Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 25/11/2010, a pag. 1-47, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " Sionismo, la parola che divide ".
Un pezzo molto importante, che chiarisce in termini precisi il significato della parola. Peccato il titolo, per niente esatto, ma il contenuto è significativo in quanto proviene da uno dei personaggi più rilevanti della sinistra israeliana.
Da far leggere ai nostri pacifinti.
A.B. Yehoshua, Theodor Herzl
Ultimamente mi sembra che si faccia un uso inflazionistico, fuorviante e forse dannoso del concetto di sionismo sia in Israele che all’estero. Questo accade sia fra gli esponenti della destra nazionalista e religiosa sia fra quelli della sinistra liberale, fra gli ebrei della Diaspora, i non-ebrei, e in particolare fra gli arabi. Per affinare quindi il dibattito sui problemi veri e importanti che ci affliggono e ridurre al minimo la demonizzazione di Israele (come sta accadendo in tutto il mondo intorno al concetto di sionismo) ritenterò di definire quanto più obiettivamente e logicamente tale concetto al fine di farvi ricorso in maniera consapevole ed evitare di trasformarlo in una specie di condimento da utilizzare con qualunque pietanza per migliorarne il sapore o, viceversa, peggiorarlo.
In primo luogo il sionismo non è una ideologia. Ecco infatti la definizione di ideologia secondo l’Enciclopedia ebraica: «Ideologia è un insieme sistematico e organico di idee, di principi e direttive in cui trova espressione il particolare punto di vista di una setta, di un partito o di un ceto sociale».
Secondo tale chiara definizione il sionismo non può e non deve essere considerato un’ideologia poiché, come sappiamo, sia in passato che al presente, ha rappresentato una piattaforma comune a idee sociali e politiche differenti e persino contraddittorie. Il sionismo auspicava e prometteva un’unica cosa: fondare uno Stato ebraico. E ha mantenuto questa promessa soprattutto, sfortunatamente, in seguito al fenomeno dell’antisemitismo.
Il sionismo cercava di disegnare un quadro del futuro Stato ebraico, del suo carattere, del suo ordinamento politico, dei suoi confini, dei suoi valori sociali, del suo atteggiamento verso le minoranze e altro ancora. Tutti questi temi erano aperti fin dall’inizio a decine di interpretazioni e di posizioni politiche e sociali degli ebrei giunti in Israele e, naturalmente, agli sviluppi e ai cambiamenti in atto in ogni società umana.
Una volta fondato lo Stato ebraico - Israele - l’unico residuo attivo e significativo del sionismo è il principio della Legge del Ritorno! Vale a dire che lo Stato ebraico, oltre a essere controllato e governato mediante il Parlamento da tutti i suoi residenti in possesso di nazionalità israeliana, è ancora aperto a qualunque ebreo che ne voglia richiedere la cittadinanza. Un’analoga Legge del Ritorno esiste anche in altri Paesi: in Ungheria, per esempio, in Germania e in altri. E io mi auguro che possa essere presto introdotta nello Stato palestinese che sorgerà a fianco di quello ebraico. E come tale legge non sarà considerata razzista nello Stato palestinese, così non lo è in Israele. Quando nel 1947 le Nazioni Unite decisero di creare uno Stato ebraico non destinarono una parte della Palestina solamente ai seicentomila ebrei che vi risiedevano al tempo. Il presupposto morale era che tale Stato avrebbe dato rifugio a qualunque ebreo lo richiedesse.
Un israeliano - ebreo, arabo o altro - che si definisce non-sionista è un cittadino che si oppone alla Legge del Ritorno. E questa opposizione è legittima come qualunque altra opinione politica. Anti-sionista è chi vuole invece cancellare retroattivamente lo Stato di Israele e, a eccezione di sette estremistiche ultra-ortodosse o circoli radicali nella diaspora, non credo che molti ebrei sostengano questa convinzione.
Tutti i temi importanti e fondamentali in corso di dibattito in Israele - l’annessione o la non annessione dei territori occupati, il rapporto tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba, quello tra religione e Stato, il carattere e i valori della politica economica e sociale o persino l’interpretazione di eventi storici del passato - sono analoghi a quelli affrontati anche da altre nazioni in quanto toccano l’identità dinamica e in continua evoluzione di ogni popolo e Paese. E come in quei Paesi non si intende coinvolgere concetti estranei al dibattito, nemmeno noi ebrei dovremmo tirare in ballo il sionismo trasformandolo, ingiustamente, in un’arma nella lotta tra le parti, rendendo così difficilissimo il chiarimento delle polemiche e del loro livello di gravità. Il concetto di sionismo non dovrebbe sostituire quello di patriottismo o di pionierismo. Un ufficiale dell’esercito israeliano che firma per prolungare la ferma o che si stabilisce nel Negev non è più sionista del proprietario di un negozio di alimentari a Tel Aviv. È più pioniere o patriota, a seconda del significato che si attribuisce a questi termini.
Il sionismo è un concetto che ci è caro e quindi è importante che vi si faccia ricorso solamente nelle questioni che gli competono, ovvero la differenza tra noi israeliani e gli ebrei della diaspora. L’uso inutile e inflazionistico che ne facciamo confonde il dibattito morale tra quegli ebrei che hanno deciso, nel bene e nel male, di assumersi la responsabilità di tutti gli aspetti della loro vita in un territorio definito e in un regime autonomo e quelli che vivono in mezzo ad altri popoli e mantengono un’identità ebraica parziale mediante lo studio, cerimonie religiose, e limitate attività comunitarie.
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