In questi giorni si sente molto parlare di Yemen e soltanto in merito al terrorismo. Ma quella non era la culla della Regina di Saba? E un tempo non vi vivevano («quasi» integrati) decine di migliaia di ebrei, una delle comunità della diaspora più antiche del mondo arabo? Può darmi qualche indicazione (anche bibliografica) che andasse oltre il terrorismo di matrice islamica?
Marina Gersony
m.gersony@gmail.com
Cara Signora,
L o Yemen è molte altre cose. È il Paese che l’Italia, prima fra le potenze occidentali, riconobbe ufficialmente nel 1926 conferendo all’Imam Yahya Muhammad al-Din il titolo di re dello Yemen. È il Paese in cui il tenente Amedeo Guillet trovò una generosa ospitalità nel 1942, dopo avere combattuto contro gli inglesi una spericolata guerra di guerriglia. È il Paese dove Pier Paolo Pasolini ricreò l’atmosfera fiabesca delle Mille e una notte in un film del 1974. Ma è anche la terra di cui è più difficile raccontare la storia: un complicato intreccio di lotte tribali e complotti in una penisola divisa fra due Stati e per molto tempo schiacciata fra l’Impero Ottomano, l’Impero britannico, l’Egitto di Nasser e il regno arabo dei Sauditi.
Potevamo sperare che l’unificazione dei due Yemen — quello settentrionale di Sanaa, governato dai successori di Yahya, e quell o meridionale di Aden, divenuto Repubblica popolare nel 1967 — avrebbe finalmente pacificato il Paese. Ma nelle prime elezioni politiche del 1993, in una città a nord di Sanaa, «le urne furono prelevate con le armi in pugno mentre l’ufficio dei socialisti fu distrutto da un colpo di bazooka». L’episodio è raccontato da Farian Sabahi in un libro pubblicato recentemente da Bruno Mondadori che si intitola per l ’ a ppunto « St or i a del l o Yemen». Sabahi è la studiosa italo-iraniana che analizza da qualche anno in libri e articoli la Repubblica degli Ayatollah e conosce bene il pericoloso intreccio tra politica e religione nella storia del Medio Oriente. Dopo l’unificazione e le prime elezioni politiche appaiono infatti sulla scena yemenita i primi gruppi salafiti, fedeli di una setta religiosa particolarmente radicale e avanguardia di un integralismo islamico che farà dello Yemen, ancora prima dell’11 settembre, una delle sue principali basi operative.
L’instabilità politica, l’influenza di Al Qaeda, la corruzione dell’apparato statale, la crisi economica, la mancanza dell’acqua, la lotta tra sunniti e sciiti e le migliaia di profughi somali che attraversano il Mar Rosso per trovare rifugio sulla sponda yemenita, hanno fatto di questo sventurato Paese il compendio di tutti i mali che affliggono la regione. Non sarebbe giusto tuttavia interpretare la crisi yemenita con criteri prevalentemente religiosi. Come ha osservato George Grant, esperto britannico di terrorismo, in un recente articolo del Wall Street Journal («Yemen on the brink», Yemen sull’orlo dell’abisso, 23 novembre), le file dei combattenti di Al Qaeda sono ingrossate dalla miseria della popolazione, dalla disoccupazione dei giovani, dall’inefficienza e dalla corruzione dell’apparato statale. Guerriglia politica e brigantaggio diventano spesso, in queste condizioni, i soli sbocchi professionali di coloro che non trovano lavoro. Come in Afghanistan occorrerebbe quindi combattere la povertà e il sottosviluppo con programmi i nfrastrutturali, corsi di formazione, progetti per l’agricoltura e l’artigianato. In Afghanistan, ormai, le operazioni militari e lo sviluppo economico sono diventati, nei piani della forza internazionale, strumenti complementari di una stessa politica. Grant propone la ricetta afgana per lo Yemen e dà quindi per scontato che la prima sia destinata ad avere successo. Non sono sicuro che abbia ragione. Ma di una cosa possiamo essere certi. Se l’Occidente perdesse la guerra in Afghanistan, il suo prossimo campo di battaglia sarebbe lo Yemen.