiega i giovani più dotati in matematica, criptoanalisi e informatica. Una volta congedati, ex appartenenti all’Unità hanno fondato una propria azienda nel campo dell’alta tecnologia. I veterani della 8200 hanno creato quaranta compagnie quotate a Wall Street. Fra gli ex membri dell’Unità si ricordano pionieri dell’high tech israeliano come Shlomo Dovrat, che ha venduto la Oshap Technologies alla Sunguard per 210 milioni di dollari; Ehud Weinstein, che detiene 40 milioni di dollari della Libit Signal Processing; e Didi Arazi, i padri della Nice Systems. Se prendiamo Metacafe, Comverse e Check Point, cioè tre delle maggiori compagnie informatiche israeliane, la prima è stata fondata dal reduce della 8200 Eyal Hertzog; il principale prodotto della seconda, il Logger, è uscito dalla 8200, e anche la terza è stata fondata da membri dell’Unità. L’ex capo del Mossad, Ephraim Halevy, è nel board della compagnia informatica Athlone. Sempre da questa Unità vengono le più sofisticate tecnologie usate da Israele negli aereoporti. Lo scorso giugno l’esercito israeliano ha annunciato che avrebbe rafforzato l’intelligence informatica con tre missioni: “Raccolta di informazioni, difesa e attacco”. Dove per attacco si intende ovviamente una lunga guerra informatica di logoramento delle tecnologie iraniane. Legata all’attacco informatico alle centrali si fa risalire anche l’impiccagione da parte del regime di Ali Ashtari, un uomo d’affari iraniano colpevole di aver passato segreti informatici a Israele. Il capo dell’intelligence di Gerusalemme, Amos Yadlin, ha detto che “la guerra cibernetica è conforme al concetto di difesa dello stato d’Israele. Il cyberspazio è la quinta dimensione della guerra, dopo terra, mare, aria e spazio”. E allora secondo il Technolytics Institute, che fornisce consulenza al governo statunitense, Israele è al sesto posto nella minaccia informatica, dopo Cina, Russia, Iran, Francia e i gruppi terroristici. Anche la distruzione di un reattore nucleare siriano, nel 2007, sarebbe stato possibile grazie al lavoro della 8200. Il capo dell’Unità è noto come “Generale B.”. Tra i successi noti dell’Unità si ricorda l’intercettazione di una conversazione tra l’allora presidente Nasser e re Hussein di Giordania, il primo giorno della guerra dei sei giorni nel 1967. E il colloquio tra Arafat e il gruppo di terroristi che assaltarono l’Achille Lauro nel 1985. Ma anche la decifrazione delle comunicazioni in codice tra l’Iran e il Pakistan in campo nucleare. E la famosa intercettazione nelle acque del Mar Rosso della Karin A, un piccolo mercantile carico di armi iraniane destinate ai palestinesi di Gaza nel 2003.

Tatiana Boutourline : " Chi crede al change di Teheran ? "


Mahmoud Ahmadinejad

“Qualsiasi cultura dotata di abbastanza pazienza e concentrazione da passare anni a tessere lo stesso singolo tappeto è capace di aspettare anni e persino decenni per raggiungere obiettivi anche più grandi. La mia più grande preoccupazione non deriva da quello che sappiamo sull’Iran, ma da tutto quello che non sappiamo”. Bin Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi, in un dispaccio diffuso da Wikileaks Potrebbe essere il nostro nuovo presidente, ma il suo secondo nome è Hussein e questo potrebbe non andare a genio a molti americani”. E’ il febbraio del 2007, Barack Obama deve ancora conquistare l’investitura del Partito democratico, ma il suo nome è già stato intercettato dai radar iraniani. Mohammed Khatami sta chiacchierando con Hooman Majd, iranianoamericano, giornalista e scrittore, parente dello stesso Khatami e, all’occorrenza, traduttore durante le scorribande americane di Ahmadinejad. Majd è convinto che Obama abbia buone possibilità di diventare il 44esimo presidente degli Stati Uniti. “Ajab!” esclama Khatami. In farsi ajab è una parola che denota sorpresa, può voler dire “davvero!”, significare “strano!”, “interessante!”, “curioso!” a seconda del contesto e del tono dell’interlocutore. Stando a Majd, che riporta la conversazione nel suo libro “The Ayatollahs’ Democracy” quell’inverno, nello sguardo di Khatami coesistono tutte le possibili sfumature di ajab, ma la sintesi iscritta a caratteri cubitali nelle pupille dell’ex presidente è un perentorio: “Non succederà mai”. Impossibile credere che a un uomo di colore, un uomo con un secondo nome musulmano e non solo musulmano ma sciita, il nome addirittura di un imam, impossibile che a un uomo così – è il sottotesto di Khatami – “sia permesso di arrivare alla Casa Bianca”. Eppure, pur scettici sulle sue chance di vittoria, a Teheran gli osservatori cominciano a seguire con attenzione la traiettoria del candidato che parla di diplomazia diretta e si dichiara disposto a incontrare il problematico presidente Mahmoud Ahmadinejad. Critico nei confronti dei “comportamenti irresponsabili” degli iraniani in Iraq, Obama sottolinea allo stesso tempo che, la censurabile condotta di Teheran, è un riflesso dell’ansia provocata dalle politiche dell’Amministrazione Bush nella regione. Nell’autunno del 2007 presenta al Senato una risoluzione secondo la quale il presidente “non ha l’autorità per colpire militarmente l’Iran” e ipotizza in un’intervista al New York Times che, di pari passo agli incentivi economici e all’ingresso nella WTO, l’eliminazione della locuzione “regime change” possa rappresentare la contropartita di un’eventuale cooperazione con Teheran a proposito del terrorismo e della questione nucleare. Con il passare dei mesi per le eminenze grigie del regime l’imprescindibile dibattito sui rapporti con l’America viene fagocitato dall’interrogativo: meglio un “perfido” McCain facile da fustigare (“Bomb, Bomb, Iran”) o un Obama “angelicato” difficile da odiare? Per l’opinione pubblica iraniana il dilemma è inesistente perché è già scoppiata l’Obama- mania. E non c’è segno più tangibile dello status di rockstar raggiunto dal candidato democratico in Iran della sensazionale rivelazione del quotidiano Kayhan: “Obama ha origini persiane”. La fascinazione degli iraniani per Obama è dunque spiegata: “I suoi bisnonni erano iraniani di Bushehr (città meridionale affacciata sul Golfo Persico, ndr) e il loro cognome originariamente era “Ab ba ma” (che in farsi significa “acqua con noi”, ndr). Si trasferirono dall’Iran in Africa e poi emigrarono negli Stati Uniti. Suo nonno era nel business dei cammelli ma quando questo commercio fu bandito negli Stati Uniti andarono in bancarotta!” La surreale biografia obamiana non era in realtà farina del sacco di Kayhan, ma di un sito umoristico chiamato Ay Tanz, siccome però, nel giornale preferito di Khamenei, il senso dell’umorismo non è una delle qualità più apprezzate tra i redattori, nessuno ha dubitato della farsa. Tuttavia iraniano o meno, la notte prima delle elezioni americane lo speaker della radio augura che la vittoria arrida al “candidato di Bushehr” e, dopo il trionfo di Obama, Ahmadinejad scrive una lettera di congratulazioni assolutamente irrituale nei trent’anni di silenzio tra Washington e la Repubblica islamica. La missiva non riceve risposta e la reazione di Ahmadinejad è piccata tanto che il solito Kayhan fa retromarcia e sentenzia “è solo un falco travestito da colomba”. Per Nasser Hadian, professore dell’Università di Teheran, tra gli animatori dei dibattiti del Centro di studi strategici di Teheran “Obama, invece, fu preso sul serio”. Nel suo discorso inaugurale si rivolge a coloro che sono “dalla parte sbagliata della storia” offre la mano tesa della sua Amministrazione a chi è disposto “a sciogliere il pugno”. In un messaggio diffuso in occasione del Nowruz, il nuovo anno iraniano, Obama fa gli auguri non soltanto al popolo iraniano ma anche ai leader della Repubblica islamica e parla di un dialogo basato su “interessi comuni” in un’atmosfera di “rispetto reciproco”. Secondo Majd, che raccoglie in quei giorni le confidenze di alcuni pezzi grossi della nomenklatura, il regime valutò con interesse i toni del messaggio, ma a prevalere fu il dubbio circa le reali intenzioni della nuova Amministrazione. Alcuni nomi nella squadra iraniana di Obama impensierirono Teheran. Su tutti, la conferma di Stuart Levey il sottosegretario al tesoro che ha collegato i fili della triangolazione tra banche iraniane pasdaran e traffici nucleari e di Dennis Ross, mediatore esperto già inviato in medio oriente di Bill Clinton, bollato come sbilanciato sulle posizioni di Israele – “Se vuoi segnalare una linea dura e nessun cambiamento nei confronti dell’Iran, nessuno è migliore per quel lavoro di Dennis Ross”, sentenziò il direttore di Kayhan, Hussein Shariatmadari. Altri, più favorevoli all’engagement, come l’ex ambasciatore iraniano a Parigi Sadegh Kharrazi, lamentarono “l’assenza di suggerimenti pratici per andare avanti”. Ma la macchina diplomatica a Teheran si mise comunque in moto. “Ci riunimmo per alcune settimane – racconta Nasser Hadian – un gruppo di esperti di politica estera convocati allo scopo di elaborare una risposta alle aperture americane”. A confermare il clima favorevole della primavera 2009 c’è un dispaccio compilato dal consolato americano a Dubai e diffuso da Wikileaks in cui si legge: “(Nome cancellato) ha detto che il ministro del Commercio iraniano ha approvato la creazione di una Camera di commercio Iran- America in previsione di un miglioramento delle relazioni Stati Uniti-Iran (…)”. Alla fine però a replicare a Washington non è il Centro di studi strategici caro a un’intera generazione di intellettuali riformisti, né il viceministro del presidente-provocatore Ahmadinejad, a rispondere è l’ayatollah Khamenei perché come dice Kharrazi “la strada per Washington passa attraverso l’ufficio del leader supremo”. Fissa lui i termini e le condizioni dice l’ex ambasciatore che assicura “Khamenei non è contrario alla distensione”. “Se voi cambiate, cambierà anche il nostro comportamento – replica il leader supremo da Mashad – Se voi non cambiate, la nostra nazione non cambierà perché negli ultimi trent’anni siamo diventati più pazienti, esperti e potenti”. Parole poco entusiasmanti per chi vagheggia l’engagement, ma alla vigilia delle presidenziali, la speranza nel cambiamento prevale sullo scetticismo. “Cambiamento” è la parola più gettonata dai candidati, ciascuno pronto a incarnare, mutatis mutandis, il sogno obamiano “made in Teheran”. L’Iran è euforico e l’illusione si diffonde come un virus. Una troupe dell’Nbc viene fermata da un ex Pasdaran che affigge manifesti elettorali per Mohsen Rezai, rivale conservatore di Ahmadinejad. Mancano due settimane al voto e gli iraniani fanno le ore piccole agli happening elettorali dove si socializza e si mangia gratis. “Inshallah – dice l’uomo agli operatori del Grande Satana – l’anno prossimo a quest’ora l’ambasciata americana sarà aperta”. Poi l’inferno post elettorale costringe tutti a un brutto risveglio. L’effimera libertà di agitare bandierine verdi anti Ahmadinejad è sostituita da grida, corse disperate e spari. Cartelli in farsi e in inglese invocano l’uomo del momento: “Obama sei con noi o con loro?” “Se le tendenze americane arrivano al potere a Teheran dovremo dire addio a tutto quanto. Dopotutto l’antiamericanismo è tra le principali caratteristiche del nostro stato islamico”. Ayatollah Jannati, capo del Consiglio dei Guardiani I cecchini che sparano dai tetti non sono un buon viatico per la distensione, ma l’orologio nucleare ticchetta svelto e mal si concilia con quello democratico. Un diplomatico europeo che ha appena lasciato il suo incarico a Teheran spiega ai suoi interlocutori americani come in Iran siano improvvisamente cambiate le regole del gioco. “Quello che è accaduto ha causato un contraccolpo nella società. Genitori e nonni dicono di non volere che i propri figli siano forzati a vivere nello stesso Iran in cui loro stessi hanno vissuto negli ultimi 30 anni. Per la prima volta, si può vedere “uccidi Khamenei” e “morte a Khamenei” sui muri di Teheran. Queste sfide dirette all’autorità di Khamenei sono nuove e significative”. A Washington, invece, le regole del gioco restano le stesse. “La soppressione del dissenso pacifico è motivo di preoccupazione per me e per il popolo americano” dichiara il presidente Obama nel primo commento alle violenze del regime. Un esponente del team iraniano di Obama interpellato dal giornalista del New York Times Roger Cohen la definisce “una risposta dolorosa” motivata dalla necessità di mettere sulla bilancia le implicazioni di un Iran atomico: “Il giudizio fu che fosse importante dare seguito all’offerta di engagement”. La sfida iraniana è al cuore della strategia internazionale di Obama. “L’Iran succhia via l’ossigeno, è dappertutto in città – dice l’ex diplomatico Aaron David Miller – al punto che anche le questioni arabo-israeliane appaiono in qualche modo surrogate”. Ed è la Casa Bianca piuttosto che il dipartimento di stato secondo Cohen a dirigere le danze della politica iraniana dell’Amministrazione. Prima del voto il team iraniano di Obama ostenta un approccio agnostico nei confronti del responso delle urne. Inutile cercare di distinguere il buono dal cattivo visto che sia Mahmoud Ahmadinejad sia Mir Hossein Moussavi hanno manifestato le stesse ambizioni nucleari. L’atteggiamento ideologico dell’Amministrazione Bush è ritenuto fallimentare. “La diplomazia si conduce tra persone, ma io ho lavorato per tre anni giorno e notte sull’Iran (2005-2009) senza mai incontrare un diplomatico iraniano” sottolinea l’ex sottosegretario di stato Nicholas Burns. “Quella politica non funzionava”. Il nuovo mantra invece è “It is what it is”, l’Iran “è quello che è” e dobbiamo farci i conti. “Chi selezionano come leader in Iran è una loro prerogativa e non c’è niente che possiamo fare” dice Ray Takeyh, uno dei consiglieri di Dennis Ross, a sua volta negoziatore esperto e uomo di punta della task force iraniana del presidente. “Vogliamo iniettare una dose di razionalità in questo rapporto – spiegava – ridurlo alla dinamica tra due nazioni che hanno delle differenze e degli interessi comuni, andiamo al di là della retorica incendiaria”. Nonostante le “deplorevoli e inaccettabili” violenze post elettorali la porta all’engagement non è ancora chiusa anche se “l’offerta non rimarrà aperta a tempo indefinito”. (Hillary Clinton 15 luglio 2009). Frustrata la via del dialogo, l’Iran potrebbe sperimentare sanzioni “che mordono”, tutte le opzioni restano sul tavolo (inclusa quella militare dunque). Ma nell’estate del 2009 i realpolitiker invitano a mantenere i nervi saldi ricordando che Nixon andò in Cina nel 1972 nel bel mezzo della rivoluzione culturale. Prima dei deludenti colloqui sul dossier nucleare svoltisi a Ginevra nell’ottobre del 2009 da Teheran arrivano segnali di approvazione per le misurate reazioni statunitensi nei confronti “degli affari interni iraniani”. La via dell’engagement nonostante lo sconquasso causato dagli occhi di Neda e dal centro di detenzione di Kahrizak potrebbe essere ancora percorribile. Eppure le regole del gioco per qualcuno cambiano anche a Washington. “Gli Stati Uniti partono dal presupposto che la pressione economica obbligherà i leader iraniani a cedere sulle loro priorità strategiche – scrive Takeyh – ma bastoni e carote non bastano. Va posto l’accento sui diritti umani in modo da facilitare la transizione dell’Iran verso una società più tollerante, leva indispensabile contro le ambizioni nucleari dei mullah”. Guarda con occhi nuovi all’Iran anche l’influente analista del Carnagie Endowment Karim Sadjadpour che, in un articolo su Foreign Policy rilegge la teoria del padre del containment, George F. Kennan, applicandola all’Iran contemporaneo. “Nelle discussioni private Khamenei ha più volte dichiarato: “Ma doshmani ba Amrika- ra lazem darm”, “Abbiamo bisogno dell’inimicizia con gli Stati Uniti”; un mese prima delle presidenziali ha ribadito: la vittoria di un candidato intenzionato a ristabilire le relazioni con l’America sarebbe stata una calamità nazionale”. Né gli auguri di Nowruz né due lettere di Obama riusciranno a persuadere Khamenei che i vantaggi di dialogare con Washington saranno superiori ai danni per il semplice fatto – insiste Sadjadpour – che non muoiono affatto dalla voglio di essere ricevuti alla Casa Bianca. Marg bar Amrika, morte all’America per il regime è un grido di auto preservazione. Sono assolutamente consapevoli che un riallineamento strategico agli Stati Uniti “darebbe il la a imprevedibili riforme a catena che finirebbero inevitabilmente per diluire il loro potere”. Il presidente statunitense definisce la sua linea sull’Iran un doppio binario (engagement/ sanzioni), Hillary Clinton lascia intuire che l’engagement è soprattutto un modo per far digerire alla comunità internazionale la necessità di sanzioni più aggressive, ma l’inquietudine in Europa e nel mondo arabo serpeggia. Lo spauracchio è quello di un grand bargain che sfocia in lucrosi accordi energetici e spartisce il medio oriente in zone di influenza iraniane e americane. Un dispaccio pubblicato da Wikileaks rivela che il 2 marzo 2009 un funzionario del Tesoro chiamato Daniel Glaser, un uomo di Levey, incontra 70 esperti di medio oriente dei governi europei probabilmente allo scopo di dissipare quelle ombre. Va dritto al punto:l’engagement è parte della strategia dell’Amministrazione, la mano di Obama non resterà però tesa a tempo indefinito: “il tempo – sottolinea Glaser – non è dalla nostra parte” e nel peggiore degli scenari, le misure punitive contro l’Iran potrebbero estendersi ben al di là delle sanzioni (il quarto round di sanzioni colpisce l’Iran nel giugno 2010). Nuovi colloqui sul dossier nucleare tra Teheran ed i 5 più 1 erano in agenda il 6 dicembre a Ginevra. Si incontreranno il negoziatore iraniano Said Jalili e il capo della diplomazia europea Catherine Ashton. Le attese sono modeste. Si annuncia il consueto menù: tattiche dilatorie, negoziati su possibili negoziati, insistenza sugli inalienabili diritti iraniani e nessuna particolare concessione”. Nel frattempo le riserve persiane di uranio aumentano e secondo numerosi analisti anche se venissero bombardate le loro centrali, gli iraniani rallenterebbero la loro corsa verso la bomba soltanto di un paio d’anni. Uno strike da parte di Israele o degli Stati Uniti nella regione è lo scenario più frequentemente evocato, spesso addirittura auspicato. Ma quello che resta in mezzo tra un attacco contro l’Iran e la bomba dell’Iran non è chiaro. Dall’anno scorso si leggono con crescente insistenza previsioni sull’inevitabilità dell’arricchimento dell’uranio, la linea rossa di Teheran. Una certa percentuale di uranio arricchito resterà in mani iraniane e la comunità internazionale dovrà farsene una ragione. Fareed Zakaria su Newsweek ha suggerito che un Iran atomico non sarebbe poi la fine del mondo perché non è accurato dire che l’Iran è uno stato guidato da personaggi irrazionali che abbracciano la morte, la dirigenza iraniana è molto più pragmatica di quanto si possa pensare o così desidera immaginare Zakaria visto che le “descrizioni accurate” sulla Repubblica islamica puntualmente ribaltano tutte le previsioni. Nell’attesa delle prove di pragmatismo di Khamenei l’Amministrazione statunitense, tra uno scenario e l’altro, può solo tessere la rete della “deterrenza” senza sapere se basterà e per quanto. “I moderati se la stanno vedendo brutta ma possono ancora farcela”, comunica a Washington lo chargé d’affaires Bruce Laingen prima di essere sequestrato per 444 giorni dagli “studenti della linea dell’imam”. Quando viene liberato il 20 gennaio 1981 saluta uno dei suoi carcerieri dicendo “attendo con impazienza il momento in cui le nostre nazioni potranno avere normali relazioni diplomatiche”. Tutto lascia presagire che dovrà aspettare ancora: “It is what it is”.

" Tre stragisti mostrano all’Iran che non si gioca con i terroristi sunniti "

Roma. Tre kamikaze hanno colpito ieri a Chahbahar, nella parte meridionale dell’Iran, uccidendo più di trenta persone. Il bilancio delle vittime potrebbe salire nelle prossime ore, ma non è questo il vero problema del governo di Teheran. La Repubblica islamica ha sempre concesso grande sostegno ai ribelli sunniti diretti in Iraq e in Afghanistan, un’operazione che rallenta l’occidente nella lunga guerra contro il terrorismo. Si tratta di un piano pericoloso. La strage Chahbahar è la seconda dell’anno in Iran: a luglio, due esplosioni hanno fatto ventisette morti nella provincia del Sistan Baluchistan, sempre al confine con l’Afghanistan. Qull’attacco è stato rivendicato da Jundullah, un gruppo che vuole rovesciare il regime degli ayatollah – il suo leader storico, Abdulmalik Rigi, era stato giustiziato poche settimane prima nel carcere di massima sicurezza di Envin. Per le autorità iraniane, Jundullah è responsabile anche dell’attacco di ieri. Lo stesso dice l’emittente televisiva al Arabiya, che avrebbe ricevuto un comunicato dall’organizzazione. I tre kamikaze si sono fatti esplodere alla moschea Imam Hussein, stracolma per le celebrazioni dell’Ashura, una festa importante nel calendario del mondo sciita. Il numero delle vittime oscilla fra trentatré e trentotto, quello dei feriti non scende mai sotto gli ottanta. Il sito internet di Press Tv, un network vicino al governo, sostiene che la polizia sia riuscita ad arrestare uno dei tre kamikaze, che si è salvato nonostante le esplosioni. Nelle mani delle forze di sicurezza ci sono altri tre uomini, tre stranieri che sono entrati in Iran negli ultimi giorni “per portare a termine altri attacchi nelle città del sud”, ha detto Ali Bateni, il governatore di Chahbahar. Dalle cronache di Press Tv emerge un altro elemento: le cinture imbottite di esplosivo che erano alla vita dei tre attentatori sono state fabbricate in Arabia Saudita. “Qualcuno vuole mettere la comunità sciita contro quella sunnita”, ha detto il presidente del Parlamento, Ali Larijani. E’ proprio quello che il governo iraniano, con il suo potente apparato militare e di intelligence, cerca di fare in ogni capitale del medio oriente, da Baghdad a Kabul.

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