Maurizio Molinari
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Silvio Berlusconi avvertì gli Stati Uniti sulla possibilità che Israele potesse lanciare un attacco nucleare preventivo contro gli impianti atomici iraniani. A rivelarlo è un dispaccio diplomatico redatto dall’ambasciata americana a Roma diffuso da Wikileaks e pubblicato dal magazine tedesco Der Spiegel, secondo il quale il presidente del Consiglio italiano ne parlò al ministro della Difesa Usa Robert Gates durante un incontro avuto il 6 febbraio. «Nulla può fermare lo Stato ebraico se si sente minacciato e potrebbe lanciare un attacco preventivo contro l’Iran, anche con armi nucleari» disse Berlusconi, riferendosi al timore israeliano di «subire un’aggressione nucleare iraniana contro Tel Aviv» a seguito dei progressi compiuti dal programma atomico di Teheran. Gates commentò: «Nessuno può fermare Israele se si sente minacciato, neanche il presidente degli Stati Uniti». Il capo del Pentagono, che si trovava a Roma in missione, confortò inoltre l’opinione di Berlusconi su un possibile blitz israeliano osservando che nel giugno 2008 l’aviazione militare di Gerusalemme aveva condotto un’esercitazione «fino alla Grecia» spostando i propri aerei lungo una distanza equivalente a quella che separa lo Stato ebraico dall’Iran.
Il documento dell’ambasciata Usa in Via Veneto è il primo di cui si viene a conoscenza nel quale si discute l’ipotesi di un attacco nucleare israeliano e la sua pubblicazione da parte di Der Spiegel coincide con la divulgazione sul sito del El País di altri dispacci sull’Iran. In particolare risalgono al 2006, quando alla Casa Bianca c’era George W. Bush, alcuni telegrammi che descrivono la creazione a Dubai, negli Emirati, di un «punto di osservazione regionale» per raccogliere ed elaborare tutte le informazioni raccolte in Iran, attraverso la copertura dei media locali e con contatti diretti. Tale formula ripete quanto venne fatto dagli Stati Uniti negli Anni Venti, quando un «punto di osservazione» sull’Unione Sovietica fu creato a Riga, in Lettonia, a conferma che la strategia americana del contenimento della Repubblica Islamica si richiama al precedente dell’Urss. A dirigere l’«ufficio regionale» di Dubai è un diplomatico americano di nome Ramin Asgard, di probabile origine persiana, con una task force di 15 persone che dopo le elezioni presidenziali iraniane del giugno 2009 informa Washington sulle «grandi proteste in atto a Teheran» prevedendone la «continuazione». Asgard anticipa che «il monopolio della forza da parte del regime riuscirà a ridurre al silenzio la maggioranza del dissenso» ma sottolinea che «il grande numero di leader politici irritati da queste elezioni può essere l’inizio di una crisi di grandi dimensioni». Il consiglio che recapita a Hillary Clinton, Segretario di Stato, è di «aspettare e vedere» cosa avverrà perché «se gli scontri diventano violenti dovremo prendere una adeguata posizione pubblica» come poi in effetti avverrà da parte della Casa Bianca.
Nei documenti finora rivelati da Wikileaks non c’è nulla che fa ipotizzare un intervento diretto degli Stati Uniti a sostegno delle dimostrazioni di piazza mentre altri dispacci, dall’Arabia Saudita all’Azerbaigian, confermano le frequenti consultazioni con i governi locali segnate dalla preoccupazione per il programma nucleare iraniano. Proprio sulla base di tali contenuti Mir Hossein Mousavi, il leader iraniano che sfidò Mahmoud Ahmadinejad nelle presidenziali del 2009, ha affermato che «le politiche della linea dura finora seguite da questo governo hanno lasciato l’Iran senza un solo alleato fra i Paesi vicini» mettendo di conseguenza in mostra «la nostra vulnerabilità nella regione». «La responsabilità del nostro isolamento internazionale ricade sulle spalle del presidente Ahmadinejad» ha aggiunto Mousavi, che secondo l’opposizione aveva prevalso nelle urne del giugno 2009 ma venne poi privato delle vittoria con una decisione del Leader Supremo della rivoluzione, Ali Khamenei. Ahmadinejad ha più volte imputato la divulgazione dei documenti di Wikileaks a «un complotto del governo americano» ma il Dipartimento di Stato ha ribattuto con i suoi portavoce che si tratta di «dichiarazioni prive di senso». A dispetto delle accuse di Ahmadinejad, la diplomazia iraniana ha comunque adottato dei passi tesi ad andare incontro ai timori dei vicini. Come nel caso del ministro degli Esteri, Manouchehr Mottaki, che si è recato ad un recente summit in Bahrein per assicurare gli Emirati che «non abbiamo alcuna intenzione di minacciarvi».
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