Un rapporto di Just Journalism denuncia l'antisemitismo della London Review of Books Commento di Giulio Meotti. Perchè sugli altri quotidiani italiani la notizia non è menzionata?
Testata: Il Foglio Data: 18 novembre 2010 Pagina: 8 Autore: Giulio Meotti Titolo: «I protocolli della London Review»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 18/11/2010, a pag. IV, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " I protocolli della London Review ". All'ottimo pezzo di Meotti, di nostro aggiungiamo la New York Review of Books, il meglio di quanto viene prodotto ad alto livello in fatto di odio contro Israele.
Giulio Meotti, London Review of Books, Just Journalism il nuovo think tank che monitora l’informazione inglese
Una monografia dedicata esclusivamente alla più nota rivista culturale europea, prediletta da docenti universitari, diplomatici di carriera, intellettuali liberal. Ma non una monografia per incensare la London Review of Books, da sempre pilastro delle chattering classes britanniche, quanto per demolirne la trentennale retorica sul medio oriente. E’ questo il senso del report di Just Journalism, il nuovo think tank che monitora l’informazione inglese. Il rapporto dice molto della deformazione ideologica della verità in tempo e in tema di guerra e di pace. E della acrobatica credibilità del più blasonato giornale della vecchia Europa. Non era facile tematizzare la politica della London Review of Books su Israele, visto che pubblica un milione di parole ogni anno e considerata l’aurea di ingombrante rispettabilità di cui il magazine gode (dal 1979 è la rivista culturale più letta d’Europa). Ma il rapporto di Just Journalism, che la rivista inglese non ha preso bene (medita di contrattaccare anche in tribunale), è tanto interessante proprio perché la London Review of Books pretende di essere “la più elegante rivista letteraria del mondo”. Tra le sue firme c’è l’intero pantheon della cultura liberal: Susan Sontag, Richard Rorty, Eric Hobsbawm, Martin Amis, Christopher Hitchens, Tony Judt e molti altri ancora. Lo stesso Salman Rushdie è stato scoperto dalla London Review of Books (la rivista fu la sola a recensire “I figli della mezzanotte” alla sua apparizione). Una rivista finanziata dallo stato inglese attraverso il Consiglio delle arti. Le conclusioni sul report di Just Journalism sono affidate al giudizio del celebre storico Benny Morris: “Molti contributi della London Review of Books non sono altro che propaganda filo araba”. “Sono ostile senza ambiguità a Israele perché è uno stato mendace”, proclama la editor in carica del magazine, Mary Kay Wilmers. Nel report spiccano frasi come questa di Yitzhak Laor sui palestinesi: “Le camere a gas non sono il solo modo di distruggere una nazione. E’ sufficiente distruggere il suo tessuto sociale”. In calce allo studio ci sono poi le parole dello storico Ilan Pappe: “I palestinesi sono stati disumanizzati dagli ebrei israeliani: ucciderli per loro è naturale”. Il rapporto analizza il periodo che va dal 1° giugno 2000 al 31 maggio 2010. Un decennio di conflitti e polemiche in medio oriente. Il 24 giugno 2004 Charles Glass si domanda sul magazine: “Gli arabi in Israele dovranno essere sterilizzati per prevenire che i loro figli superino di numero quelli degli ebrei? E’ folle anche solo pensare in questi termini? Non era inerente alla stessa idea sionista?”. Tra le firme della London Review of Books c’è anche il poeta laureato Tom Paulin, per il quale gli “ebrei di Brooklyn dovrebbero essere accoppati. Sono dei nazisti e dei razzisti. Non provo altro che odio per loro”. Paulin definisce Israele “un’oscenità storica… Non ho mai creduto che Israele avesse alcun diritto di esistere”. Da Ramallah si ricorda il lungo reportage a firma di Rita Giacaman in data 25 aprile 2002: “Questa distruzione incredibile può soltanto indicare che questa guerra non è per la sicurezza, ma è volta ad annichilire tutto ciò che è palestinese”. Da Hebron ne esce un altro il 22 luglio 2004: vi si descrive l’esercito israeliano come un “mostro” che “ha bisogno di moltiplicare i propri soldati”, caratterizzato da un “messianesimo religioso e una ideologia neonazista”. Tante le column di Edward Said, l’intellettuale arabo più illustre del secolo scorso che proprio sulla London Review of Books ha più volte esposto il sillogismo che lo rese celebre in tutto il mondo: l’“orientalismo”, il razzismo occidentale nei confronti dell’oriente musulmano, è antisemitismo perché gli arabi sono semiti; il sionismo bianco ha assimilato gli ebrei all’occidente, gli ebrei hanno perso il loro semitismo, sono divenuti “orientalisti”, antisemiti; i palestinesi sono i “nuovi ebrei” e gli ebrei di oggi sono i “nuovi nazisti”. Un’altra firma della blasonata rivista è Rashid Khalidi, direttore del Middle East Institute della Columbia, “un professore dell’odio” per il New York Sun, che ha definito “legittima resistenza” il terrorismo suicida, e per il quale gli Stati Uniti sono “la più fantasmagorica macchina di propaganda della storia” e l’esercito israeliano un’“arma di distruzione di massa”. Khalidi ha giustificato anche l’uso della violenza da parte dei nativi americani. E’ stata proprio la London Review of Books a lanciare il paper di Stephen Walt e John Mearsheimer, i due docenti di Harvard autori del best seller sulla “Israel Lobby”, il caso accademico del 2007 rifiutato da Atlantic Monthly e accolto a piene mani dalla London Review of Books (Alan Dershowitz parlò di versione aggiornata dei “Protocolli dei Savi anziani di Sion”). Il loro saggio sulla London Review of Books accusava la lobby israeliana d’America di “manipolare il sistema politico americano”, di “manipolare la stampa” e di essere “de facto un agente al servizio di un governo straniero”. Il linguaggio incendiario del paper inglese ha creato un dibattito durissimo, sostenuto da un’altra firma della London Review of Books come l’intellettuale liberal Tony Judt, da poco scomparso a causa del morbo di Gehrig. La tesi esposta sulla rivista è che in America esiste un potente e minaccioso gruppo di persone di destra e di sinistra che fa gli interessi dello stato ebraico anziché quelli degli Stati Uniti. Gli appartenenti a questa lobby di politici, giornalisti, editori e analisti, secondo i due autori, sono guidati da una “doppia lealtà”: sono americani, ma in realtà lavorano per il bene di Israele. Il senso della proposta sulla London Review of Books è chiaro: Israele non ci serve, anzi è dannoso, abbandoniamolo, e gli islamisti se ne staranno buoni. “Sì, quel testo è antisemita”, aveva scritto sul Washington Post Eliot Cohen, docente alla Johns Hopkins University, mentre l’ex segretario di stato di Ronald Reagan, George P. Shultz, sentenziò: “E’ una teoria del complotto pura e semplice e i professori delle grandi università dovrebbero vergognarsi di promulgarla”. Numerosi gli articoli pubblicati dalla rivista durante la guerra di Hezbollah del 2006. Il 21 settembre di quell’anno Gabriel Piterberg afferma che i missili iraniani su Israele servono a “aumentare la consapevolezza”. Il 3 agosto Karim Makdisi va oltre, spiegando come i missili iraniani sono una protesta contro la globalizzazione: “La reazione di Hezbollah va letta come parte della lotta politica contro un mondo dominato dagli Stati Uniti”. Durante la guerra di Gaza del 2009, David Bromwich definisce i razzi di Hamas sulle città israeliane come una “vendetta spettacolare”, mentre Sara Roy scrive che Gaza è una città di “mendicanti”. Altrettanto eloquente lo storico Eric Hobsbawm, che parla d’Israele come “terrore armato” elargitore di “barbarie”. La London Review of Books ha appena festeggiato a New York il trentennale della nascita. Un caso da manuale per capire come le genti della cultura e del giornalismo producano ogni ora, ogni giorno, ogni settimana, da trent’anni, con le loro metafore, similitudini e bellurie ideologiche, un bacino d’odio e livore che rivaleggia con quello dei guerrasantieri.
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