Di certo, nella tortuosa via per la pace tra israeliani e palestinesi, non c’è niente. E in quel niente, la parola magica è adesso «congelamento». Congelare, congelare ripete Franco Frattini al ministro della Difesa Ehud Barack. Freeze, freeze anche nei 45 minuti senza testimoni col premier Benjamin Netanyahu, e nei 30 con la parlamentare e leader del partito Kadima, Tzipi Livni. Congelare i nuovi insediamenti in Cisgiordania almeno per tre mesi, ha chiesto Obama a Netanyahu e ha ripetuto Hillary Clinton a Frattini sabato scorso a Lisbona, chiedendogli di farsi latore dell’insistenza americana. In cambio, per Israele, tre miliardi di dollari in armamenti gratis, a cominciare dagli F-35 Stealth.
Netanyahu vuole per iscritto garanzie anche per evitare che salti su mezz’Europa ad avallare una (eventuale) dichiarazione unilaterale d’indipendenza palestinese. Anche su questo, ai margini del vertice Nato, Frattini ha sondato l’Europa, cioè la Germania, nella persona degli Esteri Westerwelle. Ma il gioco è una scacchiera complessa, e l’America non gioca a somma zero: «Quando partirà l’iniziativa Usa, il negoziato si sposterà sui confini, e allora i palestinesi crederanno fino in fondo nel dialogo, la questione degli insediamenti sarà meno rilevante. L’Italia crede fino in fondo nella possibilità che il disegno del presidente Obama abbia successo».
Obama di quel successo ha bisogno, e il tempo si è fatto breve: quei tre mesi sono tutto il tempo che c’è, prima di impegnarsi nella campagna per la sua rielezione. E prima che l’Anp perda completamente di credibilità. La partita, poi, si è già spostata sui confini: ieri alla Knesset si è discussa una legge che istituisce un referendum confermativo nel caso in cui la geopolitica tornasse al 1967 senza l’avallo di almeno 80 deputati su 120. Una legge presentata dal Likud che Frattini giudica positivamente, «si cerca il consenso popolare», e Tzipi Livni valuta invece «sintomo di debolezza politica». Anche Tzipi fa il suo gioco, sostenuta da Barack Obama, perché il suo partito Kadima - scissione «centrista» dal Likud - entri al governo, riequilibrandolo, e magari al posto di Liebermann.
Nei colloqui riservatissimi col ministro italiano, Israele non si è mostrata conciliante circa le garanzie scritte. Di quei nuovi armamenti ha bisogno per mantenere la superiorità bellica nei confronti dell’Iran, «da cui si sente accerchiata non solo nell’estremo Nord, ma anche dal vicino settentrione libanese di Hezbollah, e a Ovest con Hamas», ed è tutto quel che Frattini rivela dei colloqui. Assieme ovviamente al ringraziamento ufficiale «per il contributo italiano alla soluzione nel villaggio di Gujar». Il piccolo paese siriano occupato nel ‘67, da cui oggi Israele si ritira. «Una presa in giro», secondo Hezbollah, «finché non verrà ripristinata la nostra sovranità sulla nostra terra».
Questo è anche il punto che pongono i palestinesi, per fare la pace. Netanyahu con Frattini è stato chiaro: se l’accordo ci sarà, per impiantarlo e difendere i confini dei due nuovi Stati occorrerà comunque la presenza militare israeliana. Non proprio un viatico sulla via della pace.