Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/11/2010, a pag. III, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Fuori i muscoli ".
Douglas J. Feith
L’ex sottosegretario alla Difesa Douglas J. Feith si occupa di medio oriente fin dai tempi dell’Amministrazione Reagan, quando era nel Consiglio nazionale di sicurezza. Nei suoi anni al Pentagono, dal 2001 al 2005, è stato consigliere del presidente George W. Bush e del ministro della Difesa Donald Rumsfeld. Ha aiutato a definire la risposta del governo americano al terrorismo, contribuendo alla strategia politica delle campagne in Afghanistan e Iraq, promuovendo l’allargamento della Nato e spendendosi contro il programma nucleare iraniano. Ha contribuito anche agli sforzi diplomatici per la pace fra israeliani e palestinesi. Oggi è il direttore del Centre for National Security Strategies dell’Hudson Institute: ha scritto un libro, “War and Decision: Inside the Pentagon at the Dawn of the War on Terrorism” (HarperCollins, 2008), in cui racconta gli inizi della guerra al terrorismo e le campagne militari in Iraq e in Afghanistan. Feith ha contribuito a impostare la strategia del conflitto in terra afghana, dove ora, nove anni dopo, i diplomatici dell’Amministrazione Obama e il generale David H. Petraeus cercano di avviare le trattative di pace. Il comandante delle forze Isaf nel paese e gli uomini della Casa Bianca sono concentrati sulla riconciliazione con i talebani come chiave per la stabilità e sul ritiro dall’Afghanistan. “Il punto che il generale Petraeus ha specificato è che per battere l’insurrezione ci sono persone che devi sconfiggere militarmente perché sono inconciliabili, e altre che invece possono essere persuase a entrare a fare parte del nuovo sistema politico convincendole che la loro causa è fallimentare – dice Feith al Foglio – Petraeus ha ragione, perché se tra i talebani ci sono alcuni che si sentono sconfitti e che vogliono partecipare al nuovo ordine politico, questo è il modo per mettere fine all’insurrezione. Detto questo, ci potrebbero essere alcuni tra di loro che non vogliono alcun compromesso e scelgono di combattere fino alla fine. Questi ultimi, ovviamente, vanno sconfitti con le armi”. Feith dice che “la risposta dipende da ciò che si vede sul campo”, schierandosi così contro la linea della Casa Bianca, che preme perché ci si possa ritirare il prima possibile dall’Afghanistan. Come faranno gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato a capire di avere compiuto la missione iniziata nove anni fa? Per Feith, “il concetto base di vittoria in Afghanistan non è cambiato dall’attacco alle Torri gemelle: bisogna fare in modo che l’Afghanistan non sia più la base operativa di al Qaida, che minaccia tutti, e contenere i problemi dell’Afghanistan, per esempio il narcotraffico impazzito e il continuo aumento di bombe sulle strade. Il governo di Kabul deve essere in grado di affrontare la minaccia con i propri mezzi”. L’inviato speciale del presidente Obama in Afghanistan e in Pakistan, Richard Holbrooke, ha detto durante la conferenza internazionale sull’Afghanistan a Roma: “Riconosciamo che l’Iran debba avere un ruolo nel processo di pace in Afghanistan. Quindi, per quanto riguarda gli Stati Uniti, la presenza di iraniani non è un problema”. A queste parole, Feith scuote il capo e dice con chiarezza: “Non credo che gli iraniani possano giocare un ruolo costruttivo in Afghanistan. L’Iran ha degli interessi nel paese che cozzano con i nostri e con quelli della popolazione afghana”, e lo dimostrano gli sforzi di Teheran per contrastare la presenza della Nato nell’Asia centrale, come i tentativi di formare un’alleanza regionale opposta a quella Atlantica tra Iran, Afghanistan e Tagikistan. Feith ricorda: “Quando l’Onu in passato ha organizzato forum multilaterali per parlare di Afghanistan, ha invitato tutti i paesi vicini, compreso l’Iran. Negli anni di George W. Bush c’era una discussione accesa all’interno dell’Amministrazione sulla possibilità di partecipare alle conferenze in cui erano presenti anche gli iraniani. Il presidente Bush aveva deciso che non avremmo permesso all’Iran, con cui del resto non avevamo contatti diplomatici diretti, di privarci di questi forum. Noi dell’Amministrazione Bush non abbiamo mai detto di credere che l’Iran fosse parte della soluzione piuttosto che parte del problema, come sembra che abbia fatto Richard Holbrooke”. I commenti fatti a Roma dall’inviato speciale di Obama, però, non sorprendono Feith: “Fin dall’inizio, l’Amministrazione Obama, ha lasciato intendere che l’Iran avrebbe avuto una diplomazia più costruttiva se solo noi fossimo stati un po’ più cortesi nei confronti del regime di Teheran. Questo si vede persino nelle dichiarazioni dello stesso Obama durante la campagna elettorale del 2008. Io credo che un approccio del genere contraddica la natura stessa delle differenze tra noi e l’Iran”. L’impronta di Teheran sulla politica di Kabul è stata messa in risalto il 25 ottobre scorso, quando il presidente afghano, Hamid Karzai, ha ammesso di avere preso “borsoni di soldi” contenenti fino a 700mila euro dall’Iran. “L’ammissione di Karzai “non è cattiva di per sé – commenta Feith – è tutta la pratica a esserlo”. Ma, secondo l’ex ufficiale alla Difesa americana, il presidente afghano, per quanto sospettabile di condurre un doppio gioco con il regime iraniano, non può che restare l’interlocutore degli Stati Uniti: “Hamid Karzai è il leader dell’Afghanistan, eletto democraticamente, quindi dobbiamo lavorare con lui anche se le sue dichiarazioni sono preoccupanti”. L’attenzione internazionale si sta spostando verso lo Yemen, soprattutto dopo il 29 ottobre, quando due pacchi bomba destinati a sinagoghe di Chicago sono stati intercettati a Londra e a Dubai. E’ l’ennesimo tentativo di attentato in meno di un anno che proviene dallo stato del Golfo – dove era stato addestrato Abdul Faruk Abdulmutallab, che aveva cercato di far esplodere un volo diretto a Detroit lo scorso Natale, nascondendosi dell’esplosivo negli slip. Ma la strategia nei confronti dello Yemen, sottolinea Feith, “dipende dal governo yemenita: di base, se abbiamo un governo a Sana’a che vuole davvero collaborare con noi e riprendersi il controllo dei territori che sono stati usati da gruppi terroristici come al Qaida, allora dovremmo cooperare. Non essendo al corrente degli ultimi sviluppi delle relazioni tra gli Stati Uniti e lo Yemen, direi che la risposta a questa domanda dipende dalla qualità di queste relazioni e da quanto il governo yemenita sia disponibile a collaborare con noi, per quanto potrebbe non farlo in buona fede”. Il 19 e il 20 novembre, a Lisbona, si terrà un summit della Nato. Gli alleati discuteranno dei progressi in Afghanistan e di come preparare l’Alleanza atlantica a fronteggiare le minacce e le sfide del XXI secolo. Chiedendo a Feith quali consigli abbia da offrire ai ventisette alleati, lui risponde: “Dalla fine della Guerra fredda si è discusso molto degli obiettivi della Nato. L’Alleanza è chiaramente uno strumento potente, ma si discute riguardo al suo scopo ai massimi livelli strategici. Prima dell’11 settembre 2001 erano in molti a chiedersi se la Nato avesse ancora uno scopo e un futuro, perché la Guerra fredda era ormai passata – ricorda Feith – ma dopo l’11 settembre l’Alleanza atlantica ha trovato degli obiettivi importanti, in particolare in Afghanistan. Credo che la domanda da porsi sia rispetto alla natura della nostra comunità, la comunità del Trattato atlantico, e agli obiettivi strategici che dobbiamo raggiungere nel mondo oggi. In altre parole, direi loro questo: iniziate a discutere al livello della strategia globale e uscitene con dichiarazioni sull’essenza della nostra comunità e sullo scopo della nostra alleanza”. Da osservatore attento della situazione mediorientale, lo scorso 25 ottobre Feith ha scritto un editoriale sul Wall Street Journal, (“Israele può essere ebreo e democratico?”) per smontare le obiezioni dei detrattori di Israele, secondo i quali la nozione di stato ebraico è antidemocratica. “La tesi principale del mio articolo era che le democrazie di tutto il mondo si dispongono su uno spettro, dalle più liberali a quelle a base marcatamente etnica – spiega Feith – e quando dico liberale mi riferisco all’ideale filosofico del liberalismo, che ha l’individuo come unità fondamentale (l’unità politica chiave) all’interno della società, così come in qualunque gruppo di persone. La mia tesi è che gli Stati Uniti e poche altre nazioni, come il Canada e l’Austrialia, le cosiddette terre dei nuovi insediamenti, tendono a essere estremamente liberali, mentre molte democrazie europee, dell’estremo oriente o dell’ex area sovietica tendono a raggrupparsi verso la zona etnica dello spettro. Svariate leggi e istituzioni in quegli stati si identificano con l’incarnazione nazionale dell’autodeterminazione di un particolare gruppo etnico, secondo un’etnia definita o un credo religioso. Accade in questo modo anche per le loro leggi sull’immigrazione”. “Mentre Israele attirava tante attenzioni dichiarandosi stato ebraico, e la gente si chiedeva se riconoscere gli ebrei e i loro simboli e le loro festività fosse compatibile con i principi democratici, io ho dimostrato che una dinamica di questo tipo è comune a molte altre democrazie. Questi stati non credono di doversi spogliare delle loro identità etniche nazionali per rispettare i diritti civili basilari delle altre minoranze – prosegue Feith – Per questo non è antidemocratico che Israele protegga il proprio status di stato ebraico in modi simili a quelli usati da francesi, svizzeri, britannici, tedeschi, italiani, lituani, giapponesi e da tutti gli altri per proteggere lo status la madrepatriaa”. I colloqui diretti fra israeliani e palestinesi, iniziati a settembre, si sono arenati proprio su questa discussione – è accaduto quando il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, pressato dall’Amministrazione Obama, ha offerto di rinnovare la moratoria sulla costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania se i palestinesi avessero riconosciuto Israele come uno stato ebraico, cosa che loro si sono rifiutati di fare. Feith preferisce non sbilanciarsi rispetto alle possibilità di successo dei negoziati, che sembrano destinati a fallire. “Non mi piace fare dichiarazioni categoriche rispetto al futuro”, dice al Foglio. Forte dell’esperienza come specialista di medio oriente per il Consiglio di sicurezza nazionale e come sottosegretario per le Relazioni internazionali nell’Amministrazione Reagan, Feith nota senza esitazione che “l’approccio usato dall’Amministrazione Obama, che è lo stesso che gli Stati Uniti hanno adottato per decenni, ha sempre fallito. Questa Amministrazione, come le precedenti, si sta relazionando al conflitto come se si trattasse di una serie di reclami ai quali si può rimediare con le concessioni, piuttosto che di un’obiezione ideologica e filosofica fondamentale all’esistenza dello stato di Israele da parte dei suoi nemici arabi. La reale natura del conflitto è che hai persone secondo le quali la Palestina è un territorio arabo e non c’è posto per uno stato ebraico. Se i palestinesi avessero una leadership decisa a tracciare confini condivisi e interessata più ad aumentare la qualità della vita del proprio popolo piuttosto che a distruggere Israele, allora ci potrebbe essere una soluzione pacifica. Ma così non fosse, e stiamo trattando con gente il cui assioma fondamentale è che Israele vada distrutto perché le sue terre appartengono agli arabi e devono essere restituite, allora tutte queste discussioni su dettagli come i confini, la città di Gerusalemme, gli insediamenti, l’acqua, ecc. non daranno alcun progresso e ci dovremo aspettare un fallimento diplomatico come quelli a cui abbiamo assistito in passato”. Al momento, l’esistenza stessa di Israele è in pericolo, sotto la minaccia dalla prospettiva di un Iran con armi nucleari. “Siamo in una posizione per cui le ostilità sono a uno stadio avanzato e nessuna delle opzioni disponibili è un granché – ammette Feith – il risultato di gran lunga più auspicabile sarebbe un avvicendamento ai vertici del governo iraniano a causa di un’ondata di dissenso popolare, come quella a cui abbiamo assistito un anno e mezzo fa dopo i brogli elettorali. E’ già successo, quindi si ha effettivamente la possibilità di risolvere la problematica nucleare in Iran in un modo che non metta in pericolo la pace e la sicurezza internazionale”. Per convincere l’Iran ad abbandonare il suo programma nucleare, secondo l’ex ufficiale del Pentagono, le sanzioni imposte dal Consiglio di sicurezza dell’Onu non sono sufficienti: “Non c’è alcun segno che dimostri l’efficacia delle sanzioni in questo senso. A dire il vero, tutti i segni indicano l’opposto. La mia però non è un’obiezione a questo tipo di misure. Credo che le sanzioni siano d’aiuto finché gli iraniani non avranno intenzione di cooperare, ma non credo che si debbano nutrire grandi speranze, come se queste sanzioni potessero da sole risolvere il problema”. L’atteggiamento che la Casa Bianca ha tenuto finora potrebbe subire le ripercussioni del voto delle elezioni di midterm, con cui gli americani hanno bocciato l’operato del presidente Obama. Durante la conferenza di Roma, Richard Holbrooke, aveva messo le mani avanti, dicendo che il voto di midterm non sarebbe stato contro la politica estera dell’Amministrazione americana. “Ci sono persone deluse dalla politica estera di Obama, che vanno a comporre una parte dell’opposizione all’Amministrazione – sostiene Feith – alcuni malumori sono legati alla politica estera, anche se la maggior parte dei sondaggi dimostra che questo ambito non è al momento una priorità nella mente degli americani, alle prese con pressanti problemi economici nazionali. Detto questo, non si può generalizzare dicendo che la politica estera non influisca sul voto”. L’ambito su cui l’ex ufficiale dell’Amministrazione Bush è più critico nei confronti delle politiche di Obama è la sua strategia mediorientale: “Credo che il presidente, in vari discorsi, in particolare quello del Cairo, nel giugno 2009, ma anche in altre dichiarazioni, dimostri di fraintendere buona parte dei fenomeni fondamentali della politica internazionale. Per esempio, al Cairo ha lasciato intendere che i problemi tra Stati Uniti e musulmani in tutto il mondo, e tra Stati Uniti e il resto dei paesi occidentali, siano in larga parte dovuti all’aggressività, all’arroganza e al militarismo da parte americana. Non credo che questa sia un’analisi corretta, sebbene illustri chiaramente le basi della sua visione del mondo”. Feith si ferma ed esclama: “Credo che tutto ciò sia sbagliato e non sono d’accordo con il presidente! E’ la stessa cosa che stavo dicendo rispetto al conflitto arabo-israeliano: lui e il resto dell’Amministrazione parlano del conflitto come se si trattasse giusto di disegnare dei confini piuttosto che di una questione fondamentale, più filosofica: la legittimazione di Israele in quanto stato. Punto su punto, il presidente Obama ha delle posizioni che non sono in sintonia con quello che io capisco riguardo a questi problemi”. Scrivendo “War and Decision”, Feith, ha voluto ribadire che “la politica della pace è perseguibile solo attraverso la forza. E’ un concetto che vale sia che ci si occupi di tematiche militari sia che si sia interessati a questioni diplomatiche: è importante essere realistici e trarre degli insegnamenti dalla storia, in particolare per quanto riguarda il modo in cui le potenze militari si rapportano alla diplomazia, e capire che l’opinione diffusa che la diplomazia sia un’alternativa al potere militare non coglie la relazione tra i due aspetti – ovvero, che la diplomazia è efficace solo se è sostenuta da un potere militare”. Feith sospira e conclude: “Non è realistico credere di potere avere una diplomazia efficace nei confronti di nazioni problematiche se non si ha alle spalle una capacità militare credibile. Sfortunatamente, molte persone che parlano di questi argomenti al giorno d’oggi non lo capiscono”.
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