Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/11/2010, a pag. 39, l'articolo di Alessandra Farkas dal titolo " Saul Bellow, autobiografia in 708 lettere ", recensione della biografia (pubblicata postuma) di Saul Bellow, autore di Gerusalemme Andata e ritorno del 1976, un reportage interessante che sarebbe ora di ripubblicare. Precedono, due lettere a Philip Roth e Cynthia Ozick


Saul Bellow, Alessadra Farkas

A Philip Roth
Chicago, 12 dicembre 1969 Caro Philip, la tua lettera mi ha rinfrancato, anche se non saprei come o che cosa rispondere. Certo è che i maldicenti staranno affilando i coltelli. Non hanno nemmeno un briciolo di quell’amore ingenuo, forse infantile, per la letteratura che abbiamo noi. Il loro approccio è come quello dei costruttori romani: riduci tutto in rovine e poi su queste basi edifica monumenti culturali, sui quali faranno sventolare la bandiera delle Stronzate. Ad ogni modo, mi fa molto piacere che tu abbia apprezzato Sammler. In questo settore, non ci sono molte persone che mi sento di stimare. Ma da quando sono venuto a Chicago (sono passati davvero dodici anni?) e ho letto le tue storie, ho intuito di avere davanti uno scrittore vero. Quando ero bambino, si vedevano ancora i fabbri al lavoro e non ho mai dimenticato il suono di un vero martello su una vera incudine. Ti piace Woodstock? Ho vissuto otto anni dall’altra parte del fiume. Vissuto davvero? Comunque, non si può dare la colpa ai luoghi. Quello era un bel posto. Cordialmente

A Cynthia Ozick
19 luglio 1987 Ero troppo occupato a diventare scrittore per rendermi conto di quello che succedeva negli anni Quaranta. Ero impegnato nella «letteratura» e assillato da mille preoccupazioni per l’arte, il linguaggio, le mie battaglie sulla scena americana, gli sforzi per veder riconosciuto il mio talento oppure, come gli amici della «Partisan Review», ero alle prese con modernismo, marxismo, nuova critica, e con Eliot, Yeats, Proust, ecc. — in breve, con tutto, tranne i terribili avvenimenti in Polonia. Quando mi sono reso gradualmente conto di questa mia imperdonabile omissione non sapevo neppure da che parte cominciare per accoglierla nella mia vita interiore. Non posso negare una virgola di tutto questo. Dal finire degli anni Quaranta in poi, ho cominciato a rifletterci su e talvolta penso di essere sul punto di cogliere uno spiraglio. Ma tutto questo rimuginare rischia di sfociare probabilmente in qualcosa di insignificante. Non oso neppure immaginare quali possano essere le responsabilità di ciascuno di noi in questa materia, in un crimine talmente sconfinato da trascinare tutti gli Esseri davanti al Giudizio.
NEW YORK — Quando l’editore lo spronò a scrivere la propria autobiografia, Saul Bellow rispose «non ho nulla da dire, a parte il fatto di essere stato insopportabilmente impegnato dal giorno in cui fui circonciso». Cinque anni e mezzo dopo la sua morte, due mesi prima del suo novantesimo compleanno, Viking dà alle stampe l’inedito memoir postumo del Nobel per la letteratura: Saul Bellow Letters, una raccolta, curata da Benjamin Taylor, di ben 708 lettere scritte dall’autore di Herzog e Ravelstein nell’arco di 72 anni. In un’era di email, twitter istantanei e gadget tecnologici che hanno ridotto le nostre abilità di carteggio a pochi secondi, quest’antologia è un’ode all’arte epistolare immortalata da letterati quali Virginia Woolf, D. H. Lawrence, Samuel Beckett, John Cheever e Flannery O’Connor. «Un’arte in via d’estinzione», mette in guardia James Atlas, biografo di Bellow che definisce il Nobel come «l’ultimo grande redattore di lettere del nostro secolo».
In data 28 maggio 1932, troviamo la sua prima corrispondenza: un lucidissimo messaggio d’addio alla «fidanzata» Yetta Barshevsky, dove il quasi 17enne Bellow rivela la sua precoce eleganza di stile, introducendo il suo futuro eroe letterario Moses Herzog. «Forse tu pensi che io sia pazzo?», la sfida. «Ebbene lo sono. Ma posseggo una penna e perciò sono nel mio elemento: con essa recido la nostra relazione».
Come Herzog, il suo capolavoro a struttura epistolare del 1964, dove le lettere scritte dal protagonista costituiscono gran parte del testo, Bellow è un grafomane. I destinatari delle sue innumerevoli missive sono amici e nemici, mogli e amanti, padre e figli, scrittori famosi e aspiranti romanzeri, star del cinema (tra cui Marilyn Monroe e Marcello Mastroianni) e perfetti sconosciuti, fan e detrattori. «Il risultato — teorizza Taylor — è, insieme, l’autoritratto di un grande artista e l’affresco di un’intera epoca».
Tra le lettere più belle vi sono quelle inviate agli amici scrittori: Faulkner, Ellison, Amis, Malamud, Cheever. Nonostante l’enorme differenza di stile e di retaggio culturale, Bellow nutriva un profondo affetto-stima per l’autore di Falconer, suo contemporaneo. «Da quando ci siamo parlati al telefono, ho pensato senza sosta a te» gli rivela nel dicembre 1981, dopo aver appreso che Cheever era gravemente malato.
Con gli scrittori della generazione successiva, — Philip Roth, Cynthia Ozick e Stanley Elkin — Bellow accetta riluttante il ruolo di «maestro». «Non c’è molta gente della nostra professione che mi aggrada», scrive nel dicembre 1969 a Roth, ringraziandolo per la lettera in cui l’autore di Lamento di Portnoy lodava Il pianeta di Mr. Sammler, «eppure leggendo le tue storie ho capito subito che tu eri uno scrittore vero», incalza, spiegando che «quand’ero bambino, c’erano ancora i fabbri e non ho mai dimenticato il suono di un martello vero sopra una vera incudine».
Nell’estate del 1987, Bellow confessa a Cynthia Ozick il proprio senso di colpa per non aver prestato attenzione al tema dell’Olocausto all’inizio della sua carriera. «Ero troppo impegnato a diventare uno scrittore, per notare cosa stava accadendo negli anni 40. Non oso neppure enunciare la responsabilità che ognuno di noi ha in questa tragedia — continua — un crimine talmente smisurato, da meritare a tutti noi il Giudizio Universale».
Trent’anni prima, in una nota di fuoco a Faulkner, aveva denunciato «la miopia tua e di Steinbeck, che vi rifiutate di comprendere la gravità dei brutali attacchi antisemiti di Ezra Pound». Anche se molte lettere sono punteggiate di espressioni yiddish e da un profondo amore per lo stato di Israele, Bellow si autodefinisce «apolitico» e «anti-ideologico», prendendosela col «sinistrismo strappacuore» dei colleghi della «Partisan Review». Uno degli inediti forse più toccanti è la lettera all’autore di The Gospel according to Jesus Stephen Mitchell, in cui Bellow racconta di quando, ricoverato in un ospedale di Montreal a 8 anni con una malattia che rischiò di ucciderlo», scoprì Gesù e il Nuovo Testamento ma non poté mai, per ovvi motivi, condividere quel segreto con i genitori.
Ma accanto alle tematiche filosofico-morali e al suo leggendario sense of humour, abbondano le ansie mondane. Per le scarse vendite dei suoi libri e gli alimenti «troppo onerosi» che è costretto a versare alle ex mogli (soprattutto la seconda, Susan Glassman, che minacciò di spedirlo in prigione). Per la miopia del vecchio padre, Abram Belo, ebreo di San Pietroburgo immigrato in Canada col quale ha un rapporto eternamente conflittuale e cui cerca invano di spiegare l’importanza della borsa di studio Guggenheim che gli consentirà di compiere il suo primo viaggio in Europa. Poi ci sono gli attacchi ai «critici ottusi», che aspettano ogni suo nuovo libro «per affilare i coltelli».
Ma oltre a collezionare una notevole lista di «nemici» (per esempio Freud è liquidato come «un nudnik », un noioso scocciatore) Bellow sa anche essere autocritico. «Non riesco a leggere una sola pagina di Le avventure di Augie March, senza inorridire», confessa a Amis verso la fine della vita.
Persino il biografo Atlas si è detto «sorpreso» dalle lettere a Maggie Staats, il grande amore della sua vita. «Mi manchi in modo atroce» scrive Bellow all’amata, di 27 anni più giovane, in un’ardente missiva firmata your darling, dove la vulnerabilità è l’effetto incontrollabile dell’intensità dei suoi sentimenti. Nei confronti dell’ultima moglie, Janis Freedman, sua ex assistente universitaria e madre della sua ultima figlia, ha un atteggiamento di affetto misto a gratitudine. Se non fosse stato per l’anagrafe, probabilmente avrebbe divorziato anche da lei. «Era un uomo incapace di mettere radici, che cominciava ogni nuova famiglia, come fosse un nuovo libro — teorizza il critico letterario Benjamin Markovitz —, fino a che non è stato troppo stanco e vecchio per ripartire da zero».
Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, cliccare sull'e-mail sottostante