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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Friedrich Torberg, Mia è la vendetta 23/11/2010

Mia è la vendetta                           Friedrich Torberg
Traduzione di Martino Tranker, con un saggio di Haim Baharier
Zandonai                                        Euro 11

Eleganti edizioni, numerate e firmate, una vera rarità per i bibliofili, con tirature di sole 250 copie. Gli autori in catalogo nomi di primissimo piano: Thomas Mann, Franz Werfel, Alfred Döblin, Lion Feuchtwanger, accomunati dalla maestria dello stile e soprattutto dall’esilio. Mentre in Europa infuria la guerra, il fiore degli intellettuali tedeschi continua a coltivare l’unico pezzo di patria che ha potuto portare con sé: la lingua.
Nel presentare la loro utopica impresa culturale, Ernst Gottlieb e Felix Guggenheim, gli animatori della Pazifische Presse di Los Angeles, cercano di trasformare la catastrofe in nuova forza creativa. Dal catalogo della Pazifische Presse, Zandonai propone ora, per la prima volta in italiano, un libricino apparso nel 1943. L’autore, Friedrich Torberg, è un ebreo di origine praghese, che aveva fatto in tempo a nutrirsi dell’atmosfera del vecchio mondo austro-ungarico. Nel 1930, ancora giovanissimo, grazie al sostegno di Max Brod, era giunto al successo con un romanzo-denuncia sugli anacronismi del sistema educativo mitteleuropeo. Messo all’indice dai nazisti, era dovuto fuggire nel 1938.
Mia è la vendetta è solo in apparenza un piccolo libro, giacchè in una sessantina di pagine Torberg è riuscito a stipare un vero incubo della psiche e della storia. Forse è merito della misteriosa energia dell’atto narrativo, oppure è frutto di una ricostruzione in assenza, attraverso cui l’autore finge ciò che non può vedere e in parte neppure sapere. Certo è che si resta sorpresi. In una data incredibilmente precoce, Mia è la vendetta riesce a descrivere quello che nei decenni seguenti verrà chiamato “l’universo concentrazionario”.
Un sopravvissuto narra la storia del campo di Heidenburg, ai confini tra Germania e Olanda, dove un ufficiale nazista si accanisce contro i detenuti ebrei, disgraziati tra i disgraziati. E se non c’è l’apparato della distruzione di massa – che a quell’epoca Torberg ancora ignorava – la soffocante ragnatela di sadismo dei persecutori e lo spaesamento delle vittime funzionano già come motore del racconto. I protagonisti s’arrampicano lungo il crinale tagliente che separa fede e bestemmia. Dovrà essere Dio a vendicare i perseguitati o è lecito che l’uomo tenti con le proprie mani di porre fine all’orrore?
In un suo giudizio critico, Erich maria Remarque considerava la chiusa del libro di un’efficacia senza pari, e in effetti il colpo di scena nascosto nell’ultima riga lascia il lettore in balia della propria coscienza, solo, a misurare l’oscura profondità della condizione umana.


Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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