Sul FOGLIO di oggi, 19/11/2010, a pag.I, con il titolo " Non fidarti del Mullah Omar", Daniele Raineri analizza il rapporto fra terrorismo e riconciliazione, ben esemplificato dal richiamo alla saggezza di Woody Allen che precede l'articolo.
dopo i Talebani, Woody Allen
Il leone giacerà con l’agnello. Ma l’agnello dormirà ben poco. (Woody Allen)
I talebani rifiutano la pace
Non è vero che i talebani sono pronti ai negoziati. Negli ultimi due mesi sono cominciate a circolare notizie impazzite sulle trattative in corso tra i guerriglieri e il governo afghano. Ci sarebbero colloqui indiretti persino con gli americani, grazie alla triangolazione dell’Arabia Saudita, che starebbe ospitando i primi incontri con i capi talebani; i soldati Nato starebbero scortando altri capi talebani a Kabul, alcuni addirittura in aereo, per farli parlare con il governo; Kabul ha diffuso una lista con i capi talebani che vorrebbe cancellati dalla lista nera delle Nazioni Unite e una seconda lista, più segreta, con i capi detenuti a Guantanamo che vorrebbe rilasciati perché quelli saprebbero – almeno così dicono – facilitare i negoziati. Si parla persino delle prime modifiche alla Costituzione afghana da fare per far entrare i talebani al governo. “Soltanto 11 articoli su 160 dovrebbero essere cambiati”, dice un ex ministro talebano, “sono stati inseriti per fare un piacere alla comunità internazionale. Undici articoli non sono una montagna insormontabile”. In realtà il capo supremo dei talebani, il Mullah Omar, ha appena diffuso un lungo messaggio come fa ogni anno, una propria versione del discorso sullo stato dell’unione destinata a tutti i guerriglieri afghani, e il messaggio parla chiarissimo: tutte le voci sui negoziati sono propaganda occidentale, tratteremo soltanto quando i soldati stranieri avranno lasciato il paese. E se sorprenderemo qualcuno dei nostri a trattare, la punizione è la morte. Secondo l’Associated Press, l’Arabia Saudita ha appena interrotto i colloqui per il rifiuto da parte dei talebani a separare la propria strada dagli estremisti di al Qaida
Al Qaida è al suo solito posto
Il capo della Cia, Leon Panetta, dice che in Afghanistan rimarrebbero soltanto tra i 50 e i 100 uomini di al Qaida. Il sospetto è che si tratti di un numero troppo basso, fatto circolare per minimizzare il rischio che un secondo grande attacco all’America come l’11 settembre arrivi dall’Afghanistan, e anche per suggerire che il ritiro delle truppe americane come vorrebbe l’Amministrazione si può fare senza pericoli. Eppure la maggioranza degli analisti è insorta. C’è chi ricorda che nel 2001 al Qaida aveva soltanto 200 membri operativi, ma riuscì benissimo a colpire con i suoi attentati più devastanti. C’è chi dice che i conti non tornano: facendo i conti delle eulogie funebri diffuse su Internet da al Qaida per i suoi uomini uccisi in combattimento in Afghanistan, facendo il conto degli arresti, dei dati ottenuti con gli interrogatori e delle azioni rivendicate dai terroristi, il numero è certamente più alto; c’è infine chi sostiene che non importa quanti sono ora: i soldati americani rendono l’Afghanistan un posto pericoloso per al Qaida, ma l’organizzazione è mobile, fluida, abituata a spostarsi, e se il paese resterà sguarnito torneranno in fretta dal vicino Pakistan.
Se non li fermi a Kabul, dilagheranno
Il ritiro dall’Afghanistan sarà salutato dal jihad internazionale come una grande vittoria definitiva. Abbiamo colpito l’occidente, abbiamo sopportato la guerra di risposta e li abbiamo sconfitti: nulla ci trattiene più. Gli ideologi di al Qaida che hanno fatto della cacciata dei sovietici dall’Afghanistan un mito fondativo del movimento e del ritiro di Bill Clinton dalla Somalia un altro annuncio profetico – “a Mogadiscio capimmo che gli americani sono tigri di carta, peggio che i sovietici”, disse Osama bin Laden negli anni Novanta – non aspettano altro. E’ nella stessa natura del movimento che guidano: loro si considerano una piccola avanguardia con il dovere di risvegliare il gigante islamico e renderlo consapevole della propria potenza. Il ritiro dall’Afghanistan sarà la grande Sveglia della Ummah islamica. “Sarebbe una trasfusione globale di energia e morale alto per i fondamentalisti in tutto il mondo, come se ne avessero bisogno”, dice James Jones, ex capo del Consiglio nazionale di sicurezza del presidente Obama. Facile immaginare che cosa penserebbero i guerriglieri in Iraq, Yemen, Somalia e Cecenia: ci basterà perseverare, e ce la faremo anche noi. Ma si penserà la stessa cosa anche nelle vicine repubbliche nel centro dell’Asia, che già vivono affacciate sul buco nero. Del resto, come dicono i talebani, con una frase che lascia capire che cosa pensano davvero dell’urgenza o della necessità di fare la pace: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Per gli studenti coranici, la regione dell’Afghanistan corrisponde al Khorasan, il luogo da dove partirà la campagna militare finale che precede l’Apocalisse, la battaglia decisiva con il Male. C’è poco spazio per le trattative.
Il declino dell’occidente
Jones aggiunge: “Se non vinciamo qui organizzazioni come la Nato, l’Unione europea di riflesso e le Nazioni Unite potrebbero essere relegate nel cestino della spazzatura della storia”. Per non parlare, ma lui non lo dice, del ruolo dell’America come unica superpotenza. L’Afghanistan è uno stress test per le grandi entità geopolitiche. Cina, India, Russia, paesi arabi, Iran e America del sud stanno soltanto aspettando di scoprire se l’Alleanza atlantica è ancora forte e temibile o è un guscio vuoto, per poi regolarsi di conseguenza. I talebani sono venticinquemila, qui in Italia potrebbero essere contenuti tutti in un palazzetto dello sport, e questa volta non godono dell’appoggio in armi e denaro di America, Gran Bretagna, Egitto, Cina e Arabia Saudita, come i mujaheddin contro i russi negli anni Ottanta. Grazie a quel fiume di aiuti militari, senza pari nella storia, anche la Finlandia o il Botswana avrebbero ben figurato contro i russi. Eppure continuiamo a considerare gli afghani imbattibili. Resta che non si può sbagliare. Gli ultimi a fallire lo stress test in Afghanistan sono stati i sovietici, anche se erano entrati all’apice della loro potenza e non obbedivano a regole umanitarie studiate per minimizzare le vittime e i danni alla popolazione civile. Poco dopo aver abbandonato il campo ai mujaheddin il loro impero ha cominciato a sgretolarsi, come minato all’interno da un’inguaribile debolezza che prima di allora non si riusciva a vedere.
Collasso pachistano
Se l’Afghanistan cede, cede anche il Pakistan. I due paesi sono come vasi comunicanti, separati da un confine imposto dagli inglesi che i locali chiamano con sprezzo “la linea Zero”. La crisi di uno attraversa il confine e investe anche l’altro. Il problema è che l’altro è un paese da centottanta milioni di persone che possiede un arsenale di armi atomiche, soffre la fragilità di un governo civile quasi inesistente e ha un’economia malata grave, tenuta in vita dagli aiuti internazionali. Già adesso il governo di Kabul e quello di Islamabad vogliono più soldi dalla comunità internazionale per battere il terrorismo, e continuano a produrre in massa e a ospitare i terroristi più pericolosi. Dopo il ritiro, nel migliore degli scenari, chiederebbero più soldi e produrrebbero ancora più terrorismo. Nel peggiore, le armi atomiche finiscono nelle mani sbagliate, che oggi sono appena a di là delle recinzioni delle basi militari.
La guerra è inganno
Il Pakistan ha firmato la pace con i propri talebani nel 2006, a patto che deponessero le armi e cacciassero i terroristi stranieri dalle aree tribali che occupano. Oggi la situazione è peggiorata, gli attentati fuori e dentro il paese si sono moltiplicati, la minaccia è più grande e la violenza colpisce tutto il paese, fino al sud, un tempo pacifico. Ci si può fidare a fare la pace con un nemico che sostiene il precetto religioso “La guerra è inganno”? Il nemico numero uno nel sud dell’Afghanistan è un ex di Guantanamo che finse di essersi pentito.
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