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La Stampa Rassegna Stampa
06.12.2010 Turchia in Europa ? Più che pochi passi avanti, molti indietro
Ma Barbera e Zatterin descrivono una Turchia diversa. Perchè ?

Testata: La Stampa
Data: 06 dicembre 2010
Pagina: 19
Autore: Alessandro Barbera - Marco Zatterin
Titolo: «Ankara è stufa di aspettare la Ue - Cammino tortuoso senza Parigi e Berlino»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/12/2010, a pag. 19, l'articolo di Alessandro Barbera dal titolo " Ankara è stufa di aspettare la Ue ", l'articolo di Marco Zatterin dal titolo " Cammino tortuoso senza Parigi e Berlino ".

L'occhiello dei due articoli recita: " Pochi passi avanti ", ma sarebbe decisamente più corretto : " Molti passi indietro ".
Il pezzo di Barbera è completamente sbianciato a favore dell'ingresso della Turchia in Europa. Comodo descrivere la studentessa filo occidentale, con le unghie smaltate e senza velo e il vicepremier che ha studiato a Chicago e che ora ha nell'ufficio una gigantografia di Ataturk per dimostrare che la Turchia merita un posto in Europa. Nessuno nega che ci sia una parte di Turchia pronta per entrare in UE. Purtroppo il governo Erdogan ha impresso allo Stato un'impronta islamica e filoiraniana che rende l'ingresso impossibile. Se Barbera fosse stato corretto l'avrebbe scritto nell'articolo.
Ataturk è un ricordo, ormai. La Turchia è entrata definitivamente nell'orbita iraniana.
Anche il pezzo di Zatterin è pro Turchia. Zatterin sostiene che le perplessità di Francia e Germania (i due paesi più ostili all'ingresso della Turchia in UE) sono dovute esclusivamente a interessi personali, soprattutto per quanto riguarda la Francia. Il fatto che la Turchia non abbia niente in comune con l'Europa e che sia questo il motivo che rende il suo ingresso impossibile, non sfiora nemmeno la mente di Zatterin, che si rallegra invece che Usa e Italia non siano contrari. Per quanto riguarda l'approvazione deli Stati Uniti, è dettata da interessi personali e dal fatto che tanto gli Stati Uniti non sono un Paese dell'Unione Europea. A loro l'ingresso della Turchia non provocherebbe nessun cambiamento, a parte vantaggi economici e politici. Ma Zatterin, così preciso nel descrivere l'antipatia personale di Sarkozy per la Turchia di Erdogan, non lo scrive, chissà perchè.
Ecco i due articoli: 

Alessandro Barbera : " Ankara è stufa di aspettare la Ue "


Recep Erdogan

L’Europa? «La considero casa mia. Se guardo la carta geografica non ho dubbi. Però so che l’Europa usa nei nostri confronti due pesi e due misure: ha accolto Bulgaria, Romania, Cipro, noi siamo ancora lì ad aspettare. Se non ci vogliono allora facciamo bene a fare qualcosa di diverso e altrettanto utile per noi». Daria ha 22 anni, studia scienze delle comunicazioni ad Anadolu, la più grande delle università turche. Ha le unghie colorate di nero, i capelli lunghi, un maglioncino attillato. L’enorme campus all’americana di Anadolu è a due passi da Eskisheri, da scintillanti locali alla moda che si riempiono di studenti a mezzanotte, e a metà strada fra Ankara e Istanbul, al centro di un Paese che mescola con orgoglio i simboli nazionalisti e secolaristi di Atatürk a quelli dell’Akp, il partito islamico moderato al potere. In una platea di trenta studenti Daria è l’unica a definirsi europea, una fra tanti a dirsi favorevole all’Unione. A cinque anni dall’inizio della trattativa, nonostante le difficoltà che attraversa il vecchio continente e si avvicinino le elezioni del 2011, l’opinione pubblica è ancora favorevole a unire le due sponde del Bosforo. Quell’attesa sembra però diventare sempre più impaziente, carica di disillusione e di argomenti per chi preferisce voltare lo sguardo a Oriente.

«Molti politici europei non capiscono cos’è oggi la Turchia». Il ministro delle Finanze Mehmet Simsek ti guarda fisso negli occhi senza tradire alcun sentimento. Nono di nove figli, Simsek ha lavorato per Ubs ed è stato capo economista a Londra di Merrill Lynch. «Sono cresciuto in un villaggio dove ho imparato a leggere e scrivere grazie ai miei fratelli. Nel 1980 il 95% delle nostre esportazioni erano in prodotti agricoli. Oggi quella è la quota dell’industria. Dai tempi dell’aiuto del Fondo monetario internazionale, dieci anni fa, siamo cambiati radicalmente, abbiamo avuto l’inflazione a tre e due cifre, oggi è all’8,6% solo per via della dipendenza dal greggio russo. È vero, c’è ancora una percentuale alta di lavoro nero, ma la stiamo combattendo». Della Turchia in Europa «abbiamo bisogno noi e avete bisogno voi».

Ali Babakan, il vicepremier 43enne del governo Erdogan, è più esplicito: «Noi non abbiamo nulla da perdere. I valori dell’Europa sono sufficientemente forti per reggere l’ingresso di un Paese islamico». Babakan dice di condividere con l’Europa «il rispetto del mercato, dei diritti umani, la supremazia del diritto. È chiaro che il nostro ingresso non significherebbe solo aggiungere un membro, ma farne una entità in parte diversa». Babakan parla un inglese impeccabile per via di un master alla Northwestern University e due anni a Chicago. Difende con orgoglio «le politiche impopolari» che hanno fatto scendere il deficit al 4% del Pil. Nel corridoio che porta al suo ufficio campeggia una immenso busto del fondatore della Turchia repubblicana, Kemal Atatürk. Dieci giorni fa il suo governo ha detto sì all’allargamento al Libano della zona di libero scambio con la Siria. Il ruolo di cerniera della Turchia nell’area mediorientale è sempre più evidente: alla cerimonia della firma, a Beirut, il premier Erdogan è stato accolto da migliaia di persone che sventolavano bandierine turche e libanesi. Mentre l’Unione dei banchieri arabi lo nominava «uomo dell’anno», Erdogan annunciava che all’accordo si unirà anche la Giordania.

Ad alcuni le mosse turche possono apparire tattiche o strabiche. Romano Prodi la considera uno di quei Paesi «che hanno trasformato il mondo in una realtà multipolare». La quota degli investimenti esteri europei ammonta al 65% del totale, il 10% dei capitali arriva dagli Stati Uniti, il 6% da Paesi del Golfo. In Turchia ci sono quattromila aziende a capitale tedesco, duemila inglesi, millesettecento olandesi ma anche più di mille a capitale iraniano. «Il processo di adesione sta durando troppo a lungo», lamenta il capo della Camera di commercio di Eskisheri Harun Karacan. Dall’alto di una crescita che quest’anno sfiorerà l’8%, Babacan nega che ci sia di mezzo l’interventismo dello Stato. Alla domanda se gli interessi la prospettiva dell’euro si congeda con un largo sorriso: «Una prospettiva interessante. Ma visti i tempi, oggi direi di no».

Marco Zatterin : " Cammino tortuoso senza Parigi e Berlino "


Nicolas Sarkozy, Angela Merkel

Raccontano i file di Wikileaks che, quando nell’aprile 2009 il sindaco di Parigi illuminò la Torre Eiffel con i colori nazionali turchi perché il premier Erdogan era in città, i collaboratori di Nicolas Sarkozy fecero cambiare rotta all’aereo presidenziale per evitare che il grande capo notasse la cosa e s’irritasse. I diplomatici americani ne trassero lo spunto per commentare come il francese vivesse «in impunità stile monarca», eppure il cablogramma reiterava e amplificava soprattutto la profonda contrarietà del primo cittadino dell’Esagono nei confronti della Turchia come possibile Stato Ue. Un’opposizione politica, quella dell’establishment transalpino, resa ancora più dura dall’insofferenza personale di Sarkò.

Ne consegue che la Francia non vuole nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi che i ministri di Ankara si siedano al tavolo di Bruxelles con pari onori e doveri. La sua chiusura rappresenta l’ostacolo più alto al futuro comunitario dei turchi, ma non l’unico. Anche la Germania di «Frau Merkel» è almeno fredda nei confronti dell’adesione. Berlino spinge per «un partenariato privilegiato» in luogo di un’adesione a tutto tondo: scambi commerciali, abolizione di visti, però niente bandiere a dodici stelle sui palazzi dell’Anatolia. Detto che la Grecia è contraria per causa di Cipro, ecco che il quadro appare problematico.

Questione di opportunismo politico, più che di strategia globale. I governi francese e tedesco sono convinti che un’apertura al dialogo con i turchi, anche soltanto nella prospettiva di accoglierli fra dieci anni o più, equivarrebbe ad una grave emorragia di consensi che preferiscono evitare. Un discorso, questo, che l’Italia non fa. Il nostro governo è apertamente pro Turchia, anche se nella componente leghista si registrano rumorosi mal di pancia se si affronta l’argomento. La posizione ufficiale della Farnesina è che Roma insiste per la «piena adesione» della Turchia nell’Ue e «condivide la frustrazione turca, per la lentezza dei negoziati, eccessivamente politicizzati». Linea chiara. Molto simile a quella degli Stati Uniti che tifano per Ankara.

Forse è vero che Erdogan fa il doppio gioco fra Europa e Iran, come Wikileaks fa dire al ministro degli Esteri Frattini. Eppure nella diplomazia delle relazioni ufficiali, che ancora ha un senso nonostante tutto, il premier turco avverte che «sino a che saremo fuori, l’Ue non sarà protagonista globale; se entrassimo, diventerebbe un ponte fra l’Europa e mezzo miliardo di musulmani». L’America professa l’adesione pensando a questo. I turchi sono nella Nato e ciò mette al sicuro il nodo della Difesa. Chiudere il discorso a livello politico ed economico è un compito che Washington vorrebbe vedere fare a Bruxelles.

Sarà difficile e ci vorrà tempo. La Turchia è in lista d’attesa per l’adesione dal 1987. Il negoziato vero e proprio è cominciato nel 2005. Da allora sono stati aperti 13 capitoli su 35 previsti, uno solo dei quali è stato chiuso. La Commissione Ue, che il mese scorso ha espresso parecchie riserve sul dossier, ritiene che «per poter accelerare le trattative il Paese deve adempiere gli obblighi derivanti dall’unione doganale e progredire verso la normalizzazione delle relazioni con Cipro». L’esecutivo ammette che il referendum costituzionale del 12 settembre ha «creato i presupposti per un avanzamento in numerose aree». Eppure si chiedono sforzi sui diritti fondamentali (dalle donne ai gay), la libertà di stampa, il trattamento delle religioni non islamiche, ebraismo in particolare visto che si registrano pulsioni all’antisemitismo. Pure l’apertura «democratica» ai curdi pare «aver prodotto risultati limitati».

L’Ungheria, che sarà presidente di turno dell’Ue da gennaio, ha messo nel suo programma l’apertura di unodue capitoli. È il massimo a cui si può aspirare se Francia e Germania sono di traverso, ed è poco. Un poco che, in ogni caso, sarà molto difficile da ottenere.

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