Riportiamo dal GIORNALE del 05/11/2010, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Il presidente paga l’insicurezza in politica estera ".
Fiamma Nirenstein Barack Obama
Si sente dire spesso che le elezioni di midterm, o forse tutte le elezioni americane, o forse addirittura tutte le elezioni del mondo, se ne infischiano della politica estera e corrispondono poi in definitiva solo al momento in cui un cittadino verifica nervosamente il portafoglio che ha in tasca. Ma non è così: ci sono fiumi carsici di incontenibile passione nel modo in cui i cittadini americani si autodefiniscono rispetto al mondo; e se è vero che il ciclo liberista non è mai finito così come la ribellione rivoluzionaria antistatalista, se è vero, come ha scritto Giuliano Ferrara, che la frontiera individualista non è morta e per questo Obama deve oggi soffrire, è anche vero che un americano può scatenarsi in sogni pacifisti e politicamente corretti come il rifiuto della guerra del Vietnam e le proteste contro George Bush, ma questo non lo trascinerà su una linea utopica irrealistica, pericolosa per la sua sicurezza e per quella della sua famiglia, non trasformerà la sua multietnicità in una identità border line rispetto al rispetto di se stesso e della propria cultura.
Ci sono gesti simbolici e evenienze pratiche che hanno portato molti americani a pensare in questi due anni che qualcosa non andava: chi può dimenticarsi il profondo inchino di Obama a re Abdullah d'Arabia, o il discorso all'Università del Cairo, un misto di sensi di colpa e di improbabili mani tese verso l'Islam, chi scorda lo strano trattamento ostentatamente insultante destinato a Netanyahu e alla delegazione israeliana in vista alla Casa Bianca dove non fu nemmeno offerto uno snack e Obama rifiutò la consueta foto ricordo con stretta di mano. È contro lo spirito americano, persino poco dignitoso approvare un processo civile per Khalid Sheikh Mohammed, contro il buon senso affrettarsi alla chiusura di Guantanamo e accettare la costruzione di una Moschea a Ground Zero. Ed è politica estera, statement sull’Islam e sul terrore.
E d'altra parte non si può, senza pagare pegno alla coscienza libertaria americana, arrivare a un punto di realismo politico tale da rifiutare il sostegno al movimento popolare iraniano che moriva nelle strade per cercare di restaurare la democrazia contro il regime degli Ayatollah. In generale, nessuno ha avuto l'impressione in America che il giovane presidente, un'icona di ideali altissimi, di retorica fiammeggiante, trasferisse l'energia, la passione di cui è stato oggetto, sulla libertà e i diritti umani nei Paesi martoriati da regimi islamisti o comunisti o fascisti che tormentano i loro cittadini. Niente: la passione gli si è aggiustata elegantemente addosso come un doppiopetto e non si è spiegazzata per prendere posizione per la democrazia, cosa che invece ogni americano dentro di sé, per quanto realista, vuol fare, o fa. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, secondo le attendibili indagini McLaughin, l’elettorato americano è saldamento filo-israeliano: il 53 per cento dichiara che non potrebbe votare per un candidato anti-israeliano persino se fosse d’accordo con tutte le altre sue posizioni.
Il fatto è che la mano tesa verso l'Islam non solo non ha portato a nessun successo, ma ha creato una situazione di grave pericolo, soprattutto in Medio Oriente. L'Iran ha risposto alle politiche di dialogo marciando verso la bomba atomica e ha costruito ormai una rete di alleanze che rischia di dar fuoco a tutta l'area. I paesi moderati come l'Egitto e la Giordania o l'Arabia Saudita sono terrorizzati e si armano fino ai denti. Ahmadinejad minaccia di distruggere Israele tutti i giorni, ma anche i sunniti lo temono. Il povero Libano è ormai soggiogato da un'asse iraniano-siriano che agisce prevalentemente attraverso gli Hezbollah; questi sotto gli occhi dell'Unifil hanno accumulato 40mila missili. Il processo per scoprire gli assassini di Hariri è stato vanificato anche se tutti sanno che c'è dietro la Siria insieme agli Hezbollah. E proprio la Siria è stata vellicata in tutti i modi dagli Usa, che ne hanno ottenuto in cambio sberleffi e una solida alleanza fra Bashar e l'Iran. La Turchia intanto, sotto gli occhi dell'Occidente, è entrata, lo si voglia o no, a far parte del blocco Iran-Siria-Hamas. La situazione irachena, carica della retorica del ritiro, è marcata da stragi mentre Iran e Siria aiutano i terroristi, quella afghana da un tentativo quanto mai fantasioso di arruolare i talebani nella costruzione di un Paese democratico.
E l'arena israelo-palestinese, caricata di troppe fantasie, si deteriora proprio perché Obama stesso ha costruito una serie di ostacoli sulla via dei colloqui, sbagliando nell'affanno di far avanzare velocemente il processo di pace. Hamas intanto cresce in denaro e in salute con l'aiuto degli Usa e con buona pace dell'Autorità Palestinese, che ne esce indebolita. Insomma, mentre dallo Yemen partono le bombe, Obama va al midterm dopo aver tentato di diventare il miglior amico del mondo col solo risultato di averlo eccitato nella speranza di aver di fronte un'America incerta, timida, pentita, semisconfitta. L’americano medio non ama questo sentimento.
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