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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.11.2010 Vedere successi dove ci sono solo disastri
Bernard-Henri Lévy e le sue lodi (immeritate) ad Obama

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 novembre 2010
Pagina: 32
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Ma Obama resta una grande speranza»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/11/2010, a pag. 32, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Ma Obama resta una grande speranza ".


Bernard-Henri Lévy, Barack Obama

Bernard-Henri Lévy dà un giudizio posiivo su Obama e per convincere il lettore enumera i suoi 'successi'.
Per esempio il fatto di non aver aspettato la fine del mandato per occuparsi del conflitto mediorientale. Ha solo aspettato l'imminenza delle elezioni di Midterm...e non è servito a salvare la maggioranza al Congresso.
Per quanto riguarda il ritiro dall'Iraq entro il 2011. E' vero, Obama ha mantenuto la promessa, ma non deve essere stato molto difficile, dato che era una cosa già programmata dal suo tanto odiato predecessore.
BHL vede nella politica di Obama con l'islam un successo: "
Per quanto concerne, più in generale, quello che Samuel Huntington aveva incautamente chiamato lo «scontro delle civiltà», Obama ha calmato il gioco, ha teso la mano all’Islam moderato e — talora con un grande discorso (al Cairo), talora attraverso piccoli segnali (la vicenda della moschea di New York) — ha limitato i rischi di uno scontro, blocco contro blocco, da cui le democrazie, e la Democrazia, sarebbero uscite inevitabilmente perdenti.". Tattica interessante, quella di descrivere come successi alcuni dei punti più bassi della politica di Obama.
A che cosa ha portato la sua mano tesa verso l'islam ? L'Iran ha compreso che il presidente Usa è deble e continua imperterrito il suo programma nucleare, conscio del fatto che non ci saranno ripercussioni, la mano di Obama è sempre tesa.
Il resto del mondo musulmano non prende sul serio Obama.
Il fatto di aver appoggiato la costruzione di una moschea a Ground Zero non fa di lui un grande presidente, ma una persona miope e insensibile che non valuta nè il dolore dei parenti delle vittime dell'11 settembre, nè l'opinione contraria dei musulmani moderati, nè il significato simbolico di una costruzione simile.
BHL scrive : "
Possono parlare di «fallimento» solo coloro che, confondendo politica e magia, rimpiangono che egli non abbia trasformato, in un batter d’occhio, il proprio Paese e il mondo. ". Nessuno si aspettava che Obama tirasse fuori una bacchetta magica e risolvesse in un paio d'anni i problemi del mondo. Però le sue mosse, specialmente in politica estera, non hanno denotato lungimiranza, ma debolezza, inesperienza, indecisione.  
Nella conclusione del pezzo si legge : "  fra due anni si prenderà anche una clamorosa rivincita su chi, in fondo, non ha mai digerito che un Nero si insediasse alla Casa Bianca. ".Tacciare di razzismo chi non condivide la politica di Obama oltre che essere ridicolo, non cambia la realtà. La sua politica è fallimentare e questo non ha nulla a che vedere col colore della sua pelle.
Ecco il pezzo:

Così dunque Obama ha perso. Come previsto, sebbene in maniera meno netta di quanto pronosticato e soprattutto di quanto speravano gli illuminati dei Tea Party, gli elettori americani gli hanno inflitto un voto-sanzione. Del resto, egli stesso l’ha immediatamente riconosciuto, con una semplicità, un’eleganza, un fair play degni di ammirazione.

Detto questo, la campagna per le elezioni di medio termine è finita. Ci sono argomenti che, finché la battaglia impazzava, forse facevano parte del gioco (per quanto...) ma, ora che si è conclusa e si torna alle cose serie, ci piacerebbe non sentire più.

Bisognerebbe smettere di dire, per esempio, che la politica economica di Obama ha «creato disoccupazione», mentre tutti gli studi scrupolosi (a cominciare da quello di fine agosto dei filo-repubblicani Mark Zandi e Alan Blinder) riconoscono che ha creato circa tre milioni di nuovi posti di lavoro e che il tasso di disoccupazione, senza di essa, si situerebbe fra l’11 e il 16%. Bisognerebbe smettere di raccontare che l’economia mondiale, con Obama e per sua colpa, stava correndo verso il fallimento, allorché è fortemente probabile (come scrive François David sul Figaro del 1˚novembre) che abbia cominciato a risollevarsi sotto l’impulso, certo, dei «Paesi emergenti», ma con l’appoggio — perché non ammetterlo? — di una politica monetaria statunitense, l’unica veramente possibile in un Paese i cui consumatori continuano a pesare, da soli, il 18% del Pil mondiale.

In ogni modo, non si può ritenere un presidente eletto due anni fa responsabile del cattivo stato dell’America, della lenta distruzione delle infrastrutture, del declino del sistema educativo o della produttività, come fa Arianna Huffington nel suo libro ( Third World America, Crown Publishing Group), poiché tale rovina è cominciata, lo dice bene lei stessa, quando Obama non era ancora entrato in politica. Non si può rimproverargli di agire al tempo stesso troppo velocemente e non abbastanza. Di preoccuparsi troppo dei consensi, di fare troppi compromessi con gli avversari, e di volersi imporre con la forza. Non ci si può impietosire sul suo 49% di opinioni favorevoli nei sondaggi, mentre altri — per esempio Sarkozy — sono fermi al 29%. Né sul «disincanto» dei suoi sostenitori, visto che due autori satirici — Jon Stewart e Stephen Colbert — sono riusciti, nelle ultime ore della campagna, a far manifestare sul National Mall 150.000 persone che gli erano furiosamente favorevoli. Non si può continuare a ripetere che un sisma minaccia Washington, quando a questo presidente accade quel che successe, a metà mandato, a tanti altri presidenti prima di lui: senza risalire fino a Eisenhower, Nixon o Johnson, Obama è più o meno nella stessa situazione di Reagan nel 1982, di Clinton nel 1994, di Bush nel 2006. Non è la fine del mondo.

Bisogna smettere anche di farfugliare che Obama «non ha mantenuto le promesse». Di quali promesse si parla? Per quanto riguarda il sistema sanitario che, prima di lui, condannava 46 milioni di poveri alla mancanza di cure e, quindi, a una morte precoce, egli ha avviato la più grande rivoluzione che il Paese abbia conosciuto dall’epoca del movimento per i diritti civili: certo, bisogna portarla a termine, rimane cioè da votarne il bilancio. Ma su questo punto la palla è nel campo dei repubblicani e spetterà a loro dire se si comporteranno da sabotatori o da responsabili.

Quanto all’Iraq, ha mantenuto la parola, poiché il ritiro, fin da ora, è avviato e alla fine del 2011 non ci sarà più un soldato americano a Bagdad o a Bassora. Quanto al Medio Oriente, ha fatto il contrario rispetto ai suoi predecessori, che aspettavano gli ultimi mesi dell’ultimo anno del loro ultimo mandato per accorgersi del problema e impegnarsi in una corsa contro il tempo, il cui principale scopo era di ottenere, strappandolo coi denti, come un trofeo, un vago accordo raffazzonato che, beninteso, in realtà non veniva mai raggiunto: Barack Obama, invece, si è reso conto dell’urgenza, e della complessità, dell’impresa fin dal primo giorno del primo anno del suo primo mandato. Già questo non è così male.

Per quanto concerne, più in generale, quello che Samuel Huntington aveva incautamente chiamato lo «scontro delle civiltà», Obama ha calmato il gioco, ha teso la mano all’Islam moderato e — talora con un grande discorso (al Cairo), talora attraverso piccoli segnali (la vicenda della moschea di New York) — ha limitato i rischi di uno scontro, blocco contro blocco, da cui le democrazie, e la Democrazia, sarebbero uscite inevitabilmente perdenti.

Ha cambiato il volto dell’America. Ha inventato un tono, e un brivido, nuovi. Nel braccio di ferro con Wall Street, ha evitato la trappola di un populismo che non risparmia né i democratici né i loro avversari. Ha reagito con sangue freddo, senza cedere alla tentazione di amplificare il proprio ruolo di «comandante in capo» in prima linea della «guerra contro il terrore», quando Al Qaeda si è invitata nella campagna delle elezioni di medio termine inviando, proprio negli ultimi giorni, due pacchi con esplosivo agli ebrei di Chicago. Anche questo testimonia un modo di fare politica con uno stile diverso da quello del suo predecessore.

In poche parole, Barack Obama ha talvolta «deluso» (Guantanamo, l’Iran...), ma non ha «fallito». Possono parlare di «fallimento» solo coloro che, confondendo politica e magia, rimpiangono che egli non abbia trasformato, in un batter d’occhio, il proprio Paese e il mondo.

Da parte mia, ritengo più che mai che la sua apparizione, poi la sua elezione, poi la sua azione siano fra le cose migliori accadute nell’epoca buia che, ovunque e sempre più spesso, è la nostra.

Sono pronto a scommettere che questo presidente, sebbene indebolito ma con ancora e la maggioranza in Senato e la massima autorità sulla politica estera del Paese, non ha finito di sorprenderci, e che fra due anni si prenderà anche una clamorosa rivincita su chi, in fondo, non ha mai digerito che un Nero si insediasse alla Casa Bianca.

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