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Il Foglio Rassegna Stampa
06.11.2010 Mossadeq, il caso è riaperto
Nel 1953 il premier iraniano non cadde per mano della Cia, ma del clero sciita

Testata: Il Foglio
Data: 06 novembre 2010
Pagina: 8
Autore: Tatiana Boutourline
Titolo: «Mossadeq, il caso è riaperto»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/11/2010, a pag. IV, l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo "Mossadeq, il caso è riaperto".


Mossadeq

Perché ci odiano?”, si interrogava George W. Bush in un discorso pronunciato il 20 settembre 2001. L’ex presidente americano si riferiva ad al Qaida, ma la stessa domanda riemerge ciclicamente, dalla crisi degli ostaggi in poi, anche nella definizione dei rapporti con l’Iran. Nella disamina della cattiva coscienza americana nei confronti di Teheran il peccato originale più gettonato porta il nome di Mohammad Mossadeq. L’ha evocato Barack Obama l’anno scorso all’Università di al Azhar “durante la Guerra fredda gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto” e l’ha citato, in maniera più esplicita, il segretario di stato di Bill Clinton, Madeleine Albright.
“L’Amministrazione Eisenhower credeva che le sue azioni fossero giustificate da motivazioni strategiche, ma il colpo di stato si è chiaramente rivelato un punto d’arresto per lo sviluppo politico dell’Iran ed è facile comprendere adesso perché così tanti iraniani continuino a stigmatizzare questa intromissione da parte dell’America”. Erano gli anni della presidenza di Mohammad Khatami e della retorica sul “dialogo tra le civiltà” e l’ipotesi della normalizzazione serpeggiò per alcuni mesi. Il 17 marzo 2000 pochi giorni prima del Nowruz, l’anno nuovo iraniano, Albright scelse la piattaforma dell’American Iranian Council (organizzazione che in seguito, alla vigilia della guerra in Iraq, perorerà l’ipotesi di un grande patto Usa- Iran) per rivelare che Washington aveva “aggiustato le lenti attraverso le quali guardava l’Iran”. Nel giugno del 2000 il New York Times entrò misteriosamente in possesso di un documento segreto della Cia (“Clandestine Service History. Overthrow of President Mossadeq of Iran, November 1952-August 1953”) che confermava il coinvolgimento dell’agenzia nel colpo di stato del ’53.
Dopo l’excusatio non petita della Albright la coincidenza apparve tutt’altro che casuale anche perché, fino ad allora, l’accesso ai file iraniani si era sempre scontrato contro un muro di gomma. Negli anni Novanta si diffuse la voce che la pubblicazione dei documenti relativi alle attività dell’agenzia in Iran negli anni della Guerra fredda fosse prossima, ma l’accesso ventilato da ben tre direttori dell’agenzia fu poi sempre negato. Alcuni funzionari dissero che i documenti erano stati distrutti negli anni Sessanta, altri che le informazioni disponibili erano andate perdute in un incendio, altri ancora invocarono rischi per la sicurezza nazionale.
Il rapporto pubblicato dal Nyt reca la firma di Donald N. Wilber, un agente che posava da esperto di architettura persiana. Scritto nel marzo del ’54 conferma per sommi capi la vulgata sulla caduta di Mossadeq, una storia che non sfigurerebbe in un romanzo di Le Carré. “Ecco come ci libereremo di quel matto” annunciò nel giugno del 1953 il segretario di stato americano John Foster Dulles agitando tra le mani una copia del piano che due mesi dopo avrebbe rovesciato Mossadeq. Nel ’52 la rivista Time lo aveva eletto “uomo dell’anno” ribattezzandolo il George Washington iraniano, lo scià Mohammad Reza Pahlavi era relegato in un ruolo da comprimario e Mossadeq campeggiava fiero sulla copertina rivitalizzando i sogni di grandeur persiana. “Gli iraniani hanno aperto un tesoro nascosto sul quale era sdraiato un drago”, aveva proclamato dopo aver espropriato l’Anglo Iranian Oil Company e nazionalizzato il petrolio. L’insubordinazione costò cara. Il “drago inglese” non aveva alcuna intenzione di alzarsi: la presenza militare britannica nel Golfo Persico fu rafforzata, un blocco navale ostacolò l’esportazione di petrolio, i capitali iraniani nelle banche inglesi furono congelati e un embargo commerciale mise in ginocchio l’economia. Nella primavera del ’53 la Casa Bianca era pronta a scaricare Mossadeq. Il negoziato per la risoluzione della controversia petrolifera anglo-iraniana si era arenato proprio quando una ricomposizione era parsa possibile. Ostaggio del suo nazionalismo, fatalmente condizionato dalle enormi attese suscitate, Mossadeq non era disposto a cedere su nulla e l’avvicendamento tra l’Amministrazione di Harry Truman e quella di Dwight Eisenhower siglò il suo destino.
Negli anni del maccartismo e della guerra di Corea i rapporti di Mossadeq con il partito comunista Tudeh – rapporti più combattuti e ambivalenti di quanto ritenessero Churchill e Eisenhower – non poterono che far pendere il piatto della bilancia contro di lui. Per il nuovo presidente americano un accordo unilaterale con Mossadeq “non sarebbe valso nemmeno la carta sulla quale fosse stato scritto”. Nel maggio del ’53, Wilber prese accordi con l’omologo dell’MI6 Norman Darbyshire, capo della sezione iraniana dell’intelligence britannica. Altri accordi seguirono a Beirut. Furono stanziati 285 mila dollari per realizzare l’impresa, gli Stati Uniti ne avrebbero sborsati 147 mila, la Gran Bretagna 137 mila. Poco dopo Kermit (Kim) Roosevelt, direttore della divisione Africa-vicino oriente della Cia, comparve a Teheran per sovrintendere l’Operazione Tp-Ajax. Era il 19 luglio del ’53.
Buoni studi e ottimi natali, secondo il collega John Waller, Kim Roosevelt “era cresciuto con la mentalità del grande gioco anglo-russo applicata alla Guerra fredda”. Un’altra spia famosa, un altro Kim, il famigerato Philby dei Cambridge Five disse di lui: “Sei l’ultima persona che ci si immaginerebbe invischiata fino al collo in affari sporchi”. Nipote del presidente Theodore Roosevelt e lontano cugino di Franklin Delano Roosevelt, Kim era figlio di Kermit Roosevelt (secondo la tradizione familiare i maschi venivano battezzati Kermit, alternando nell’uso una generazione di Kim ad una di Kermit). Kim nato a Buenos Aires nel 1916 era cresciuto vicino a Long Island. Laureato a Harvard aveva insegnato storia prima di essere arruolato nell’Office of Strategic Services (Oss), agenzia antesignana della Cia.
La sua carriera era iniziata in Egitto e le missioni in medio oriente rimasero frequenti anche quando fu assegnato all’ufficio di Washington. Giunse in Iran varcando il confine iracheno. Si presentò come “James Lockridge”. A Teheran fu sistemato in un alloggio affittato dall’MI6. Frequentava l’ambasciata turca e si dilettava con il tennis. Lo divertiva ricordare come in quelle partite fosse andato vicino a bruciare la sua copertura. Quando un colpo finiva in rete gli veniva spontaneo esclamare “Oh, Roosevelt!” e dinnanzi allo stupore dei compagni non gli restava che giustificare l’imprecazione con il disprezzo per Franklin Delano Roosevelt.
Nessuno sospettò che Mr. Lockridge altri non fosse che il nipote del 26esimo presidente degli Stati Uniti e che, sotto la sua direzione, l’intelligence inglese e americana stesse complottando il rovesciamento del primo ministro iraniano. Nel frattempo il braccio di ferro tra Mossadeq e lo scià sulle prerogative costituzionali di ciascuno non solo non si era allentato, ma il rapporto appariva ormai irrecuperabile. Londra voleva la testa di Mossadeq. Il 30 maggio l’ambasciatore americano Loy Henderson consegnò al sovrano iraniano una lettera di sostegno da parte di Churchill e lo scià notò ironicamente: “Mi hanno sempre consigliato di comportarmi come un monarca costituzionale nel senso europeo del termine; pare che adesso la loro politica a questo riguardo sia cambiata”.
Lo scià avrebbe preferito che fosse il Parlamento a dispensare Mossadeq ma alla fine si piegò alle pressioni anglo-americane firmò due decreti: nel primo sollevava il suo primo ministro dall’incarico e nel secondo lo sostituiva con il generale Fazlollah Zahedi. Ma il piano organizzato tra la notte del 15 e le prime ore del 16 agosto fallì. Il comandante Nematollah Nasiri incaricato di sorprendere Mossadeq nel cuore della notte insieme ad un piccolo distaccamento naufragò con l’arresto dello stesso Nasiri. Il network militare del partito comunista Tudeh aveva infiltrato la guardia imperiale e Mossadeq aveva sventato la cospirazione. Nella sua relazione al presidente Eisenhower il sottosegretario di stato Walter Bedell Smith attribuì il fallimento dell’Operazione Tp-Ajax soprattutto ai tentennamenti dei generali coinvolti e la sua conclusione fu che per salvare il salvabile a Teheran fosse necessario “accoccolarsi accanto a Mossadeq”.
Solo tre giorni dopo il 19 agosto lo scenario a Teheran mutò radicalmente. Dalle prime ore della mattina capannelli sempre più numerosi di persone cominciarono a gridare slogan pro scià vicino al bazar. Una folla si diresse verso il ministero dell’Interno, le poste e la piazza Baharestan, dove aveva sede il parlamento. A mezzogiorno i ribelli si erano impadroniti dell’ufficio del telegrafo e del telefono. Alle tre e mezza del pomeriggio la radio di Teheran era in mano ai rivoltosi e il generale Zahedi arrivò alle 5 ad annunciare ai microfoni la vittoria, mentre Mossadeq issava una bandiera bianca sulla sua residenza. Ma cosa accadde nell’intervallo tra il 16 e il 19 agosto? Quale ruolo giocò la Cia in quelle ore concitate? Il 19 agosto la Pravda accusò gli americani di essere dietro il putsch del 15. Il 21 agosto l’ambasciatore Henderson mise in guardia Washington : “Si è sparsa l’opinione che il governo americano abbia contribuito con fondi e assistenza tecnica al rovesciamento di Mossadeq”. Un’interpretazione avvalorata negli anni successivi da una serie di articoli e pubblicazioni accademiche e da un libro scritto nel 1979 da Kim Roosevelt “Countercoup.
The struggle for the control of Iran”. Testimonianze che illustrarono una coreografia di sobillatori, mercenari e bustarelle a disposizione dell’abile regia di Roosevelt. “Devo la mia corona a Dio, al mio popolo, al mio esercito e a lei”, gli avrebbe detto lo scià. Sedotto dallo sfolgorio dell’Operazione Ajax anche Winston Churchill che non gli lesinò encomi.“ Se fossi stato qualche anno più giovane – gli disse – non mi sarebbe piaciuto niente di più che prestare servizio sotto il suo comando in questa grande avventura”. Ma la storia dell’Operazione Ajax così come è stata tramandata da Roosevelt presenta ancora punti oscuri. Lo stesso Eisenhower che pur gli aveva appuntato una medaglia sulla giacca, non era affatto convinto del suo racconto. Quando si incontrarono l’8 ottobre del ’53 Eisenhower scrisse nel suo diario: “Ho ascoltato il suo rapporto dettagliato e assomigliava più a un romanzo da quattro soldi che ad un fatto storico”. Darioush Bayandor ha dedicato tre anni di ricerche alla ricostruzione degli eventi successivi al fallito putsch del 15 agosto. Le sue riflessioni sono contenute nel libro recentemente pubblicato da Palgrave Mac- Millan, “Iran and the Cia. The fall of Mossadeq revisited”.
Storico, già professore all’Università di Teheran e diplomatico di lungo corso delle Nazioni Unite, Bayandor è giunto a conclusioni non dissimili da quelle maturate da Eisenhower sull’agente Roosevelt. La tesi centrale del libro è che dopo il fallimento dell’Operazione Ajax del 15-16 agosto la Cia e l’MI6 non avevano alcun piano B per il 19 agosto. “Le comunicazioni di Roosevelt con i suoi superiori – spiega Bayandor al Foglio – non sono affatto quelle di qualcuno che sta preparando un D-day.
Il 17 agosto informa Washington che la posizione di Mossadeq si sarebbe rafforzata nelle settimane a venire e chiede di provvedere a piani di fuga per 15 persone. Il giorno dopo domanda a Washington se è il caso di chiudere la base operativa di Teheran. Di certo non richiede un’estensione della missione anche se ha l’occasione per farlo. Il 18 agosto il quartier generale della Cia ammette l’insuccesso in un cablogramma e ordina di chiudere l’Operazione in assenza di raccomandazioni in senso contrario da parte di Roosevelt o dell’ambasciatore Henderson. Raccomandazioni in tal senso non arrivarono”. Bayandor sottolinea che lo stesso Henderson, una figura di primo piano nella programmazione dell’Operazione Tp-Ajax non era a conoscenza dei propositi di Roosevelt riguardo al 19, un fatto curioso se si considera che il “consiglio di guerra” nel quale la Cia avrebbe organizzato il colpo di stato si sarebbe tenuto proprio nella sua ambasciata.
Sta di fatto che quando la Cia riceve i primi ragguagli da Teheran il 19 agosto alle nove la reazione è di profonda incredulità. Né la Casa Bianca, né il dipartimento di stato, né il direttore della Cia erano stati allertati che qualcosa bolliva in pentola. La sera del 19 agosto il generale Charles Cabell capo operativo dell’agenzia in quella fase manda un memorandum ad Eisenhower in cui parla di “reazione popolare e militare”contro Mossadeq e indica che forze pro scià hanno preso il controllo di Teheran.
E’ singolare che proprio nel giorno della vittoria non ci sia alcuna traccia del ruolo giocato in quelle ore da Roosevelt e dai suoi compagni. “Gli eventi li colsero di sorpresa e cavalcarono l’onda – dice Bayandor – ma il loro contributo al rovesciamento di Mossadeq fu in realtà solo residuale”. Richard Helms, direttore dell’agenzia dal ’66 al ’73 ha dichiarato che la Cia enfatizzò deliberatamente il peso del suo ruolo in Iran per innalzare il suo status a Washington. Dopo la baia dei porci, in particolare, l’agenzia aveva bisogno di vantare conquiste che giustificassero il suo crescente budget e la sfavillante Operazione Tp-Ajax era uno dei suoi migliori biglietti da visita.
Di converso, il mito della cacciata di Mossadeq per mano degli occulti manovratori americani è divenuto un tassello imprescindibile per comprendere il misto di fascinazione e repulsione che avvince da cinquant’anni l’Iran all’America. Come notò con una condiscenza non scevra di finezza psicologica Henderson in un dispaccio di quei giorni, “gli iraniani sono incapaci di credere che un importante sviluppo politico possa avere luogo nel loro paese senza un intervento straniero”.
Bayandor contesta tanto l’importanza di Roosevelt quanto l’ipotesi propagandata dagli ambienti monarchici che la caduta di Mossadeq sia imputabile ad una sollevazione popolare spontanea (qiam-e-melli) in difesa dello scià. Per rileggere quei giorni – dice – bisogna guardare al contesto. La crisi economica aveva assottigliato il consenso per Mossadeq, cresceva la fronda tra i militari e lo spettro del comunismo stava allargando la frattura con il clero sciita. Il 18 agosto il Tudeh invocò l’instaurazione di una repubblica democratica e i suoi leader parlavano apertamente dell’egemonia prossima ventura del proletariato.
Per l’aristocrazia clericale di Qom la cacciata dello scià non poteva che preludere ad un secolarismo alla Atatürk. Se l’ostilità a Mossadeq non solo di gruppi fondamentalisti come i Feday’ian-e Islam di Navab Safavi di Ruhollah Khomeini e del radicale ayatollah Kashani è acclarata, il ruolo svolto in quei giorni dal grande ayatollah Mohammad Hossein Bouroujerdi è più misterioso. Bayandor scrive che il 16 agosto il grande ayatollah espresse una succinta opinione, che non aveva il valore di una fatwa, ma rappresentava comunque un segnale abbastanza potente da mettere in moto il potente network clericale. La dichiarazione del grande ayatollah era lapidaria: “Mamlekat Shah mikhahad”, il paese ha bisogno di un re. Fu questo via libera a permettere agli ayatollah Kashani e Behbahani di mobilitare i pugni alzati che la sera del 18 e la mattina del 19 agosto riempirono ancor prima dei militari le piazze di Teheran, Tabriz, Isfahan, Shiraz.
“A causa del suo enorme peso geopolitico l’Iran – ha detto Bill Clinton nel ’99 – ha subito molti oltraggi da diversi paesi occidentali. Credo che a volte sia importante dire alle persone, guardate, avete il diritto di essere arrabbiati per qualcosa che il mio paese o la mia cultura o altri alleati con noi vi hanno fatto cinquanta, sessanta, cento o centocinquant’anni fa”. E’ un colossale cortocircuito storico-psicologico quello che spinge Washington a cercare la distensione con l’Iran addossandosi la responsabilità dell’Operazione Tp-Ajax con gli eredi di coloro che ne hanno determinato il trionfo.

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