Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/11/2010, a pag. 16, l'intervista di Viviana Mazza a Rodolfo De Benedetti dal titolo "Per la pace, più economia e meno integralismo".

Rodolfo De Benedetti
Che dire dell'intervista a Rodolfo De Benedetti ? Il Centro Peres per la Pace va benissimo, ma non dimentichiamo che il presidente di Israele è stato uno dei padri del centro per la ricerca nucleare di Dimona, il che rappresenta ciò che noi intendiamo per un vero pacifista, avere gli strumenti per una adeguata difesa, mentre gli invitati al convegno di domani a Milano per presentare le iniziative del centro ci paiono piuttosto dei Chamberlain, non dei Churchill. Non capiamo poi che cosa c'entrino quelle risposte che tirano in ballo l'essere credenti oppure no quando si affrontano problemi politici. In Medio Oriente se c'è un paese dove la pratica religiosa è garantita a tutti, quello è Israele. Paragonare il fanatismo religioso israeliano con quello arabo significa non aver capito nulla del conflitto arabo-israeliano. Noi però pensiamo che Shimon Peres l'abbia capito benissimo, la pace va citata sempre quale bene indispensabile, le si aggiunga anche il dialogo, ma sempre con la massima attenzione verso chi questi strumenti usa per indebolire lo Stato ebraico. Fra questi, domani a Milano, ce ne sarà un bel numero.Ecco l'intervista:
Il 'Centro Peres per la pace', Organizzazione non governativa fondata del 1996 dal premio Nobel Shimon Peres, oggi presidente. Tra i tanti progetti: Saving Children, per curare bambini di Cisgiordania e Gaza in Israele.
Domani a Milano alle 18 al teatro parenti il direttore Ron Pundak presenterà le attività del Centro Peres. Partecipano Rodolfo De Benedetti, gli scrittori AMos Oz e Manuela Dviri e l'architetto Massimiliano Fuksas.
«L’idea è di operare concretamente su un tema di cui si parla spesso in modo troppo teorico». Cioè la pace in Medio Oriente. Un territorio nuovo per Rodolfo De Benedetti, 49 anni, primogenito di Carlo De Benedetti, che oggi guida l’impero di famiglia in quanto amministratore delegato della Cir, società attiva nei settori di energia, media, componenti auto, sanità e finanza (il padre, l’azionista di riferimento, resta presidente del Gruppo Espresso). Domani parteciperà ad un incontro per far conoscere in Italia il Centro Peres per la Pace che promuove il dialogo tra israeliani e palestinesi attraverso la cooperazione in vari campi, inclusi salute e agricoltura.
Qual è il suo rapporto con il Centro Peres?
«Mi hanno chiesto di dar loro una mano per farsi conoscere, e io, che faccio un mestiere diverso, mi sono chiesto cosa posso portare. Al di là di considerazioni umanitarie, penso che la pace in Medio Oriente possa essere un’opportunità economica. La crescita in Cisgiordania è del 6-8% mentre l’Europa è in crisi. Mancano infrastrutture nella sanità, nell’edilizia e altri settori dove le nostre aziende sono attive. L’idea è di sviluppare progetti concreti con aziende italiane e privati». Con un ruolo della Cir? « No,èun’iniziativache prendo a titolo personale».
Un interesse dettato anche dalle sue radici? Lei porta il nome di suo nonno Rodolfo, che era ebreo, mentre sua nonna era cattolica. Da Torino fuggirono in Svizzera sotto il fascismo.
«Guardi, non sono praticante o credente, e non sono mosso da una motivazione religiosa. Mio nonno e mio padre mi hanno raccontato delle persecuzioni razziali sin da bambino. E può darsi che un certo interesse per quella parte del mondo mi venga dalle radici. Non c’è però nella nostra famiglia una forte tradizione religiosa, anche se un cugino ha deciso tanti anni fa di andare vivere in un kibbutz. In Israele sono stato diverse volte, e abbiamo investito in un’azienda, la Celltick, che fornisce servizi per veicolare pubblicità sui cellulari. Mi ha sempre affascinato: nell’aria si respira dinamismo, entusiasmo. La gente passa attraverso la guerra e situazioni estreme — lo dico sovente alle mie figlie che hanno più o meno l’età in cui lì sarebbero andate a fare il militare. Ed è anche uno dei Paesi più fertili nel campo della tecnologia».
Ha senso puntare sull’economia se i negoziati di pace sono fermi? Cosa pensa della richiesta ai palestinesi di riconoscere Israele come Stato ebraico?
«Penso che la religione è un fatto privato e che mischiare religione e politica è pericoloso. Sarà una deformazione professionale, ma vedo nell’economia una precondizione essenziale. E che ci siano aziende israeliane che danno lavoro ai palestinesi o viceversa, ospedali israeliani che curano palestinesi, scuole miste — credo che la pace sia questa, non solo un trattato. Fanatismo religioso e povertà sono il concime perfetto per il terrorismo. E credo che l’integralismo religioso israeliano faccia male alla pace quanto quello arabo, e oggi gli integralisti nella politica israeliana hanno un peso importante. Non mi sento di dare una ricetta su Gerusalemme est, i Territori, i coloni. Ma credo che più si riesce a mettere da parte gli aspetti emotivi-religiosi, più si può forse pensare di arrivare a una soluzione».
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